Sentenza n. 270 del 1996

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SENTENZA N. 270

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 22, primo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), come modificato dall'art. 7, comma 9, del decreto-legge 27 marzo 1995, n. 88 (Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata), promosso con ordinanza emessa il 10 maggio 1995 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Camerino Luigi Vincenzo, iscritta al n. 474 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 marzo 1996 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

 

1. Nel corso del procedimento penale a carico di Luigi Vincenzo Camerino per violazioni edilizie, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa in data 10 maggio 1995 (R.O. n. 474 del 1995), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, primo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), come modificato dall'art. 7, comma 9, del decreto-legge 27 marzo 1995, n. 88 (Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata), nella parte in cui esso prescrive che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimanga sospesa finché non siano stati esauriti i ricorsi giurisdizionali di cui al secondo comma dello stesso articolo 22.

Tale disposizione, che estenderebbe a tempo indeterminato la durata della sospensione dell'azione penale, originariamente prevista solo fino al termine del procedimento amministrativo di sanatoria, e non anche fino al termine del ricorso giurisdizionale che sia proposto, come nella specie, avverso il diniego della concessione in sanatoria, si porrebbe in contrasto con il principio della obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 della Costituzione.

Il giudice a quo lamenta, altresì, la violazione degli artt. 9 e 32 della Costituzione, sotto il profilo della lesione di quegli interessi protetti dalle norme sul controllo dell'attività urbanistico-edilizia, nonché, per l'adombrata insussistenza della necessità e dell'urgenza, il vulnus all'art. 77 della Costituzione. Per quanto attiene alla possibile dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata per la eventuale omessa conversione in legge del decreto-legge impugnato, vigente all'epoca della ordinanza di rimessione, la Cassazione auspica l'estensione alla ipotesi del decreto-legge reiterato di quell'orientamento della Corte costituzionale, che trasferisce sulla legge di conversione eventualmente intervenuta la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge convertito, tenuto conto che la norma contenuta nel decreto-legge vive, sia pure per il limitato periodo di tempo stabilito dall'art. 77 della Costituzione.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità della questione in considerazione della intervenuta decadenza del decreto-legge in cui è contenuta la norma impugnata, e, nel merito, per la infondatezza, sostenendo che deve escludersi che la norma sulla sospensione dell'azione penale determini una indeterminata dilazione del procedimento penale, essendo la sospensione stessa legata al solo procedimento giurisdizionale di primo grado dinanzi al tribunale amministrativo regionale, e, pertanto, circoscritta entro confini precisi e ristretti. Infatti, la norma di cui al secondo comma dello stesso art. 22 della legge n. 47 impone al presidente del tribunale amministrativo regionale di fissare l'udienza per la discussione del ricorso entro tre mesi dalla presentazione dello stesso.

Né potrebbe sostenersi che la sospensione non sia giustificata dalla tutela di interessi costituzionalmente protetti, essendo essa, al contrario, predisposta allo scopo di evitare una condanna in sede penale per un fatto del quale sia in discussione la illiceità dal punto di vista urbanistico e, quindi, l'antigiuridicità sostanziale.

Considerato in diritto

 

1. La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ordinanza della Corte di cassazione riguarda l'art. 22, primo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come modificato dall'art. 7, comma 9, del decreto-legge 27 marzo 1995, n. 88, nella parte in cui impone la sospensione del procedimento penale per violazioni edilizie fino alla decisione del ricorso proposto innanzi al tribunale amministrativo regionale avverso il diniego di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, sotto tre profili: il primo, relativo alla violazione dell'art. 112 della Costituzione, in quanto la sospensione del procedimento penale per un periodo di tempo non prevedibile sarebbe in contrasto con il principio della obbligatorietà dell'azione penale; il secondo, in relazione alla violazione degli artt. 9 e 32 della Costituzione, perché rimarrebbero privi di tutela gli interessi e i beni protetti dalle norme sul controllo dell'attività urbanistico-edilizia; il terzo, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, in ordine alla sussistenza dei requisiti della necessità e dell'urgenza, cui è subordinata la decretazione del Governo.

2. Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato circa la conseguenza sotto il profilo della inammissibilità della questione della intervenuta decadenza, per mancata conversione nei sessanta giorni, del decreto-legge 27 marzo 1995 n. 88, la cui disposizione dell'art. 7, comma 9, è oggetto della questione di legittimità costituzionale.

L'eccezione è priva di fondamento, in quanto questa Corte ha avuto già occasione di risolvere, in via di principio, affermativamente la questione "se la censura rivolta nei confronti di una disposizione che esprima una determinata norma possa riferirsi alla medesima norma riprodotta in una diversa e successiva disposizione, identica nel nucleo precettivo essenziale o addirittura, come nella specie, nella sua stessa formulazione letterale" (sentenza n. 84 del 1996). Infatti, proseguendo "nella valorizzazione della perdurante identità della norma pur nel mutamento della disposizione per ius superveniens", la Corte, "la quale giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni", ha affermato "in linea di principio che la norma contenuta in un atto avente forza di legge vigente al momento in cui l'esistenza nell'ordinamento della norma stessa è rilevante ai fini di una utile investitura della Corte, ma non più in vigore nel momento in cui essa rende la sua pronuncia, continua ad essere oggetto dello scrutinio alla Corte stessa demandato quando quella medesima norma permanga tuttora nell'ordinamento con riferimento allo stesso spazio temporale rilevante per il giudizio perché riprodotta, nella sua espressione testuale o comunque nella sua identità precettiva essenziale, da altra disposizione, alla quale dunque dovrà riferirsi la pronuncia" (sentenza n. 84 e ordinanza n. 108 del 1996).

Di conseguenza, essendo rimasto immutato il contenuto precettivo essenziale del decreto-legge (art. 7, comma 9, del d.l. 27 marzo 1995, n. 88), oggetto dell'ordinanza di rimessione, è possibile trasferire la questione di legittimità costituzionale dello stesso decreto-legge al decreto-legge (art. 8, comma 8, del decreto-legge 25 maggio 1996, n. 285) attualmente in vigore (argomentando a contrario da ordinanza n. 130 del 1996), come, del resto, espressamente prospettato dal giudice a quo.

3. Il dubbio di costituzionalità, sollevato dal giudice a quo con il parametro dell'art. 77 della Costituzione, trova nell'ordinanza di rimessione un unico riferimento (ancorché estremamente sommario) nella sindacabilità dei presupposti di necessità ed urgenza dei decreti-legge, mentre è rimasto estraneo al thema decidendum ogni profilo relativo alla possibilità della reiterazione.

La questione è ammissibile in questa sede di sindacato di legittimità costituzionale, trattandosi "di requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza dei presupposti di necessità e urgenza" (sentenza n. 29 del 1995), potendo tuttavia intervenire una pronuncia di illegittimità solo in presenza di "evidente mancanza dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza di tali presupposti" (sentenza n. 161 del 1995).

La questione come sollevata è infondata, nei limiti sopraindicati, in quanto deve escludersi una evidente mancanza dei requisiti della necessità ed urgenza, quale enucleata nella premessa del decreto-legge, in relazione al contenuto del Capo III con norme in materia di controllo, di semplificazione dei procedimenti in materia urbanistico-edilizia e di incentivazione dell'attività edilizia. Ciò soprattutto in relazione alla connessione indissolubile tra le norme sul condono edilizio, contenute nell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e le altre disposizioni in materia di sanatoria edilizia ed in materia urbanistica ed edilizia, in origine contenute in unico testo normativo e poi separate in distinti decreti-legge reiterati, fino a quello attualmente all'esame.

Tale "risistemazione della materia del governo del territorio" con l'intento di "impedire il ripetersi del fenomeno dell'abusivismo attraverso la sua repressione" ha costituito una ragione fondamentale della non fondatezza dei dubbi di costituzionalità del complesso sistema normativo del nuovo condono edilizio (art. 39 della legge n. 724 del 1994, in relazione alla legge n. 47 del 1985 e alle norme del decreto-legge citato), come ha avuto occasione di sottolineare la Corte con la ripetuta affermazione della connessione indissolubile ed unitaria di dette disposizioni (sentenza n. 256 e ordinanza n. 116 del 1996; sentenza n. 427 del 1995).

4.1. Egualmente priva di fondamento è la questione sollevata con riferimento all'art 112 della Costituzione.

La norma costituzionale, come risulta dai lavori dell'Assemblea costituente, ha l'obiettivo di escludere che il pubblico ministero possa esercitare una attività discrezionale circa il promovimento dell'azione penale, sancendo che il pubblico ministero, quando ricorrano i presupposti di fatto e di diritto, deve esercitare l'azione penale stessa. Il costituente soppresse la specificazione "senza poterla in alcun caso sospendere o ritardare" non tanto perché superflua (come da alcuni sostenuto), ma perché si volle intenzionalmente lasciare un margine ad alcuni congegni processuali delicati, suscettibili di riforma e perfezionamento da parte del legislatore ordinario, soprattutto in vista di casi in cui la sospensione dell'azione penale possa essere ritenuta opportuna dal legislatore (Res. A.C., p. 2547 ss.).

In altri termini, sul piano costituzionale non esiste una soluzione obbligata di escludere, in ogni caso ed in via generale, la possibilità di sospensione, potendo invece il legislatore (ferma l'obbligatorietà dell'azione penale) prevedere, per specifiche e tassative ipotesi purché improntate a criteri di ragionevolezza, soprattutto per ragioni di economia processuale, la sospensione dell'azione o del procedimento, collegata a elementi di pregiudizialità o di connessione anche probatoria, con opportuni meccanismi che valgano ad escludere i rischi di decorso di prescrizione e a salvaguardare il libero convincimento del giudice penale.

4.2. Al superamento della interpretazione restrittiva circa la durata della sospensione, ex art. 22 della legge n. 47 del 1985, data dalla sentenza della Corte n. 370 del 1988, induce non solo la giusta considerazione dell' intento del Costituente nella formulazione della norma, ma anche il dibattito che era seguito, nella concreta applicazione della norma esaminata, alla predetta sentenza.

Infatti, la previsione della sospensione dell'azione penale, o meglio del procedimento, non comporta necessariamente che la fattispecie dell'art. 22, comma primo, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 abbia un effetto interamente devolutivo circa l'abusività e la sanabilità delle opere realizzate, con efficacia vincolante sul giudizio penale, ed anzi, in mancanza di qualsiasi espressa indicazione normativa, deve ritenersi operante il principio contrario alla vincolatività.

D'altro canto, anche nella ipotesi che il rilascio della concessione in sanatoria c.d. ordinaria (in sede di accertamento di conformità ex art. 13 della legge n. 47 del 1985) sia stato rifiutato in sede amministrativa e vi sia pendenza di giudizio avanti al giudice amministrativo, esistono considerazioni di opportunità e di politica legislativa, certamente non irragionevoli, in base alle quali il legislatore può prevedere un meccanismo di sospensione in attesa della definizione del giudizio avanti al tribunale amministrativo regionale sulla legittimità dell'atto di rifiuto (espresso o silenzio rifiuto) di sanatoria.

Con riferimento a questo atto amministrativo impugnato, proprio _poiché il rilascio della concessione in sanatoria è l'ultimo elemento della fattispecie che produce l'estinzione dei reati urbanistici_, è davvero inutile fare svolgere un'azione penale nel momento stesso in cui viene posta in discussione, con l'illiceità amministrativa, la punibilità del fatto. Nell'ipotesi, infatti, di conclusione positiva del procedimento amministrativo in sanatoria, il reato deve essere dichiarato estinto.

Infatti permangono le ragioni valutabili discrezionalmente dal legislatore con il limite della ragionevolezza di soprassedere al corso dell'azione penale fino alla definizione della controversia giurisdizionale amministrativa avanti al tribunale amministrativo regionale.

Ciò soprattutto quando l'ambito della decisione amministrativa sulla domanda di sanatoria c.d. ordinaria (accertamento di conformità ex art. 13 citato, per distinguere tale sanatoria da quella speciale e temporanea della sanatoria-condono ex Capo IV della legge 28 febbraio 1985, n. 47) è circoscritto alla verifica che si tratti di infrazione meramente formale (mancanza di titolo abilitativo o difformità da questo per opere pienamente conformi nella sostanza alla programmazione urbanistica), e cioè alla verifica, nella fattispecie considerata, che le opere edilizie siano conformi, nel duplice momento della realizzazione dell'opera (senza abilitazione) e della successiva presentazione della domanda, "agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati" e non in contrasto con quelli in regime di salvaguardia (art. 13, comma primo, della legge n. 47 del 1985).

Né le esigenze di celerità processuale e di immediatezza attuabili attraverso una "massima semplificazione nello svolgimento del processo" e realizzate anche con una drastica riduzione delle ipotesi di pregiudizialità (art. 3 cod. proc. pen.) costituiscono un vincolo prioritario sul piano della legittimità costituzionale, rappresentando, invece, un semplice criterio direttivo della delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, pienamente derogabile dal legislatore ordinario con successiva legge, purché non irragionevole.

Ed appunto non è irragionevole la scelta operata dal legislatore che ha modificato l'art. 22, comma primo, della legge n. 47 del 1985, in ordine alla durata della sospensione con l'aggiunta anche dell'esaurimento dei ricorsi giurisdizionali di cui al secondo comma (avanti al tribunale amministrativo regionale), così sciogliendo i dubbi interpretativi che si erano creati e accogliendo la soluzione di "attesa" tutt'altro che isolata nel dibattito giuridico surrichiamato.

Tale soluzione di attesa da parte del giudice penale consente, da un canto, la tutela giurisdizionale (costituzionalmente garantita) dell'interessato di fronte ad un atto amministrativo (oggetto di impugnazione) contenente rifiuto di sanatoria, che non è affatto assistito da alcuna certezza di legittimità; dall'altro lato, riduce notevolmente le possibili difformità di pronunce del giudice penale e del giudice amministrativo, cui l'amministrazione è tenuta ad ottemperare nel rilascio della sanatoria; nello stesso tempo semplifica l'accertamento del giudice penale con l'acquisizione della sentenza amministrativa, che insieme alla documentazione raccolta in occasione del giudizio amministrativo e agli atti emanati dalla amministrazione comunale in sede di adempimento, dovrà essere valutata secondo i normali principi del codice di procedura penale.

Il giudice penale conserva, ai fini della pronuncia di estinzione, conseguente a rilascio in sanatoria della concessione, dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti (art. 22, comma terzo, della legge n. 47 del 1985), ogni potere previsto dall'ordinamento processuale, sia in ordine alla copertura da parte della concessione in sanatoria di tutte le opere abusive accertate, sia in ordine alla disapplicazione della concessione in sanatoria quando rilasciata al di fuori dei presupposti di legge (ad es., non conformità alla programmazione urbanistica).

Infine, non sussistono pericoli conseguenti alla durata non predeterminata del giudizio amministrativo, poiché nel processo penale opera la sospensione della prescrizione secondo una interpretazione ormai consolidata, essendo la sospensione (di cui si discute) del procedimento penale imposta da particolare disposizione di legge.

Inoltre, la legge prevede strumenti processuali acceleratori, anche indipendenti da iniziativa di parte (art. 22, secondo comma, della legge n. 47 del 1985), e nel contempo l'amministrazione comunale può esercitare, come parte necessaria, tutte le facoltà di iniziativa o sollecitatorie per la definizione del giudizio amministrativo, mentre eventuali abusi della stessa amministrazione comunale, che colluda con l'altra parte per procrastinare l'esito o per non porre in essere le condizioni per un normale svolgimento del processo amministrativo, ritardando ad esempio il deposito degli atti necessari o non collaborando attivamente per la definizione, sono suscettibili di responsabilità nelle opportune sedi, attesi i poteri-doveri del Comune in ordine al controllo del territorio, alla repressione degli abusi edilizi e alla leale collaborazione processuale.

5. Le suesposte considerazioni portano anche all'infondatezza della questione sotto il profilo degli artt. 9 e 32 della Costituzione, tenendo anche conto che l'estinzione può riguardare solo le contravvenzioni urbanistiche (art. 22, terzo comma), mentre il primo comma dell'art. 22 riguarda solo l'azione penale relativa alle violazioni edilizie.

Del resto questa Corte ha ripetutamente sottolineato, con riferimento alla normativa sul condono edilizio (sentenze n. 256 del 1996 e n. 427 del 1995) e la considerazione può essere ripetuta in relazione alla sanatoria ordinaria che essa risponde adeguatamente proprio alla finalità di realizzare un contemperamento dei valori in giuoco, quali, tra gli altri, quello del paesaggio, e della salute da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro dall'altra.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, primo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), come modificato dall'art. 8, comma 8, del decreto-legge 25 maggio 1996, n. 285 (Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata), sollevata, in riferimento agli artt. 112, 9, 32 e 77 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 luglio 1996.