SENTENZA N. 442
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 452, secondo comma, del codice di procedura penale e 247 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promossi con n. 3 ordinanze emesse il 20 dicembre 1993 dal Tribunale di Roma nei procedimenti penali a carico di Giammaria Mirella, Khatib Ben Ayed ed altri e Nwachuku Obioha Okechutu ed altri, rispettivamente iscritte ai nn. 34, 45 e 51 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8 e 9, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 maggio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Ritenuto in fatto
1.- In esito a giudizio direttissimo a carico di un imputato nei cui confronti, nonostante la richiesta dallo stesso formulata in limine al dibattimento, non era stato possibile procedere con rito abbreviato per il mancato consenso del pubblico ministero, motivato sulla base della non definibilità del processo allo stato degli atti, Il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 20 dicembre 1993, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.452, secondo comma, del codice di procedura penale, limitatamente all'inciso "e il pubblico ministero vi consente" (r.o.n. 34/1994).
Il giudice a quo rileva che si verte nella medesima situazione già rimessa alla Corte costituzionale con ord. dell'8 gennaio 1991 (r.o.n. 408/1991) - cui "si fa integrale rinvio" - e decisa con sentenza n.187 del 1992, con la quale la Corte aveva dichiarato l'inammissibilità della questione per la pluralità di soluzioni prospettabili, nessuna delle quali costituzionalmente obbligata.
Il Tribunale sottolinea che anche nel caso ora sottoposto all'esame della Corte viene in rilievo il dubbio di costituzionalità dell'art. 452, secondo comma, cod. proc.pen., che subordina la instaurazione del giudizio abbreviato, e la conseguente riduzione della pena, al consenso del pubblico ministero, il quale, con le sue discrezionali scelte investigative, è arbitro di determinare la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire le condizioni per negare il consenso alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato; pur non essendo paradossalmente ostativa a tale trasformazione la non decidibilità allo stato degli atti, tenuto conto del potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dalla norma impugnata.
Rilevato che tale disciplina è rimasta immutata, nonostante siano trascorsi due anni dal monito rivolto al legislatore dalla Corte con la sentenza n. 92 del 1992, con la quale si sollecitava l'introduzione nella disciplina del giudizio abbreviato di un meccanismo di integrazione probatoria, al fine di non far dipendere il presupposto della decidibilità allo stato degli atti dalle discrezionali scelte investigative del pubblico ministero, il Tribunale esprime l'avviso, da un lato, di non poter ulteriormente protrarre l'attesa delle auspicate modifiche legislative, e, dall'altro, di avere il dovere di non applicare norme che la stessa Corte costituzionale ha qualificato illegittime.
D'altro canto, osserva il remittente, delle quattro soluzioni alternative considerate dalla Corte con la sentenza n. 187 del 1992, una sola è quella idonea a ricondurre la disciplina del giudizio abbreviato a coerenza con i princìpi costituzionali.
Esposte le ragioni per le quali non possono ritenersi appaganti le altre soluzioni (previsione di un dovere di completezza investigativa in capo al pubblico ministero; previsione del potere del medesimo organo di prestare un consenso condizionato all'espletamento da parte del giudice di un'attività di integrazione probatoria; previsione del dovere del giudice di ritenere ingiustificato il dissenso del pubblico ministero qualora la non decidibilità allo stato degli atti possa essere colmata dal meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 452), il Tribunale individua nella eliminazione del presupposto del consenso del pubblico ministero "l'unica via per conciliare con i princìpi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di stretta legalità (art. 25 Cost.) la permanenza del giudizio abbreviato nell'ordinamento processuale".
Rileva da ultimo il Tribunale che il far dipendere l'instaurazione del giudizio abbreviato dalla sola richiesta dell'imputato non contrasta con la finalità deflattiva per la quale il giudizio abbreviato è stato introdotto nel nostro ordinamento processuale, poichè la piena utilizzabilità degli atti di indagine fa sì che l'assunzione delle ulteriori prove - nelle forme semplificate della camera di consiglio - "sarebbe limitata ai necessari atti integrativi, con evidente ed incisivo profitto per l'economia processuale".
2.- La medesima questione di cui sopra è stata sollevata dal Tribunale di Roma con altra ordinanza in data 20 dicembre 1993 (r.o. n. 45/1994), di contenuto sostanzialmente identico alla precedente.
3.- Con una terza ordinanza in data 20 dicembre 1993 (r.o. n.51/1994), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt.3 e 25 della Costituzione, la questione di costituzionalità dell'art.452, secondo comma, del codice di procedura penale, limitatamente all'inciso "e il pubblico ministero vi consente", e dell'art.247, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), limitatamente alle parole "sospese le formalità di apertura del dibattimento se già iniziate, ne dà avviso al pubblico ministero, che nei cinque giorni successivi esprime o nega il proprio consenso.
Se il consenso interviene e il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti".
Il Tribunale ricorda che nella propria ordinanza del 18 marzo 1991 - alla quale si fa "integrale rinvio" - era stata prospettata "la illegittimità del citato art. 247 sia nell'ipotesi in cui al regime transitorio del giudizio abbreviato si ritenesse applicabile l'art. 452 comma 2 c.p.p. sia nel caso inverso"; e che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 187 del 1992, aveva dichiarato la questione inammissibile (recte, manifestamente inammissibile), sul rilievo che fosse "basata su un quesito interpretativo (...) che spetta allo stesso giudice a quo risolvere".
Raccogliendo ora l'invito della Corte, il remittente, anche alla luce della giurisprudenza nel frattempo affermatasi, esprime l'avviso che anche al giudizio abbreviato del regime transitorio si applichi l'art. 452, secondo comma, cod. proc. pen., e che "tuttavia la questione già prospettata conservi la sua validità alla stregua delle considerazioni svolte nella ordinanza in pari data" r.o. n. 45 del 1994, della quale il Tribunale, nella presente ordinanza, riproduce integralmente il contenuto, aggiungendo da ultimo che "i sospetti di illegittimità sopra illustrati non possono non investire di per sè la condizione della decidibilità allo stato degli atti" cui fa riferimento la disposizione transitoria impugnata.
4.- É intervenuto nei giudizi, con tre identici atti, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che le questioni relative all'art.452, secondo comma, cod. proc. pen., siano dichiarate irrilevanti, inammissibili e comunque infondate.
Nell'atto di intervento relativo al giudizio di cui alla ordinanza r.o.n. 51/1994 non vengono prese in esame le censure all'art.247, secondo comma, disp. trans. cod. proc.pen..
Osserva in primo luogo la difesa dello Stato che, a quanto risulta dalle tre ordinanze, è lo stesso Tribunale a ritenere che agli imputati potrebbe applicarsi la riduzione di pena nonostante il dissenso del pubblico ministero; dal che deriverebbe l'irrilevanza delle questioni.
Le questioni sarebbero poi inammissibili (anche) perchè identiche ad altre già esaminate e dichiarate inammissibili con precedente sentenza: l'unico elemento di novità sarebbe costituito, per un verso, dal mero decorso del tempo e, per altro verso, dal fatto che non appare prevedibile, a breve, alcun intervento normativo. Ma, si rileva, il decorso del tempo, accompagnato dall'inerzia del legislatore, non legittima un intervento "suppletivo" della Corte; come sarebbe dimostrato dalla circostanza che con la sentenza n. 187 del 1992 si è ribadita la declaratoria di inammissibilità già avutasi, sulla stessa materia, con la sentenza n. 92 del 1992. Non corrisponderebbe poi al vero l'assunto del giudice remittente circa il suo dovere di non applicare norme qualificate illegittime dalla stessa Corte, dato che, con le citate sentenze, è stato espresso solo l'auspicio di un intervento normativo razionalizzatore dell'istituto del rito abbreviato.
Nel merito, l'Avvocatura deduce che la sentenza n. 183 del 1990 ha comportato come conseguenza la non configurabilità della violazione degli artt. 3 e 25 Cost., in quanto, nonostante il dissenso, il giudice è comunque in grado con la sua valutazione fina le di evitare i riflessi negativi sull'imputato del rifiuto del pubblico ministero. Inoltre all'imputato non deriverebbero pregiudizi da "lacune probatorie" riconducibili alla discrezionale attività del pubblico ministero, posto che, nel particolare giudizio disciplinato dall'art. 452, secondo comma, cod. proc. pen., il giudice non è vincolato a decidere allo stato degli atti.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, la questione di costituzionalità dell'art. 452, secondo comma, cod. proc.pen., limitatamente all'inciso "e il pubblico ministero vi consente", che subordina la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, e la conseguente riduzione della pena, al consenso del pubblico ministero, il quale, con le sue discrezionali scelte investigative, sarebbe arbitro di determinare la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire le condizioni per negare il consenso alla trasformazione del rito, pur non essendo paradossalmente ostativa a tale trasformazione la non decidibilità allo stato degli atti, tenuto conto del potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dalla norma impugnata (r.o. nn. 34, 45 e 51 del 1994).
Il medesimo Tribunale ha inoltre sollevato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, la questione di costituzionalità dell'art. 247, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), limitatamente alle parole "sospese le formalità di apertura del dibattimento se già iniziate, ne dà avviso al pubblico ministero, che nei cinque giorni successivi esprime o nega il proprio consenso. Se il consenso interviene e il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti"; e ciò in quanto, dato il presupposto interpretativo per il quale il regime dell'art. 452 cod. proc. pen. si applica anche alla disciplina transitoria, i dubbi di costituzionalità prospettati a carico della predetta norma necessariamente vengono a investire anche l'art. 247, che regola l'innesto del giudizio abbreviato nei dibattimenti che proseguono con l'osservanza delle norme del codice abrogato (r.o. n. 51 del 1994).
2.- Le tre ordinanze espongono, in termini sostanzialmente identici, censure attinenti al medesimo istituto. I relativi giudizi vanno pertanto riuniti, per essere decisi con un'unica decisione.
3.- Il giudice a quo ripropone, con nuove argomentazioni, le medesime censure dichiarate inammissibili o manifestamente inammissibili da questa Corte con la sentenza n. 187 del 1992, concentrando tuttavia il petitum, con riferimento sia alla disciplina a regime sia a quella transitoria, sulla eliminazione del consenso del pubblico ministero quale presupposto per la trasformazione del giudizio direttissimo in rito abbreviato, soluzione indicata come costituzionalmente obbligata.
Considerata sia la nuova prospettiva cui si indirizza l'autorità remittente sia la diversità delle argomentazioni, va rigettata l'eccezione di inammissibilità che l'Avvocatura generale dello Stato ha fondato sulla identità delle questioni.
Non può nemmeno essere condiviso il rilievo di irrilevanza formulato dalla difesa del Governo, perchè, contrariamente a quanto da questa sostenuto, il giudice a quo esclude che la disciplina impugnata consenta al giudice di applicare al termine del dibattimento la diminuzione di pena conseguente a condanna pronunciata con rito abbreviato.
4.- Con la citata sentenza n. 187 del 1992, questa Corte, nel dichiarare inammissibili parte delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal medesimo Tribunale di Roma e da altra autorità remittente, pur non negando rilievo al problema della possibile incidenza sull'esperibilità del giudizio abbreviato di scelte discrezionali del pubblico ministero (problema che del resto era stato già oggetto del giudizio di costituzionalità definito con la sentenza n. 92 del 1992), aveva affermato che la questione sottopostale non era suscettibile di soluzione univoca, come dimostrato dalle stesse prospettazioni dei giudici a quibus, indicative di ben quattro soluzioni tra loro alternative, alle quali, si osservava, non era da escludere potessero essere aggiunte altre ancora, nessuna delle quali costituzionalmente obbligata.
Ora il Tribunale di Roma, individuando il petitum nei termini sopra precisati, espone le ragioni per le quali, "a ben vedere", le altre soluzioni prese in rassegna nella citata sentenza non possono considerarsi idonee a risolvere il problema di costituzionalità.
Ma, senza entrare nel merito delle specifiche argomentazioni svolte dal remittente su questa o quella ipotesi di soluzione, è sufficiente per ribadire il giudizio di inammissibilità delle questioni, per pluralità di scelte da riservare alla discrezionalità del legislatore, la considerazione delle variabili che offre la stessa via di uscita ora univocamente indicata dal Tribunale.
L'eliminazione del consenso del pubblico ministero quale presupposto del rito in esame potrebbe considerarsi senza dubbio un'opzione idonea a risolvere i rilevanti sospetti di incostituzionalità prospettati con riferimento alla normativa impugnata, ma la divaricazione che essa determinerebbe rispetto alla disciplina degli altri tipi di giudizio abbreviato previsti dal codice potrebbe aprire la via a ulteriori censure di incostituzionalità, superabili solo attraverso un generale riassetto del procedimento speciale di cui si discute.
5.- L'elemento comune alle varie forme di giudizio abbreviato è il presupposto costituito dall'accordo tra le parti su cui si fonda l'esperibilità di un modello di giudizio per il quale la definizione del merito della regiudicanda avviene sulla base dell'attribuzione di valore di prova a (tutti) gli atti compiuti nella fase che precede l'esercizio dell'azione penale.
Con l'escludere la necessità del consenso del pubblico ministero ai fini della instaurabilità della particolare procedura dettata dall'art. 452 cod.proc. pen., si verrebbe a consentire all'organo dell'accusa, attraverso la scelta del rito ordinario in luogo di quello direttissimo, di variare i presupposti del giudizio abbreviato, così da condizionare, tra l'altro, le prospettive dell'imputato di essere assoggettato a un trattamento punitivo più vantaggioso per il caso di condanna.
Si riprodurrebbe, dunque, sia pure in un altro contesto, la problematica esaminata da questa Corte con la citata sentenza n. 92 del 1992, con la quale era stata proprio messa in luce l'incompatibilità con i princìpi costituzionali di uguaglianza e di legalità della pena di una disciplina che faccia dipendere l'accesso dell'imputato a un rito avente automatici effetti sul trattamento sanzionatorio da scelte discrezionali e insindacabili del pubblico ministero.
6.- Ma l'accoglimento del petitum del remittente comporterebbe anche problemi di riequilibrio "interno" dell'istituto in esame.
Persa la facoltà di interloquire sulla scelta del rito, il pubblico ministero si vedrebbe singolarmente esposto alla prospettiva di un giudizio allo stato degli atti nell'ambito del quale sarebbe il solo giudice, titolare del potere di attivare il meccanismo di integrazione probatoria ex art. 422 cod. proc. pen., arbitro della formazione del materiale probatorio. L'innovazione sollecitata dal remittente non potrebbe dunque non essere accompagnata da una disciplina sull'esercizio del diritto alla prova del pubblico ministero, nonchè del diritto alla controprova della parte privata, la cui elaborazione - attesa la pluralità di scelte discrezionali, anche in relazione alla evidente esigenza di salvaguardare i caratteri distintivi di un giudizio "abbreviato" rispetto al giudizio dibattimentale - non può che competere al legislatore.
7.- Altro aspetto implicato dalla prospettiva coltivata dal giudice a quo è, poi, quello dei limiti all'appellabilità della sentenza da parte del pubblico ministero (art. 443 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 452), che, in linea di principio, possono trovare una giustificazione razionale solo se collegati al presupposto di un consenso dato dalla parte pubblica a un rito che, tra l'altro, incide marcatamente sulla sua facoltà di impugnazione.
8.- Esclusa l'accoglibilità del petitum, in considerazione della pluralità di interventi di tipo manipolativo che potrebbero essere adottati, appare dunque chiaro che la via per superare i non ingiustificati dubbi di incostituzionalità della disciplina in esame avanzati dal Tribunale di Roma non possa essere che quella legislativa, nel quadro di una organica e generale riforma del giudizio abbreviato, secondo le linee e i princìpi già indicati da questa Corte con la citata sentenza n. 92 del 1992. Le questioni, pertanto, vanno dichiarate inammissibili.
Va tuttavia rilevato che, a quanto consta, da parte degli organi costituzionalmente competenti non è stato dato alcun concreto sèguito al pressante invito rivolto al legislatore con la sentenza sopra citata, invito ribadito con le sentenze nn. 56 e 129 del 1993; sicchè, perdurando tale stato di inerzia, questa Corte, ove investita di ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti lo specifico tema, non potrà esimersi dall'adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell'istituto con i principi costituzionali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con le ordinanze in epigrafe;
b) dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 452, secondo comma, del codice di procedura penale e 247, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n.271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe (r.o. n.51/1994).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1994.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 23/12/1994.