SENTENZA N. 168
ANNO 2006REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 45, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 16 giugno 2004 dalla Corte di cassazione sull’istanza proposta da B.F., iscritta al n. 828 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 marzo 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte di cassazione, Sezione I penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la parte civile tra i soggetti legittimati a presentare la richiesta di rimessione del processo.
La Corte rimettente sottolinea che la parte civile, in un processo pendente davanti alla Corte di assise di Trani, ne ha chiesto la rimessione, «prospettando come pregiudizievole per il suo corretto svolgimento e per la libera determinazione delle persone che vi partecipano la grave situazione locale venutasi a creare nell’ambiente giudiziario per effetto di taluni comportamenti, asseritamente illeciti, tenuti da componenti delle forze dell’ordine e da magistrati dell’ufficio del pubblico ministero nella trattazione della vicenda criminosa, ed evidenziando altresì motivi di legittimo sospetto circa l’effettiva imparzialità del giudice, in considerazione della campagna di stampa aspramente avversa alle posizioni dell’accusa e della parte civile e degli atteggiamenti manifestati dal presidente della corte di assise nella conduzione dell’istruttoria dibattimentale e in alcuni provvedimenti endoprocessuali». La Corte di cassazione rileva, poi, come rivesta indubbia e pregiudiziale rilevanza la delibazione relativa alla legittimazione della parte civile a presentare la richiesta di rimessione: delibazione che conduce a risposta negativa, considerato che la lettera dell’art. 45 del codice di rito, i relativi lavori preparatori e la stessa rigorosa giurisprudenza, formatasi sotto la vigenza del codice abrogato, indubbiamente escludono la parte civile dal novero dei soggetti legittimati a formulare la richiesta di rimessione del processo.
Il giudice a quo segnala come siano previsti nel codice di rito casi, già positivamente scrutinati da questa Corte, in cui risultano limitati i diritti della parte civile; ma quelle limitazioni e preclusioni rinvengono giustificazioni che non possono valere rispetto alle garanzie di imparzialità e indipendenza del giudice e del correlativo diritto di difesa, che stanno a base dell’istituto della rimessione e che legittimano la deroga al principio del giudice naturale, precostituito per legge. A fronte del valore della imparzialità del giudice − centrale nel quadro dei valori insiti nel principio del giusto processo, ed affermato sia dalla Costituzione, sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia dal Patto internazionale sui diritti civili e politici: principio che a sua volta postula condizioni di parità dialettica tra tutte le parti − il diverso trattamento riservato alla parte civile, quanto alla legittimazione a richiedere la rimessione del processo, non risulterebbe in linea con il dettato costituzionale. Il tutto, d’altra parte, in sintonia con «le ripetute ed unanimi argomentazioni della dottrina, fortemente critica verso l’irrazionalità della limitazione codicistica, nonché le rinnovate prospettive di lettura logico-sistematica dell’istituto e degli interessi ritenuti con esso meritevoli di protezione alla luce dei principi del “giusto processo”».
2. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata irrilevante e comunque infondata. L’Avvocatura si è limitata a dedurre l’irrilevanza della questione «alla luce del tradizionale insegnamento, secondo il quale la parte civile, in quanto eventuale, non può richiedere la modificazione del giudice naturale precostituito per legge».
Con successiva memoria, la stessa Avvocatura ha sostenuto la infondatezza della questione, osservando che il danneggiato dal reato ha libera scelta tra la volontaria partecipazione al processo penale ed il promovimento della azione risarcitoria davanti al giudice civile, senza che – in questa seconda ipotesi – il giudicato penale di assoluzione possa in alcun modo incidere sul giudizio civile. Sarebbe, quindi, del tutto razionale e coerente con il sistema che il fondamentale principio sancito dall’art. 25, primo comma, della Costituzione, «non possa essere derogato dietro iniziativa di una parte processuale diversa dalle parti necessarie».
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, del codice di procedura penale, in quanto tale norma non prevede la parte civile tra i soggetti legittimati a presentare la richiesta di rimessione del processo. Secondo la Corte di legittimità, una simile omissione si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, in quanto, a fronte del valore della imparzialità del giudice − il quale occupa un posto centrale tra i principi del “giusto processo” e, quindi, postula condizioni di parità dialettica tra tutte le parti − non può ritenersi ragionevole né costituzionalmente compatibile il diverso trattamento che la disposizione censurata riserva alla parte civile, rispetto all’imputato ed al pubblico ministero, in tema di legittimazione a richiedere la rimessione del processo.
2. – La questione non è fondata.
Va anzitutto rammentato come soltanto nel codice di procedura penale del 1865 venne prevista la possibilità che la domanda di rimessione del procedimento per legittimo sospetto fosse formulata, oltre che dall’imputato o dall’accusato, anche dalla parte civile. Già nel codice del 1913, infatti, tale scelta fu abbandonata: la Relazione al Re del Guardasigilli dell’epoca sottolineava esplicitamente che «l’attività e prudenza dello stesso pubblico ministero, che può essere sempre eccitata dalle parti, è sufficiente guarentigia per chi, come il civilmente responsabile e la parte civile, non abbia nel procedimento che interessi meramente civili».
Tale scelta venne confermata anche nel codice del 1930. Nella Relazione al Progetto preliminare, il Guardasigilli ribadì che l’istanza di riesame era «facoltà negata a tutte le altre parti private, i cui interessi sono sufficientemente garantiti dall’istituto della ricusazione del giudice, anche quando non sono libere di adire invece il giudice civile».
Dunque, anche quando l’azione civile era preclusa in sede propria (nel sistema del codice abrogato, infatti, il processo civile si sospendeva in attesa della definizione della azione penale, secondo la logica del primato del giudizio penale e della unicità della giurisdizione), la parte civile costituita nel processo penale, stante la sua accessorietà, non poteva che far leva sugli istituti della astensione o della ricusazione, in ipotesi di iudex suspectus; o richiedere al pubblico ministero di valutare l’opportunità di sollecitare la rimessione del processo, in ipotesi di condizioni ambientali avverse.
L’esclusione della parte civile dal novero dei legittimati a richiedere la rimessione del processo è rimasta una costante nel panorama normativo successivo, sia con la direttiva n. 15) della legge-delega 3 aprile 1974, n. 108, sulla cui base fu redatto il Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale del 1978, sia con la nuova legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, in forza della quale venne poi approvato il codice di rito vigente.
Soltanto nel corso dei lavori preparatori del nuovo codice – come si rammenta nell’ordinanza della Corte di cassazione – la Commissione redigente ebbe a rilevare «l’opportunità di estendere la legittimazione a richiedere la rimessione, oltre che al pubblico ministero e all’imputato, anche alle altre parti private». Tale estensione fu, peraltro, reputata impraticabile da parte del legislatore delegato, proprio perché – puntualizzò la Relazione al Progetto preliminare – in contrasto con il tenore testuale della direttiva n. 17) della legge di delega, avuto riguardo, anche, alla disciplina dettata in proposito dall’art. 55 del codice del 1930.
Anche nell’ultimo intervento legislativo in tema di rimessione, mediante la legge 7 novembre 2002, n. 248 − pur introducendosi incisive innovazioni rispetto alla disciplina codicistica − si è mantenuta inalterata la platea dei soggetti abilitati a richiedere lo spostamento del processo. L’unica innovazione proposta – ma non accolta – in quest’ambito, ha riguardato la possibilità di introdurre una sorta di contraddittorio anticipato sulla rimessione, fra tutti i soggetti presenti nel processo.
3. – La scelta del legislatore è, quindi, da circa un secolo costante nel limitare alle sole parti necessarie del processo penale il diritto a richiederne la rimessione; e questa opzione deve ritenersi in linea non soltanto con i valori costituzionali che si pretendono compromessi, ma anche con lo stesso principio di ragionevolezza cui deve comunque essere informata la discrezionalità normativa.
Infatti questa Corte ha avuto modo in più occasioni di sottolineare la peculiarità e gravità delle esigenze che l’ordinamento del processo penale intende soddisfare e bilanciare attraverso la rimessione: da un lato, il divieto di distogliere chiunque dal giudice naturale precostituito per legge; dall’altro, valori anch’essi costituzionalmente rilevanti, quali l’indipendenza e, quindi, la imparzialità dell’organo giudicante e la tutela del diritto di difesa (v. sentenze n. 50 del 1963 e n. 82 del 1971). Da qui il richiamo, costante nella giurisprudenza di legittimità, al carattere del tutto eccezionale che contraddistingue l’istituto ed al conseguente rigore cui deve essere informata la interpretazione dei presupposti sulla cui base può essere statuita la translatio iudicii.
Siffatto eccezionale presidio − a garanzia della serenità ed imparzialità del giudizio e, quindi, in ultima analisi, dello stesso valore del “giusto processo” − è, da sempre, previsto soltanto per il processo penale, giacché a garantire le parti dai rischi della non imparzialità e terzietà del giudice soccorrono, nelle altre sedi giurisdizionali, i diversi istituti della astensione e della ricusazione. Questa indubbia peculiarità si fonda sulla constatazione che soltanto il processo penale è, per sua natura, idoneo a suscitare gravi emozioni e perturbamenti, specie nel luogo in cui esso si celebra.
Tali turbamenti – sia che rilevino sul piano dell’ordine pubblico processuale, sia che attengano al diverso profilo della serenità del giudizio – sono comunque riconducibili all’intervento di “elementi esterni”. Questi ultimi − come ha più volte sottolineato la giurisprudenza di legittimità − più che incidere direttamente sul valore della imparzialità e terzietà del giudice investito della cognizione della regiudicanda (il “sospetto” di condizionamento non riguarda, infatti, il singolo giudice, ma l’intero ufficio giudiziario), finiscono per coinvolgere la stessa possibilità di celebrare un “giusto processo”.
Le gravi situazioni locali che turbano lo svolgimento del processo, di cui è menzione nell’art. 45 cod. proc. pen., non possono, pertanto, che fondarsi e riflettersi su quello che è il naturale oggetto del processo penale: vale a dire, una specifica accusa mossa nei confronti di un determinato imputato; quindi, un contesto ambientale che genera una turbativa a favore o contro l’accusa o, reciprocamente, a favore o contro l’imputato.
Già in questa prospettiva, dunque, l’istituto della rimessione si rivela concettualmente eccentrico rispetto alla ipotetica attribuzione di un potere di iniziativa in capo a chi, pur potendo agire in sede propria (ove l’istituto stesso non è previsto), ha scelto di attivare la domanda civile nel processo penale, del quale, pertanto, deve accettare regole e peculiarità.
La evocata parità delle parti − sulla quale si è particolarmente concentrata l’ordinanza di rimessione − finisce per risultare, in tale prospettiva, fuorviante; giacché su di essa si intenderebbe far leva per omologare fra loro situazioni processuali del tutto eterogenee, quali sono quelle che, agli effetti della rimessione, caratterizzano gli “interessi” ed il coinvolgimento delle parti necessarie del processo, rispetto alla tutela risarcitoria o restitutoria che l’ordinamento assicura alla parte civile.
D’altro canto, proprio in materia di azione civile esercitata nel processo penale, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni affermato il principio per il quale l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile: è prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo. Questa Corte, inoltre, ha più volte rilevato che l’eventuale impossibilità di partecipare al processo penale, per il danneggiato, non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile; e ne ha tratto la conclusione che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, perché la scelta della configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (v., ex plurimis, sentenza n. 98 del 1996 e ordinanza n. 124 del 1999, nonché, sul favor separationis tra azione civile e azione penale, sentenza n. 75 del 2001).
Dunque, v’è quanto basta per concludere che imputato e parte civile esprimono – al lume della giurisprudenza costituzionale – due entità soggettive fortemente diversificate: non soltanto sul piano del differente risalto degli interessi coinvolti; quanto – e soprattutto – per l’impossibilità di configurare in capo ad essi, nello specifico contesto del processo penale, un paradigma di par condicio valido, sempre e comunque, come regola generale su cui conformare i relativi diritti e poteri processuali.
Questa Corte, d’altra parte, ha costantemente avuto modo di affermare che le differenze di “trattamento processuale” tra le parti sono legittime, sempre che abbiano una loro ragionevole base all’interno del sistema processuale. Se ciò vale per le parti “necessarie” del processo, a fortiori è possibile tracciare un ragionevole discrimen in riferimento alle parti eventuali: specie nelle ipotesi in cui – come nel caso della parte civile nel processo penale – sia assicurato un diretto ed incondizionato ristoro dei propri diritti attraverso l’azione sempre esercitabile in sede propria.
4. – Per altro verso, le peculiarità che caratterizzano l’istituto della rimessione, traggono a loro volta alimento dallo specifico (e anch’esso peculiare) risalto assegnato dalla stessa Carta costituzionale al processo penale ed ai valori, molteplici e tutti di rango primario, in esso coinvolti. Se, infatti, le esigenze di serenità ed imparzialità − che devono accompagnare la celebrazione del processo “turbato” dalle gravi situazioni locali − ben possono giustificarne lo “spostamento” dalla sede “fisiologica”, un siffatto epilogo deve confrontarsi con la garanzia apprestata dall’art. 25, primo comma, della Costituzione e, prima ancora, dall’art. 71 dello Statuto albertino: parametri, questi, non a caso insistentemente evocati dalle relazioni che hanno accompagnato le varie codificazioni post-unitarie in tema di rimessione.
Proprio su questo delicato crinale si misura, ancora una volta, la specificità del giudizio penale rispetto a tutti gli altri giudizi. E’ ben vero, infatti − come la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni sottolineato − che la locuzione “giudice naturale” «non ha nell’art. 25 [Cost.] un significato proprio e distinto, e deriva per forza di tradizione da norme analoghe di precedenti Costituzioni, nulla in realtà aggiungendo al concetto di “giudice precostituito per legge”» (v., ad es., sentenza n. 88 del 1962 e ordinanza n. 100 del 1984); ma deve riconoscersi che il predicato della “naturalità” assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti. Qualsiasi istituto processuale, quindi, che producesse – come la rimessione – l’effetto di “distrarre” il processo dalla sua sede, inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto per il processo penale; giacché la celebrazione di quel processo in “quel” luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella – più che tradizionale – per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati.
Perché l’imputato possa ragionevolmente subire lo spostamento del processo dal suo “giudice naturale”, deve essere il “suo” processo (vale a dire quello penale) ad essere turbato da gravi situazioni locali. Quindi, solo i protagonisti necessari sono logicamente abilitati ad attivare il relativo ed eccezionale meccanismo di scrutinio, e non altri, che possono assumere soltanto la veste di cointeressati o controinteressati rispetto alle posizioni assunte dall’imputato e dal pubblico ministero.
D’altra parte, ove così non fosse, l’imputato convenuto in sede propria avrebbe la garanzia del suo giudice civile “naturale”, senza possibilità per l’attore (parte offesa o danneggiato dal reato) di far “rimuovere” la causa da quella sede giudiziaria; invece, nella ipotesi, in cui l’imputato assuma la veste di “convenuto” in sede penale, a seguito della costituzione di parte civile della medesima parte offesa, esso potrebbe subire la rimessione del processo su domanda della stessa parte. Una disparità in peius, fatta dipendere dalla scelta unilaterale del danneggiato, il quale – giova ripeterlo – ben può tenersi indenne rispetto alla gravità della situazione locale, sviluppando la propria azione in sede civile.
Ne deriva, quale corollario conclusivo, che, nella ponderazione dei valori coinvolti, la scelta del legislatore di consentire soltanto all’imputato ed al pubblico ministero di formulare la richiesta di rimessione del processo, non può ritenersi scelta discriminatoria.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 21 aprile 2006.