SENTENZA N. 199
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 348 del codice penale e 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra), promosso con ordinanza emessa l'8 maggio 1992 dal Pretore di Treviso nel procedimento penale a carico di Ruscica Sebastiano, iscritta al n. 658 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visti gli atti di costituzione di Ruscica Sebastiano e dell'Ordine degli Architetti della provincia di Treviso, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 23 febbraio 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;
uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone, Antonio Franchini e Vincenzo Colacino per Ruscica Sebastiano, Salvatore Di Mattia per l'Ordine degli Architetti della provincia di Treviso e l'Avvocato dello Stato Nicola Bruni per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
l. Nel corso di un procedimento penale promosso per il reato di abusivo esercizio della professione "di ingegnere e/o architetto", il Pretore di Treviso ha sollevato questione di legittimità costituzionale del "combinato disposto" degli artt. 348 del codice penale e 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra), assumendo a parametro gli artt. 25 e 27 della Costituzione "per contrasto con i principi di riserva di legge in materia penale, di tassatività della fattispecie penale e di personalità della responsabilità penale".
Osserva il giudice a quo che, costituendo l'art. 348 c.p. una ipotesi riconducibile alla categoria delle cosiddette norme penali in bianco, nel caso di specie il precetto del reato di esercizio abusivo della professione va rinvenuto nell'art. 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n.274 che, alle lettere l) ed m), individua le opere la cui progettazione e direzione rientra nei limiti dell'esercizio professionale di geometra.
Tenuto conto che quest'ultima disciplina è contenuta in un atto privo di forza di legge e considerato che la individuazione del precetto sanzionato dalla legge penale ad opera di fonti normative non di rango primario è stata ritenuta da questa Corte compatibile con il principio della riserva di legge in materia penale allorchè i presupposti, il carattere, il contenuto ed i limiti dell'atto amministrativo contenente il precetto siano prefissati dalla legge in modo da assicurare un efficace controllo incidentale di legittimità, il rimettente contesta che simili postulati possano ritenersi integrati nella ipotesi di specie.
Posto, infatti, che il divieto sancito dall'art. 348 c.p. assume concretezza solo facendo riferimento alle disposizioni dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, finisce per risultare carente una "norma di legge che indichi con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri ed i limiti ai quali devesi attenere l'Autorità Amministrativa nel disciplinare l'ambito di esercizio della professione di geometra (e così nel vietare gli atti eccedenti tale ambito professionale)".
Nè maggiore concretezza è possibile desumere dalla legge "delegante" 24 giugno 1923, n. 1395, la quale ha lasciato libera l'autorità amministrativa di fissare il limite della competenza professionale del geometra e di modificarne la portata, risultando in tal modo violati i principi enunciati da questa Corte nella sentenza n. 282 del 1990.
Il principio di determinatezza, inoltre, sarebbe vulnerato anche per la genericità dei criteri che l'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 enuncia in tema di "modestia" della costruzione che rientra nelle attribuzioni professionali del geometra; una genericità, d'altra parte, che, rileva il giudice a quo, non ha consentito alla giurisprudenza di pervenire a risultati univoci circa i parametri (quantitativo, economico o qualitativo) alla cui stregua una determinata costruzione possa o meno ritenersi modesta. Le norme impugnate contrasterebbero, poi, anche con il principio di cui all'art. 27, primo comma, della Costituzione, in quanto, osserva il rimettente, è proprio la indeterminatezza del precetto a non consentire "alla norma penale di esplicare le proprie funzioni, sanzionatorie di un atteggiamento riprovevole del reo, e rieducativa del condannato".
Conclusivamente il giudice a quo rileva che, pur avendo questa Corte dichiarato inammissibile con ordinanza n. 219 del 1983 una questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, trattandosi di un atto non avente forza di legge, è tuttavia da ritenere che spetti alla Corte controllare tale norma regolamentare "ove quest'ultima costituisca - come nella specie - parte integrante di una norma di legge penale, siccome richiamata nell'art.348 c.p. per effetto del noto meccanismo delle < norme penali in bianco>".
2. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
Osserva, infatti, l'Avvocatura che questa Corte ha già dichiarato inammissibile - con ordinanza n. 219 del 1983 - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 in quanto atto non avente forza di legge, nè a diverse soluzioni può indurre il richiamo all'art.348 c.p., trattandosi di un richiamo "assolutamente formale, atteso che i rilievi critici riguardano, non già la norma incriminatrice penale, ma esclusivamente la norma regolamentare".
3. Con atto depositato il 20 ottobre 1992 si è costituita la difesa dell'imputato per sostenere la fondatezza della questione.
Aderendo alle considerazioni svolte nella ordinanza di rimessione, la difesa dell'imputato ribadisce che la norma regolamentare enunciata nell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 integra il precetto contenuto nell'art. 348 c.p., in quanto alla prima occorre fare riferimento per verificare se la condotta sia o meno penalmente rilevante. Da qui la violazione del principio della riserva di legge, posto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, nonchè la "violazione del principio di legalità (e cioé della tassatività della previsione normativa in materia penale)", stante l'indeterminatezza del criterio in base al quale vengono individuati i limiti della competenza professionale del tecnico diplomato.
Osserva, infine, la difesa dell'imputato che una questione di costituzionalità può porsi solo in quanto l'art. 348 c.p. sanziona una condotta che si qualifica come illecita in relazione ad una norma regolamentare assunta ad elemento integrativo della norma penale: sicchè, "la declaratoria di illegittimità dovrebbe investire proprio la norma regolamentare in questione, elevata al rango di norma primaria in virtù della sua compenetrazione con il precetto posto dalla legge penale".
4. Si è altresì costituito l'Ordine degli Architetti della Provincia di Treviso per dedurre la non fondatezza della questione oggetto del presente giudizio.
L'interveniente osserva, anzitutto, come non sia del tutto certa la natura regolamentare del regio decreto n. 274 del 1929, giacchè, ove non si ritenga che l'art. 1 della legge n.144 del 1949 abbia attribuito al primo atto natura di fonte primaria, resta il fatto che la legge n. 100 del 1926 era attributiva al Governo della potestà legislativa ordinaria. Nel merito si rileva che, attraverso una lettura "combinata" del regio decreto n. 274 del 1929 con la legge n. 144 del 1949 e tenendo conto delle disposizioni "contigue" che riguardano la professione degli ingegneri e degli architetti, può pervenirsi ad una definizione sufficientemente circoscritta dell'area riservata ai geometri che consente di ritenere infondata la questione, richiamandosi a tal riguardo i principi che, in tema di interpretazione delle norme, questa Corte ha avuto modo di affermare nella sentenza n. 280 del 1992.
Con memoria dell'8 febbraio 1993, il medesimo Consiglio dell'Ordine degli Architetti, dopo aver richiamato i principi affermati da questa Corte in tema di "classi professionali" nella sentenza n. 380 del 1992, ha osservato che la competenza dei geometri assume carattere residuale rispetto a quella degli ingegneri ed architetti. Essendo quest'ultima regolata dalla legge n. 1395 del 1923, la disciplina dettata dal regio decreto n. 274 del 1929 si pone dunque come fonte residuale, avendo la materia rinvenuto una sua delimitazione "in positivo" nella citata legge del 1923.
Considerato in diritto
l. Il Pretore di Treviso dubita, in riferimento agli artt. 25 e 27 della Costituzione, della legittimità del "combinato disposto" degli artt. 348 del codice penale e 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra).
Il quadro normativo così complessivamente devoluto al giudizio di questa Corte è investito da tre distinte censure, che a loro volta consentono di scomporre il petitum che il giudice a quo fa mostra di perseguire, malgrado l'impugnativa risulti essere formalmente volta alla caducazione non delle distinte ed eterogenee disposizioni oggetto di cumulativa doglianza, ma della risultante normativa che scaturisce dal reciproco combinarsi tra loro. Viene infatti denunciata, anzitutto, la violazione del principio di riserva di legge in materia pena le, in quanto, posto che per fare acquisire concretezza al divieto contenuto nell'art. 348 del codice penale è necessario riferirsi alle disposizioni dettate dall'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, vale a dire ad una fonte di "rango secondario", mancherebbe nella specie una "norma di legge che indichi con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri ed i limiti ai quali devesi attenere l'autorità amministrativa nel disciplinare l'àmbito di esercizio della professione di geometra (e così nel vietare gli atti eccedenti tale ambito professionale)".
La disciplina impugnata contrasterebbe, poi, con il principio di tassatività sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto l'espressione "modesta costruzione", che individua i limiti professionali del geometra a norma dell'art.16 del regio decreto n. 274 del 1929, è ritenuta dal giudice a quo "generica ed indeterminata", al punto da aver impedito, secondo il medesimo giudice, il conseguimento di univoci responsi giurisprudenziali circa i criteri alla cui stregua assegnare "concretezza" al concetto che quella locuzione ha inteso esprimere. Da ciò il rimettente desume, quale ultimo profilo di illegittimità, la violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione, giacchè l'integrazione del reato previsto dall'art.348 del codice penale con il "parametro indeterminato" contenuto nell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, non consentirebbe "alla norma penale di esplicare le proprie funzioni, sanzionatorie di un atteggiamento riprovevole del reo, e rieducativa del condannato".
2. La difesa dello Stato, prescindendo da valutazioni sul merito, si è limitata a contestare pregiudizialmente, nel proprio atto di intervento, l'ammissibilità della questione.
Rileva infatti l'Avvocatura che questa Corte ha già avuto modo di dichiarare con l'ordinanza n. 219 del 1983, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, in quanto norma non contenuta in un atto avente forza di legge; nè a diverse conclusioni - osserva l'interveniente - è possibile pervenire in virtù del richiamo che l'ordinanza remissiva opera all'art. 348 del codice penale, trattandosi di un richiamo "assolutamente formale", giacchè le censure mosse dal giudice a quo riguardano "non già la norma incriminatrice penale, ma esclusivamente la norma regolamentare".
3. Ai fini della delibazione della pregiudiziale che l'Avvocatura dello Stato solleva in punto di ammissibilità, occorre pertanto esaminare se la questione che forma oggetto del presente giudizio possa ritenersi effettivamente circoscritta ai profili di illegittimità costituzionale che affliggerebbero il più volte richiamato regio decreto n. 274 del 1929, o se, invece, il thema decidendum che il giudice a quo ha inteso tracciare e devolvere all'esame di questa Corte comporti la necessità di scandire, nelle singole componenti normative, il dubbio di costituzionalità che il rimettente profila in rapporto alle diverse disposizioni "combina te" fra loro. L'analisi del petitum e la conseguente possibilità di enucleare distinti quesiti che prendono autonomamente in considerazione tanto l'art. 348 del codice penale che l'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, svela però subito l'infondatezza della eccezione di inammissibilità, che l'Avvocatura al contrario sostiene proprio sul presupposto del rilievo esclusivo che la fonte regolamentare assumerebbe nel quadro delle censure prospettate dal giudice a quo.
Il rimettente pone infatti a fondamento dei propri dubbi di legittimità costituzionale la circostanza che, rappresentando l'art.348 del codice penale una ipotesi di norma penale in bianco, il relativo precetto resterebbe integrato dall'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, vale a dire da una fonte non primaria inidonea a soddisfare il principio di legalità in materia penale. A differenza di quanto opina l'Avvocatura, dunque, il vi zio denunciato si riferisce direttamente alla disposizione penale, ancorchè la censura sia prospettata come conseguenza della correlazione che tale norma presenta con la disposizione regolamentare, la quale, a sua volta, fungerebbe da elemento integrativo della fattispecie. Dalla premessa di cui si è detto il rimettente trae, poi, l'ulteriore censura di indeterminatezza che vizierebbe, nell'ipotesi di specie, il reato previsto dall'art. 348 del codice penale: posto, infatti, che è la stessa fonte regolamentare a stabilire i limiti professionali del geometra e poichè tali limiti sono individuati solo attraverso espressioni generi che quali "modeste costruzioni civili", sarebbe lo stesso precetto penale a non potersi dire , secondo il giudice a quo, adeguatamente definito nei suoi elementi tipizzanti. Ancora una volta, pertanto, la questione che il rimettente sottopone all'esame di questa Corte non è intesa a travolgere il solo art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929, ma anche il reato di esercizio abusivo della professione, sia pure nel circoscritto ambito di cui innanzi si è detto.
Alle medesime conclusioni è infine possibile pervenire anche per ciò che concerne il terzo pro filo di illegittimità che il rimettente desume sempre dalla asserita indeterminatezza del parametro che integrerebbe la fattispecie sanzionatoria, e che impedirebbe alla norma penale di svolgere la propria funzione sanzionatoria e rieducativa. Se l'indeterminatezza, infatti, è dedotta con specifico riferimento alla norma che disciplina il contenuto e i limiti della professione del geometra, il contrasto con l'art. 27 della Costituzione non può che riguardare, secondo la prospettiva del giudice a quo, il precetto penale e, quindi, la norma che, per essere "in bianco", a quella disciplina deve necessariamente riferirsi per assumere effettiva concretezza.
4. L'esame del quesito, dunque, comporta la verifica differenziata delle singole censure, in rapporto a ciascuna delle componenti normative che il giudice rimettente ha, invece, composto come oggetto unitario della questione. Sicchè, dovendosi il controllo di costituzionalità volgere all'esame separato della norma penale e di quella regolamentare che della prima costituirebbe elemento integrativo, occorrerà necessariamente prendere le mosse dalla prima, potendosi solo su questa profilare, per quel che si dirà, un apprezzamento del merito.
Al nucleo della tesi sostenuta dal Pretore di Treviso sta l'assunto che il delitto di esercizio abusivo della professione, previsto dall'art. 348 del codice penale, integra una ipotesi di norma penale in bianco la quale, postulando per sua stessa natura l'esistenza di una diversa fonte normativa destinata a riempire di contenuto precettivo la fattispecie incriminatrice, finisce per operare alla stregua di una previsione "di rinvio" che in tanto può ritenersi rispettosa del principio di legalità, in quanto la fonte extrapenale che disciplina l'esercizio della professione rinvenga anch'essa nella legge sufficiente specificazione circa i relativi presupposti, caratteri e limiti.
Dovendosi ancora una volta "prescindere dal problema dogmatico sulla natura giuridica della norma penale in bianco" (v. sentenza n.58 del 1975), e fermi restando i principii che questa Corte ha reiteratamente avuto modo di affermare in ordine alla natura ed alla portata del principio di legalità sancito dall'art. 25 della Costituzione, occorrerà allora verificare preliminarmente se sia o meno corretto l'assunto che configura l'art.348 del codice penale quale norma priva di qualsivoglia autonomia precettiva e, come tale, destinata ad operare nell'ordinamento in "simbiotica" concorrenza con le disposizioni extrapenali che disciplinano le professioni il cui abusivo esercizio "esaurisce" il precetto, assoggettando a pena la relativa condotta.
Solo se tale premessa fosse condivisibile, infatti, si porrebbe un problema di "legalità" della fonte del potere amministrativo quando incide sulla disciplina di determinate professioni, giacchè soltanto in quel caso potrebbe correttamente affermarsi che è la stessa configurazione del fatto penalmente determinato a dipendere, nella sua concreta tipizzazione, dal mutevole atteggiarsi di un potere diverso da quello legislativo. Ma è proprio sulla fondatezza di una simile premessa, che pure il giudice a quo deduce come assiomatica, che debbono formularsi le più ampie riserve. L'art. 348 del codice penale, infatti, lungi dall'operare un meccanico rinvio ad altre fonti dell'ordinamento quali elementi strutturali del precetto, delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali. Il fatto costitutivo del reato, infatti, assume i connotati della antigiuridicità attraverso la realizzazione dell'atto o degli atti mediante i quali "abusivamente" viene esercitata una determinata professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.
Ciò significa che il provvedimento abilitativo non integra, in sè e per sè, un elemento che "positivamente" si iscrive nella struttura della fattispecie, la quale, dunque, non potrebbe vivere senza di esso, ma rappresenta, al contrario, il presupposto che "in negativo" condiziona la capacità giuridica del soggetto in ordine all'esercizio di quella specifica professione, qualificandone la condotta come abusiva e, perciò stesso, illecita. L'abilitazione, quindi, più che fungere da elemento scriminante che esclude l'antigiuridicità di una condotta formalmente sussumibile nel modello legale delineato dalla norma incriminatrice, opera quale condizione negativa che impedisce di ricondurre il fatto, nella sua stessa materialità, alla figura astratta delineata dal legislatore. D'altra parte, che lo Stato prescriva, in funzione della tutela di interessi generali, una speciale abilitazione per l'esercizio di determinate professioni, è fenomeno che, a ben guardare, non si discosta da quell'ampia gamma di situazioni in cui provvedimenti di natura abilitativa od autorizzatoria incidono su posizioni soggettive qualificate, determinando l'applicabilità di sanzioni penali nelle ipotesi in cui i limiti propri di quelle posizioni soggettive non siano stati rispettati. Ma se la condotta non abilitata o non autorizzata ben può essere ritenuta illecita in quanto tale, essendo a tal fine sufficiente il contenuto prescrittivo offerto dal precetto penale, non v'è ragione per dubitare che anche l'art. 348 del codice penale descriva una fattispecie perfetta in tutti i suoi connotati tipizzanti, senza doversi necessariamente evocare, quale ulteriore elemento descrittivo del fatto, l'esatta natura, il contenuto ed i limiti dello specifico provvedimento con il quale una determinata persona è abilitata ad esercitare una certa professione. Non può quindi condividersi la tesi del rimettente secondo la quale occorrerebbe assegnare valore precettivo alle disposizioni dettate dall'art. 16 del regio decreto 274 del 1929 in quanto indispensabili "al fine di far acquisire concretezza al divieto contenuto nell'art.348" del codice penale, giacchè ciò che la norma penale individua come elemento necessario e sufficiente per l'integrazione della fattispecie è l'assenza di quella speciale abilitazione che lo Stato richiede per l'esercizio della professione, mentre il contenuto ed i limiti propri di ciascuna abilitazione, non rifluiscono - come ritiene il giudice a quo - all'interno della struttura del fatto tipico, ma costituiscono null'altro che un presupposto di fatto che il giudice è chiamato a valutare caso per caso.
Una volta riconosciuta "l'autosufficienza precettiva" della fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 348 del codice penale, ne consegue, quindi, l'infondatezza del dubbio di legittimità che il Pretore di Treviso ha sollevato deducendo la violazione del principio di "riserva di legge" in materia penale. Per le medesime ragioni, d'altra parte, non fondati devono ritenersi anche gli ulteriori profili di illegittimità che il giudice a quo solleva lamentando la violazione del principio "di tassatività della fattispecie penale e di personalità della responsabilità penale", giacchè entrambe le censure si fondano sull'erroneo presupposto di ritenere che i parametri non sufficientemente precisi che è possibile desumere dall'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 inciderebbero negativamente sulla determinatezza del precetto, per essere, essi stessi, elementi normativi della fattispecie.
Una volta esclusa, infatti, l'immediata interferenza di quei parametri sulla conformazione del modello legale tracciato dalla fattispecie incriminatrice, neppure una loro eventuale genericità può ritenersi un fattore in sè idoneo ad incrinare la determinatezza del fatto-reato descritto dall'art. 348 del codice penale, considerato fra l'altro che la portata precettiva della norma è tale che, ove il soggetto attivo sia privo di qualsiasi abilitazione professionale, i parametri che tracciano i confini tra le diverse abilitazioni finiscono per non rivestire rilievo alcuno ai fini dell'accertamento della antigiuridicità della condotta.
5. Enucleati dal quesito sollevato dal giudice a quo i profili di legittimità costituzionale riguardanti l'art. 348 del codice penale e dissolti i relativi dubbi per le ragioni di cui si è detto, non resta, dunque, che affrontare i vizi che il rimettente denuncia a margine dell'art. 16 del più volte citato regio decreto n. 274 del 1929. A tal riguardo, il Pretore rimettente fa mostra di essere ben consapevole della giurisprudenza di questa Corte che ha in più occasioni escluso la possibilità di sottoporre a giudizio di costituzionalità le disposizioni del menzionato regio decreto, per essere le stesse contenute in un atto non avente forza di legge (v. sentenza n. 16 del 1975 e ordinanze n. 219 del 1983 e n. 326 del 1992); ed è, anzi, proprio per superare una simile pregiudiziale - puntualmente eccepita dall'Avvocatura - che il giudice a quo, come si è detto, ha censurato il "combinato disposto" dell'art. 348 del codice penale e della norma regolamentare più volte richiamata, facendo leva sul presupposto che quest'ultima norma costituirebbe, nella specie, "parte integrante di una norma di legge penale", in quanto richiamata dall'art.348 c.p. per effetto del "meccanismo delle norme penali in bianco".
Affermazioni, queste, che trovano eco anche nella tesi sostenuta dalla difesa dell'imputato, la quale finisce per ammettere, nella memoria di costituzione, che la possibilità di sindacare in sede di giudizio di costituzionalità la norma regolamentare di cui si è detto sussiste solo nei limiti in cui si ritenga che tale norma sia "elevata al rango di norma primaria in virtù della sua compenetrazione con il precetto posto dalla legge penale".
Dovendosi però scomporre nelle singole previsioni normative il "combinato disposto" che il rimettente cumulativamente devolve quale oggetto del presente giudizio, l'epilogo della questione relativa all'art.16 del regio decreto n. 274 del 1929 non può che essere quello della inammissibilità, difettando qualsiasi valido argomento per discostarsi dalle precedenti pronunce che questa Corte ha avuto modo di adottare sull'argomento. Caduta, infatti, la premessa di ritenere norma penale e disposizione regolamentare come aspetti interagenti di un fenomeno normativo unitario, e svelata, di conseguenza, l'infondatezza della tesi secondo la quale l'integrazione del precetto ad opera della norma regolamentare consentirebbe a quest'ultima di assurgere ad un livello superiore nella gerarchia delle fonti, residua l'ormai "isolata" disposizione dettata dall'art. 16 del citato regio decreto, la quale non può essere per sua stessa natura assoggettata a controllo di costituzionalità in questa sede, in quanto, al pari di qualsiasi norma regolamentare e come per ogni altro atto amministrativo, il riscontro della sua legittimità costituzionale è riservato a qualsiasi giudice chiamato ad applicarla e può condurre alla sua disapplicazione (art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E) o all'eventuale annullamento in sede amministrativa (v. sentenza n. 16 del 1975).
Neppure può essere accolta la tesi, sostenuta dall'ordine degli Architetti della Provincia di Treviso, secondo la quale i richiami al regio decreto n. 274 del 1929, contenuti nella legge 2 marzo 1949, n.144 (Approvazione della tariffa degli onorari per le prestazioni professionali dei geometri) varrebbero ad attribuire al regio decreto stesso natura di fonte primaria.
Se, infatti, può essere senz'altro condiviso l'assunto che la legge n.144 del 1949 rappresenti un indubbio ausilio per contribuire ulteriormente a precisare le competenze professionali dei geometri e che, quindi, sotto tale profilo ben possa fungere da disciplina "integrativa" delle previsioni dettate dal regolamento, non può tuttavia ammettersi che il generico richiamo enunciato nell'art. 1 della legge n. 144 del 1949 a talune norme del regio decreto n. 274 del 1929, operato al solo fine di individuare "l'oggetto" della tariffa professionale, valga di per sè ad assegnare veste e forza legislativa al medesimo regio decreto. A ciò è di evidente ostacolo, infatti, non solo e non tanto la specifica e circoscritta funzione del richiamo che la legge ha operato al regolamento, quanto, soprattutto, la mancanza di univoci elementi alla stregua dei quali ipotizzare che la legge n. 144 del 1949 abbia effettivamente inteso "trasfondere" nel corpo dello stesso provvedimento legislativo il regolamento professionale del 1929, tuttora vigente.
D'altra parte, la censura che, alla stregua delle prospettazioni del rimettente e degli stessi interventori, costituisce il vero nucleo della questione, vale a dire la genericità del parametro della modestia della costruzione quale criterio di discrimine tra la competenza professionale del geometra e quelle "finitime" degli ingegneri e degli architetti, finisce per rivelarsi collegata a premesse erronee.
Da un lato, infatti, non può certo ritenersi scelta irragionevole quella di ragguagliare a presupposti "flessibili" la determinazione di competenze che postulano cognizioni necessariamente variabili in rapporto ai progressi tecnico-scientifici che la materia può subire nel tempo.
Sotto altro profilo, poi, i criteri enunciati nelle lettere l) ed m) dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 non si discostano da quelle nozioni di comune esperienza che "non impongono al giudice alcun onere esorbitante dal normale compito di interpretazione" (v., tra le tante, ordinanza n. 72 del 1984 e sentenza n. 49 del 1980), specie ove si consideri l'ausilio che - come si è accennato - può a tal fine essere offerto dalla intera normativa di settore. A corollario di quanto appena rilevato e quale conclusivo aspetto idoneo a svelare come le doglianze del rimettente finiscano per evocare un falso problema, sta, infine, una nutrita elaborazione giurisprudenziale ormai concorde nel ritenere che, per accertare se una costruzione sia da considerare "modesta" e rientri nella competenza professionale dei geometri ai sensi dell'art.16 del regio decreto n. 274 del 1929, il criterio basilare cui fare appello è quello tecnico - qualitativo fondato sulla valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi particolari devoluti esclusivamente ai professionisti di rango superiore, mentre il criterio quantitativo e quello economico possono soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella realizzazione dell'opera. Un quadro, dunque, del tutto antitetico rispetto alla pretesa "genericità" di criteri ed ambiguità di responsi giurisprudenziali sui quali il giudice a quo ha fondato in larga misura i propri rilievi di incostituzionalità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 348 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 27 della Costituzione, dal Pretore di Treviso con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 27 della Costituzione, dal Pretore di Treviso con l'ordinanza in epigrafe.
Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/04/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 27/04/93.