SENTENZA N. 82
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), promosso con ordinanza emessa il 16 gennaio 1991 dal Pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra De Zordo Matteo e la s.r.l. Cenacolo professionale, iscritta al n. 605 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1991.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto in fatto
1. Con ricorso depositato il 13 luglio 1990 Matteo De Zordo, cameriere, esponeva di essere stato licenziato, dopo soli quattro giorni di lavoro, dal suo datore di lavoro (una società con nove dipendenti) e senza che ricorresse un'ipotesi di giusta causa o di giustificato motivo.
La società resistente (Cenacolo professionale s.r.l.) si costituiva con memoria depositata il 28 dicembre 1990 eccependo preliminarmente l'improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell'art. 5 della legge 11 maggio1990, n. 108.
Con ordinanza del 16 gennaio 1991, il Pretore di Milano, rilevato che la procedura conciliativa non era stata esperita, sollevava, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, eccezione di incostituzionalità dell'art. 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nella parte in cui prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione (secondo le procedure stabilite dai contratti e accordi collettivi ovvero dagli artt. 410 e 411 codice di procedura civile) come condizione di procedibilità dell'azione.
2. Osserva il giudice remittente che il rito del lavoro già prevede, all'art. 420 codice di procedura civile, il tentativo obbligatorio di conciliazione ad opera del giudice del lavoro (conciliazione obbligatoria giudiziaria).
Con l'art. 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, invece, si è reso obbligatorio anche il tentativo di conciliazione davanti all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione (ma non solo) già facoltativo secondo la previsione degli artt. 410 e 411 codice di procedura civile (conciliazione obbligatoria extragiudiziaria).
Secondo il Pretore di Milano tale procedimento conciliativo sarebbe un < < inutile doppione>> del tentativo giudiziale ex art. 420 codice di procedura civile. Come tale il meccanismo introdotto, lungi dallo snellire il contenzioso, lo ritarderebbe e lo aggraverebbe. Ne risulterebbe una < < violazione del diritto di difesa ex art. 24 (sotto il profilo del ritardo)>> della Costituzione che non potrebbe trovare la giustificazione della pretesa di riduzione del contenzioso.
La fattispecie sarebbe diversa da quella prevista dall'art.443 codice di procedura civile, dettato in tema di controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, che pure, nel preventivo esaurimento della procedura amministrativa, individuerebbe una condizione di procedibilità della domanda, perchè < < nel caso di specie l'interlocutore del ricorrente è sempre lo stesso...e quindi la fase amministrativa non può offrire alcuna eventualità in più rispetto a quelle che possono emergere in fase conciliativa davanti al pretore del lavoro>>.
La norma inoltre violerebbe anche il principio di uguaglianza, poichè non potrebbe trovarsi alcuna giustificazione alla disparità di trattamento tra il ricorrente in una causa di lavoro (che sarebbe penalizzato dalla detta condizione di procedibilità) e l'attore in una causa ordinaria (che così risulterebbe avvantaggiato dall'assenza di simili ostacoli procedurali).
3. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura dello Stato ed ha chiesto la declaratoria di non fondatezza della questione con ordinanza.
L'Avvocatura ha sostanzialmente argomentato soltanto in riferimento al profilo relativo all'art. 24 della Costituzione. E ha sostenuto che la legge n. 108 del 1990, mentre pone le premesse per un aumento delle controversie, ha, di contro, costruito anche un filtro volto ad evitare un eccessivo sovraccarico della giustizia civile, in crisi di efficienza, con il pregiudizio delle stesse posizioni tutelate. In questa direzione il tentativo di conciliazione giudiziale ex art. 420 codice di procedura civile non è idoneo a soddisfare le esigenze di celerità processuale, presupponendo l'incardinamento del processo e, quindi, lo svolgimento di una faticosa attività a cura del giudice.
L'Avvocatura ha così ricordato la giurisprudenza della Corte che ha più volte affermato la legittimità di quella legge che subordina < < l'esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purchè non vengano imposti oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale>>. E in particolare ha richiamato l'ordinanza n. 73 del 1988 con la quale la Corte ha stabilito che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non costituisce < < adempimento vessatorio di difficile osservanza nè un'insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell'attore>>.
Considerato in diritto
1. É stata sollevata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nella parte in cui prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione (secondo le procedure stabilite dai contratti e accordi collettivi ovvero dagli artt. 410 e 411 codice di procedura civile) come condizione di procedibilità dell'azione.
2. La questione non è fondata.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che il rigore con cui è tutelato il diritto di azione, secondo la previsione dell'art. 24 della Costituzione, non comporta l'assoluta immediatezza del suo esperimento (si vedano le sentenze n. 47 del 1964, nn. 56, 83 e 113 del 1963, n. 40 del 1962).
Se alcune limitazioni tendono, infatti, ad evitare l'abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l'adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso (sentenza n. 46 del 1974).
Evitare l'abuso, o ancor meglio l'eccesso della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della < < giurisdizione condizionata>>. Il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione.
In altri casi, e particolarmente nell' esame degli oneri imposti ai lavoratori nell'esperimento dei rimedi giurisdizionali nei confronti di enti pubblici, questa Corte ha più volte giustificato gli oneri previsti dalle norme impugnate ove posti a salvaguardia di < < interessi generali>> non contrastanti con i diritti costituzionali di azione e di difesa ( cfr. le sentenze n. 57 del 1972, n. 47 del 1964, n. 113 del 1963, n. 83 del 1963).
3. In dottrina si è negato, per vero, che mere tecniche endo-processuali, ispirate a principi d'economia, possano fornire adeguato fondamento alle limitazioni ed ai condizionamenti del diritto d'azione.
L'amministrazione della giustizia, infatti, non avrebbe carattere costituzionale o, comunque, ai suoi interessi non potrebbero essere sacrificate altre esigenze di pari o superiore rilevanza. In tal modo si ridurrebbero fortemente ed ingiustificatamente le garanzie del cittadino, specie dove il ricorso a forme rudimentali di procedimenti contenziosi, simulanti il processo< < giustiziale>>, renderebbe il ruolo del giudice del tutto subor sussidiario. Ma così si rischia di svilire la soluzione tecnica da tempo proposta da questa Corte in ordine al concreto punto di equilibrio tra l'effettiva garanzia dell'azione e il limite al suo condizionamento. E non si tiene nel dovuto conto l'inversione di tendenza operata dal legislatore, che con la riforma del processo del lavoro ha abrogato il vecchio art. 460 codice di procedura civile, e ha sostituito l'improcedibilità all'originaria improponibilità della domanda, conciliando < < l'inviolabilità dell'accesso alle Corti>> con le finalità della < < giurisdizione condizionata>>.
4. Già la sentenza n. 57 del 23 marzo 1972 aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma impugnata (nella specie l'art.10 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148) nella parte in cui sanciva l'improponibilità dell'azione giudiziaria in caso di mancata o tardiva presentazione del reclamo gerarchico per le controversie di lavoro aventi per oggetto diritti patrimoniali. E nella stessa linea si era iscritta la pronuncia n. 93 del 12 luglio 1979 (dichiarando l'illegittimità costituzionale dello stesso art. 10 del regio decreto 8 gennaio 1931, n.148, come modificato dalla legge n. 633 del 1957, < < nella parte in cui dispone l'improponibilità e non la improcedibilità dell'azione giudiziaria in caso di mancata o tardiva presentazione del reclamo gerarchico nelle controversie aventi ad oggetto il riconoscimento della qualifica>> e < < nelle controversie aventi ad oggetto l'accertamento di ogni altro diritto "non esclusivamente patrimoniale" diverso da>> quelli sopra indicati).
Ciò che caratterizza queste pronuncie è il fatto che gli oneri e le modalità che condizionano l'esercizio dell'azione non debbono tradursi in una secca subordinazione dell'azione al previo esperimento di una diversa tutela non giurisdizionale, costringendo il singolo, in un primo tempo, a rivolgersi ad un organo non giudiziale.
5. La strada seguita dal legislatore con la legge n. 108 dell' 11 maggio 1990 ha fatto tesoro di queste indicazioni (come si evince dalla relazione ad una delle proposte di legge e da alcuni interventi nel corso dei lavori parlamentari). Infatti, la mancata richiesta di conciliazione, avanzata secondo le procedure previste dai contratti e accordi collettivi di lavoro o dagli artt. 410 e 411 del codice di procedura civile, non impedisce la proposizione dell'azione che così rischia soltanto la sanzione dell'improcedibilità, praticamente equivalente alla sospensione del giudizio ed alla fissazione di un termine perentorio (non superiore a 60 giorni) per la proposizione della richiesta del tentativo di conciliazione e di un altro termine (del pari perentorio) per la riassunzione entro 180 giorni dalla cessazione della causa di sospensione.
Nè appare suscettibile di censure la mancata previsione d'un termine entro il quale deve esaurirsi il procedimento conciliativo. Perchè la domanda sia procedibile è infatti sufficiente che la richiesta sia stata inoltrata, qualunque sia il suo destino. E non v'è dubbio che la mera richiesta di conciliazione non comporta un tempo seriamente apprezzabile.
La mancanza d'un riferimento temporale (esaurimento del tentativo di conciliazione, inutile decorso d'un termine massimo di legge prefissato, ecc.) può ben essere risolto in via interpretativa ritenendo l'evento integrato dalla semplice richiesta del tentativo di conciliazione.
Spetterà poi al giudice definire la controversia tenendo conto di un accordo intervenuto medio tempore (sia esso munito o meno del decreto di esecutività) oppure senza di esso.
In questo senso appare del tutto priva di fondamento la preoccupazione espressa nell'ordinanza di remissione circa una duplicazione di tempi fra il tentativo di conciliazione stragiudiziale e quello giudiziale, fra loro pur diversissimi per funzione e significato.
6. La ragione giustificatrice del condizionamento dell'azione negli indicati termini, secondo l'orientamento consolidato della Corte, può ben essere ravvisata nell'esigenza di < < evitare abusi od eccessi, o salvaguardare interessi generali>> (sentenza n. 57 del 1972). Ma non può, tale motivo, essere disgiunto dalla considerazione di specifiche ragioni giustificatrici della limitazione del diritto di azione nell'alternativa che, in armonia con altro principio costituzionale, la legge n. 108 dà all'imprenditore consentendogli la scelta fra riassunzione e monetizzazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.5 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sollevata dal Pretore di Milano con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/02/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Depositata in cancelleria il 4 marzo del 1992.