ORDINANZA N.225
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 448 del codice di procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dalla Corte di cassazione con ordinanza del 14 novembre 2002, iscritta al n. 571 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 giugno 2003 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto che la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111, secondo comma, della Costituzione (questi ultimi due indicati solo in motivazione), questione di legittimità costituzionale dell'art. 448 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che, in caso di dissenso del pubblico ministero alla applicazione della pena richiesta dall'imputato ex art. 444 cod. proc. pen., il giudice possa valutare che il dissenso era ingiustificato e possa pronunciare sentenza accogliendo la richiesta prevista dall'art. 444 cod. proc. pen., anche all'esito del giudizio abbreviato così come provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione»;
che la Corte rimettente premette di essere investita di un ricorso avverso una sentenza con la quale la Corte d’appello di Torino, ritenendo che la disciplina dell'art. 448 cod. proc. pen. si riferisca solo al dibattimento di primo grado e al giudizio di impugnazione, ha escluso che il giudice, all'esito del giudizio abbreviato, qualora ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero possa pronunciare sentenza di applicazione della pena;
che il giudice a quo rileva che la formulazione letterale dell'art. 448 cod. proc. pen. «sembra limitare l'esercizio del potere-dovere del giudice di valutare se sia ingiustificato il dissenso del pubblico ministero [...] al solo caso in cui a seguito di detto dissenso si sia celebrato il giudizio ordinario» e prende atto che alla stregua della giurisprudenza di legittimità la richiesta di giudizio abbreviato comporta la rinuncia al patteggiamento, stante l'incompatibilità tra i due procedimenti speciali e «l'impossibilità di inserire l'un procedimento nell'altro con il logico corollario che l'imputato non può certamente giovarsi dei benefici o premi connessi a ciascuno dei due anzidetti procedimenti»;
che, peraltro, nel caso in esame «l'imputato non chiede di fruire cumulativamente dei premi collegati ai due riti», ma di non essere escluso dai «particolari vantaggi» connessi all’applicazione della pena su richiesta; vantaggi di cui avrebbe potuto usufruire ove, a seguito del dissenso del pubblico ministero al patteggiamento, non avesse presentato richiesta di giudizio abbreviato;
che, in particolare, ad avviso del giudice a quo non si può sostenere che il giudizio abbreviato precluda «una cognitio sufficiente per valutare la legittimità o meno del dissenso del pubblico ministero all'applicazione della pena richiesta dall'imputato», essendo fuor di dubbio che la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato è una sentenza di accertamento di responsabilità penale, non diversa da quella pronunciata nel giudizio ordinario;
che la mancata previsione del potere del giudice di dichiarare ingiustificato il dissenso del pubblico ministero all’applicazione della pena anche all'esito del giudizio abbreviato si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perché determina una irragionevole discriminazione tra gli imputati che hanno chiesto il giudizio abbreviato a seguito del rigetto della richiesta di patteggiamento rispetto a quelli che non hanno chiesto il rito speciale, in quanto i primi vengono privati della possibilità che il giudice, ritenuto ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, applichi la pena richiesta dall'imputato;
che risulterebbe violato anche l'art. 24 Cost. perché l'imputato sarebbe "costretto" ad affrontare il giudizio ordinario al fine di porre il giudice nelle condizioni di accertare, all'esito del dibattimento, se il dissenso del pubblico ministero era ingiustificato;
che, infine, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 97 e 111, secondo comma, Cost., in quanto "costringere" l'imputato a sottoporsi al giudizio ordinario al fine di vedere accertata dal giudice l’illegittimità del dissenso del pubblico ministero all'applicazione della pena determina una dilatazione dei tempi processuali, in violazione dei principi del buon andamento dell'amministrazione della giustizia e della ragionevole durata del processo;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, riportandosi all'atto di intervento depositato in occasione della diversa questione iscritta al n. 142 del r.o. del 2002, decisa con ordinanza n. 426 del 2001.
Considerato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 448 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice possa ritenere ingiustificato il dissenso del pubblico ministero all’applicazione della pena e pronunciare sentenza a norma dell’art. 444 cod. proc. pen. anche all’esito del giudizio abbreviato richiesto dall’imputato;
che la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto solo gli imputati che non hanno chiesto il giudizio abbreviato possono avvalersi dell’opportunità che, in esito al dibattimento, il giudice ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero e pronunci sentenza di applicazione della pena; con l’art. 24 Cost., perché l’imputato è "costretto" a rinunciare alla facoltà di chiedere il giudizio abbreviato al fine di consentire al giudice di valutare se il dissenso del pubblico ministero all’applicazione della pena fosse ingiustificato; con gli artt. 97 e 111, secondo comma, Cost., in quanto "costringere" l’imputato a sottoporsi al giudizio ordinario determina una dilatazione dei tempi processuali, in violazione dei principi del buon andamento dell’amministrazione della giustizia e della ragionevole durata del processo;
che questa Corte, con le ordinanze n. 127 del 1993 e 488 del 1994, confermando la precedente giurisprudenza (sentenza n. 120 del 1984), ha affermato, in riferimento al rito alternativo dell’applicazione della pena, che, in caso di dissenso del pubblico ministero, l’accoglimento della richiesta dell’imputato prima della chiusura del dibattimento si sarebbe posto in contrasto con la struttura negoziale del patteggiamento, espropriando il pubblico ministero del potere di concorrere, in condizioni di parità con l’imputato, alla scelta del rito e sacrificando l’esercizio del suo diritto alla prova in dibattimento, «che ben può volgersi a dimostrare, tra l’altro, proprio la fondatezza delle ragioni in base alle quali la stessa parte pubblica non ha ritenuto di accondiscendere alla richiesta di applicazione della pena formulata dall’imputato» (v. inoltre, dopo le modifiche recate all’art. 448 cod. proc. pen. dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, ordinanze n. 100 del 2003 e n. 426 del 2001);
che rientra nel libero esercizio delle facoltà difensive dell’imputato la scelta di affrontare il giudizio ordinario - così usufruendo, a norma dell’art. 448 cod. proc. pen., oltre che della facoltà di rinnovare la richiesta di applicazione della pena prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, della possibilità che il giudice, all’esito del dibattimento, ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero e pronunci sentenza di applicazione della pena a norma degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. - ovvero di presentare richiesta di giudizio abbreviato, nella prospettiva, in caso di condanna, della sicura riduzione di un terzo della pena;
che in tale disciplina non è dato ravvisare alcuna violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in relazione alla supposta irragionevole discriminazione tra l’imputato che ha chiesto il giudizio abbreviato e quello che tale richiesta non ha formulato, in quanto la diversità delle situazioni processuali poste a raffronto è conseguenza di strategie difensive rimesse alla libera scelta dell’imputato;
che neppure appaiono violati gli artt. 97 e 111, secondo comma, Cost., posto che, da un lato, il principio del buon andamento dei pubblici uffici non si riferisce all’attività giurisdizionale in senso stretto, bensì all’organizzazione e al funzionamento dell’amministrazione della giustizia (cfr., ex plurimis, sentenze n. 115 del 2001 e n. 381 del 1999), e, dall’altro, il principio della ragionevole durata del processo non risulta leso da una disciplina, frutto di scelte normative non prive di valide giustificazioni in ordine alla configurazione e ai rapporti tra riti alternativi, che consente il sindacato del giudice sul dissenso del pubblico ministero soltanto in esito alla celebrazione del dibattimento;
che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata in riferimento a tutti i parametri evocati dal rimettente.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 448 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2003.