SENTENZA N. 341
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA Presidente
Prof. Gabriele PESCATORE
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 341 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1993 dal Pretore di Padova nel procedimento penale a carico di Giacometti Antonio, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Ritenuto in fatto
1.- All'esito dell'istruttoria dibattimentale a carico di un imputato del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il Pretore di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma e 97, primo comma, della Costituzione, dell'art. 341 del codice penale, "nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione".
Secondo il Pretore, tale pena minima appare, per il radicale mutamento dei valori morali e giuridici prodottosi nel lungo tempo trascorso dall'entrata in vigore del codice penale, e in relazione al quadro delineato dalla Costituzione, assolutamente sproporzionata in eccesso.
L'oltraggio, osserva il remittente, è in realtà un'ingiuria aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 cod. pen, differendo da questa solo per il diverso oggetto giuridico, il quale tuttavia non giustifica la rilevante differenza di trattamento sanzionato rio tra le due fattispecie criminose.
L'elevato livello del minimo edittale, comportando l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di disvalore sociale dei fatti, spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato in questione, contrasterebbe, ad avviso del Pretore, in primo luogo con l'art. 27, terzo comma, Cost., essendo compromessa la finalità rieducativa della pena.
Sarebbe poi violato l'art. 97, primo comma, Cost., perchè la gravità della pena, non consentendo l'applicabilità di sanzioni sostitutive pecuniarie, ed ostacolando comunque la definibilità del procedimento in sede predibattimentale, rende inevitabili istruttorie dibattimentali "da assise", così da de terminare costi processuali rilevanti e "l'inutile "occupazione" di una struttura delicatissima già di per sè quasi moribonda".
Infine, secondo il giudice a quo, sarebbe leso anche l'art. 3 Cost., per la differenza di trattamento sanzionatorio tra la fattispecie di cui all'art. 341 cod. pen. e quella di cui agli artt. 594 e 61 n. 10 cod. pen., che non trova adeguata giustificazione razionale nella sola diversità del bene giuridico tutelato, considerato anche che l'esigenza di differenziazione tra le due ipotesi criminose riceve già una significativa realizzazione, sul piano processuale, nella procedibilità d'ufficio per il primo reato.
Il sollecitato intervento di eliminazione del minimo edittale, oltre a risolvere i riferiti problemi di costituzionalità, si configurerebbe, secondo il Pretore, come una scelta non interferente con la sfera di discrezionalità legislativa, rinvenendosi nello stesso sistema, in virtù della generale previsione dell'art. 23, primo comma, cod. pen. (limite generale di quindici giorni di reclusione) l'individuazione del trattamento sanzionatorio minimo.
Considerato in diritto
1.- Il giudice a quo dubita che l'art. 341 cod. pen., nella parte in cui prevede, per il reato di oltraggio, il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione, si ponga in contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione.
Secondo il Pretore tale pena minima sarebbe attualmente, in presenza di un mutamento rilevantissimo dei valori morali e giuridici, o meglio della loro scala gerarchica, assolutamente sperequata in eccesso: di qui, in primo luogo, il sospetto di una violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., poichè l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti, spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato di oltraggio, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena. In secondo luogo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perchè la rilevante differenza del trattamento sanzionatorio minimo ivi previsto rispetto a quello di cui agli artt. 594 e 61, n. 10 cod. pen. (ingiuria aggravata) non troverebbe adeguata giustificazione nella diversità del bene giuridico tutelato. Infine, la previsione contestata violerebbe l'art.97, primo comma, Cost., perchè la gravità della pena, precludendo la possibilità di definire i procedimenti in fase predibattimentale, determinerebbe costi processuali rilevantissimi.
La questione sollevata dunque ha ad oggetto soltanto il minimo edittale. Essa non concerne pertanto nè la previsione del limite massimo della pena, nè le rimanenti disposizioni dell'art. 341 cod. pen..
2.- Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare problemi analoghi a quelli posti dalla questione attuale. In passato, respingendo questioni di legittimità costituzionale formulate con esclusivo riferimento all'art. 3 Cost. - per via dell'asserita arbitraria diversificazione, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria - la Corte dava conto del fatto che la norma impugnata appariva espressione di una concezione autoritaria, ma affermava che la sua eventuale modifica competeva al legislatore (sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980). In seguito, pronunziandosi su una questione analoga, con la quale però si contestava anche e specificamente la eccessiva sproporzione del minimo edittale per l'oltraggio in riferimento alla finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., la Corte, rigettata la censura relativa all'art. 3 Cost., ammetteva che "rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, una effettiva sproporzione fra sanzione comminata e disvalore del fatto", ma ribadiva nuovamente che ogni iniziativa in proposito competeva al legislatore (ordinanza n. 323 del 1988).
Successivamente, esaminando un'altra questione, formulata in termini pressochè identici a quella presente, la Corte ne pronunziava la manifesta infondatezza, da un lato, ribadendo ancora una volta la spettanza al legislatore del giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato anche in relazione alla mutata coscienza sociale e ai principi costituzionali; dall'altro, sottolineando come l'art. 27, terzo comma, Cost. non fosse invocabile nel caso di specie poichè il fine rieducativo della pena andava riferito esclusivamente alla fase di esecuzione di essa (ordinanza n. 127 del 1989).
In ordine a questo complessivo orientamento si può osservare in primo luogo come il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, nè stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza, di cui all'art.3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza" (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993).
Infatti, più in generale, "il principio di proporzionalità ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (sentenza n. 409 del 1989).
In altre recenti decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue": tale finalità rieducativa implica pertanto un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n.422 del 1993).
In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma, Cost.. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale" provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce ... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione".
3.- Al fine di valutare la rispondenza della previsione oggi contestata ai ricordati criteri di giudizio, e segnatamente al principio di proporzionalità, si può iniziare con l'osservare che in altri Paesi europei di democrazia matura non solo non esistono, per le ipotesi corrispondenti, pene così severe, ma è quasi sempre ignorato lo stesso reato di oltraggio: al di là di ipotesi particolari, riguardanti i membri del Parlamento o i soggetti che partecipano alla vita politica, le ingiurie e le diffamazioni nei confronti dei pubblici ufficiali sono infatti normalmente colpite nello stesso modo con cui sono punite quelle rivolte ai privati cittadini.
D'altra parte, nello stesso ordinamento italiano, la sanzione per l'oltraggio prevista nel codice penale del 1889 era assai più lieve di quella odierna, essendo limitata alla reclusione sino a sei mesi, o alla multa.
Si può dunque affermare che la previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non è consona alla tradizione liberale italiana nè a quella europea. Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima.
Il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena non può, nel caso presente, non tenere conto del mutato assetto di questo rapporto.
Già questa prima, più generale, considerazione induce dunque a ritenere che la rigidità e severità del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 e ancora vigente sia frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell'amministrazione) anche nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente.
Ulteriore sintomo della definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata è dato dall'atteggiamento dei giudici di merito che, nel ritenere la norma incriminatrice dell'oltraggio volta a colpire una gamma estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività, per di più in riferimento ad una platea notevolmente estesa di soggetti passivi, hanno continuato ad avvertire il disagio di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, tanto da continuare a investire questa Corte di ripetute questioni di costituzionalità.
Simile situazione di disagio nei giudici e nella società, d'altra parte, è stata aggravata, fino a superare ogni limite di ragionevole tollerabilità dal fatto che, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli da questa Corte perchè provvedesse ad adeguare la disciplina in oggetto ai principi costituzionali, il legislatore non è intervenuto, non essendo state mai portate a compimento le varie iniziative di riforma avanzate nel corso degli anni.
A quanto detto finora si può aggiungere che la manifesta irragionevolezza della norma impugnata emerge anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 594 del codice penale.
La plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione.
Ciò non toglie però che nei casi più lievi, il prestigio e il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo così irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria. Anzi in questi casi è più che mai evidente l'irragionevole bilanciamento tra la tutela dell'amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale.
Il giudizio sulla irragionevolezza della norma in esame trova indiretta ma significativa conferma nella disciplina proposta, nel 1992, dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale.
Con essa si prevede che l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale non costituisce più una figura autonoma di reato, ma solo una aggravante del reato di ingiuria (in questo caso perseguibile d'ufficio). Una riforma che, secondo la relazione, vuole essere "in armonia con una visuale democratica dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini" e che fa seguito alle numerose proposte di modifica che si sono succedute dal 1945 (dopo che era stata ripristinata con l'art. 4 del decreto- legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 l'esimente del fatto arbitrario del pubblico ufficiale) tutte dirette ad attenuare il trattamento sanzionatorio minimo previsto nel reato di oltraggio. In conclusione l'art. 341, primo comma, del codice penale deve, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, essere dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei, rimanendo assorbita la censura relativa all'art. 97 della Costituzione.
Venuto meno così il limite censurato, è possibile individuare la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall'art. 23 cod. pen., senza con ciò effettuare alcuna opzione invasiva della discrezionalità del legislatore, il quale peraltro resta libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purchè ragionevole nei sensi e secondo i principi illustrati nella presente pronunzia.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 341, primo comma, del codice penale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 1994.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22 Luglio 1994.