Sentenza n.154 del 1985

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SENTENZA N. 154

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 12, n. 1, del Regolamento del Senato della Repubblica, approvato il 17 febbraio 1971, e dell'art. 12, n. 3, del Regolamento della Camera dei Deputati, approvato il 18 febbraio 1971, e comunque della norma attributiva alle Camere della autodichia sulle controversie di impiego dei propri dipendenti, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 31 marzo 1977 dalla Corte di Cassazione sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto da Micone Enzo c/l'Amministrazione del Senato della Repubblica, iscritta al n. 408 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 1977;

2) ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra la Camera dei Deputati c/Russi Luciano e Russi Luciano c/1a Camera dei Deputati, iscritta al n. 315 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981;

3) ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra la Camera dei Deputati e Muscariello Franco, iscritta al n. 316 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981.

Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione del Senato della Repubblica, di Micone Enzo, di Russi Luciano, della Camera dei Deputati e di Muscariello Franco nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 1985 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

uditi gli avvocati Federico Sorrentino per Russi Luciano, Franco Gaetano Scoca per Muscariello Franco e l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per l'Amministrazione del Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

  1. - Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, adite con ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione da Enzo Micone - che aveva convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma l'Amministrazione del Senato della Repubblica facendo valere pretese connesse al precorso rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima Amministrazione, la quale aveva eccepito il difetto di giurisdizione - hanno sollevato d'ufficio, con ordinanza in data 31 marzo 1977, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971, e comunque della norma attributiva al Senato medesimo dell'autodichia nei confronti del personale dipendente, in riferimento agli artt. 24, 113, 101, comma secondo, e 108, comma secondo, della Costituzione.

Premesso che la resistente Amministrazione aveva dedotto che, in base al disposto di cui agli artt. 12 del citato regolamento e 13 del decreto del Presidente del Senato 9 novembre 1972, n. 4643, la definizione dei ricorsi proposti dal personale dipendente é devoluta all'Ufficio di Presidenza, correlativamente negando la giurisdizione di qualsiasi (altro) giudice, le Sezioni unite affermano anzitutto che l'esistenza dell'invocata norma, oltre che dalla citata disposizione e da quella parallela e pressoché coeva di cui all'art. 12 del regolamento della Camera dei deputati approvato il 18 febbraio 1971, é desumibile, per costante tradizione interpretativa ribadita dalle Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 1933 del 1963) e condivisa dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 66 del 1964), dalle corrispondenti disposizioni regolamentari anteriormente vigenti e, comunque, dal sistema delle leggi in tema di tutela giurisdizionale. Ed in quanto limitativa della portata generale di tali disposizioni, siccome escludente la giurisdizione del giudice comune (ordinario e amministrativo), detta norma suscita in ogni caso seri dubbi circa la sua compatibilità con taluni fondamentali precetti della Costituzione in materia di tutela giurisdizionale, sia che si ritenga che essa neghi qualsiasi giudice nell'ordinamento generale, affidando la risoluzione delle controversie del tipo di quella in questione allo stesso organo costituzionale nell'ambito dell'ordinamento particolare di propria competenza, sia che si opini, invece - come sembra preferibile - che essa istituisca nell'ordinamento generale un giudice speciale, con competenza in causa propria.

  1. - Sulla scorta di tali premesse, ritenuta evidente la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, essendo imprescindibile l'applicazione della norma denunciata in sede di regolamento di giurisdizione, le Sezioni unite danno diffuso conto delle ragioni per le quali ritengono la questione ammissibile, prima che non manifestamente infondata.

Si domandano, anzitutto, se i regolamenti parlamentari siano riconducibili o assimilabili agli atti "aventi forza di legge" che, ex art. 134 Cost., possono costituire oggetto del sindacato di legittimità costituzionale. E, sulla scorta dell'opinione in dottrina prevalente, ritengono di dover rispondere affermativamente, essendo ai regolamenti parlamentari riservata dalla Costituzione (artt. 64 e 72) la disciplina di date materie, talché essi "sono assimilabili alle leggi formali, con le quali versano, per la succennata riserva, in rapporto di distribuzione (costituzionale) di competenza normativa a pari livello". Né - si aggiunge in ordinanza - a tale conclusione può utilmente opporsi il dogma dell'insindacabilità degli interna corporis, ripudiato dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 9 del 1959, la quale anzi implicitamente riconosce, con l'escludere che i regolamenti parlamentari assurgano al livello di parametri di costituzionalità, che del sindacato di legittimità costituzionale possano formare oggetto. Tanto più laddove, come nella specie, essi regolino, in connessione con la disciplina dell'organizzazione interna, i rapporti fra Camere e terzi.

Ove poi, come sembra si debba, la norma venisse tratta, in conformità alla richiamata, costante tradizione interpretativa, dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale nel senso di una limitazione delle competenze generali del giudice comune e della attribuzione di una giurisdizione speciale all'organo costituzionale, evidentemente il problema neppure si porrebbe. Ed a tal proposito - si aggiunge ancora in ordinanza - é appena il caso di precisare che il richiamo alla costante tradizione interpretativa non equivale ad affermare che la norma trovi la propria fonte in una consuetudine costituzionale, che riguarda la ripartizione e il modo di esercizio di attribuzioni costituzionali e non già di mere "prerogative" o "guarentigie", secondo quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con la menzionata sentenza n. 66 del 1964. Inoltre, perlomeno per quanto riguarda il comportamento degli organi giurisdizionali, difetterebbe comunque il requisito dell'adeguamento all'esercizio dell'attribuzione dell'organo costituzionale da parte di altro organo costituzionale.

  1. - Quanto al giudizio sulla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene preliminarmente insostenibile la tesi, talora avanzata in relazione al tenore degli artt. 26 e 29 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, che l'autodichia sarebbe una conseguenza non già di una norma, positivamente esistente o desumibile dall'ordinamento, limitativa delle norme sulla tutela giurisdizionale, bensì di una lacuna, nel campo specifico, della normativa che quella tutela avrebbe dovuto in concreto garantire. E ciò in quanto, a parte la considerazione che in tema di diritti soggettivi deve riconoscersi la massima potenzialità applicativa ad ogni norma comunque attuativa della tutela giurisdizionale alla luce dei principi posti dagli artt. 24 e 113 Cost., la stessa Corte costituzionale, nel fare riferimento a prerogative degli organi costituzionali e, quindi, a positive garanzie di indipendenza dei medesimi nei confronti del potere giurisdizionale, ha evidentemente ritenuto che di positiva esclusione di tutela dovesse trattarsi.

Tanto affermato, delle due possibili tesi sul contenuto specifico della norma denunciata (esclusione di un giudice nell'ordinamento generale ovvero istituzione di un giudice speciale costituito dalla stessa Camera o da una sua articolazione), le Sezioni unite privilegiano la seconda, la quale "sembra suscettiva di offendere (soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101, comma secondo, e 108, comma secondo, Cost. sotto il profilo della indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità del giudice, e di nuovo e più direttamente, dall'art. 24 Cost. sotto il profilo della difesa e del contraddittorio"; laddove la prima (che nega qualsiasi giudice nell'ordinamento generale per le controversie in argomento) lederebbe anche più gravemente gli artt. 24 e 113 Cost (l'art. 24, comma primo, anche in relazione all'art. 3 Cost.) che assicurano a tutti la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, i quali ultimi, nel principio che risulta da entrambi i precetti costituzionali, devono intendersi con riferimento agli atti di esercizio di qualsiasi pubblico potere.

Dopo aver prospettato, sulla base della tesi privilegiata, il contrasto della norma anche con l'art. 102, comma secondo, Cost. per il tempo successivo all'entrata in vigore della Costituzione (ma la censura non viene poi proposta nella parte dispositiva dell'ordinanza) il giudice a quo nega che elementi idonei ad attenuare il sospetto delle prospettate censure di costituzionalità possano rinvenirsi nelle modalità con le quali l'autodichia viene in concreto esercitata, all'uopo richiamando il contenuto dell'art. 12 del regolamento del Senato e delle disposizioni contenute nel regolamento interno del personale approvato il 31 marzo 1948 e successive modificazioni. Ed afferma che l'indagine relativa può essere comunque condotta in relazione ad entrambi gli orientamenti sopra richiamati, tanto più se si consideri che "l'area degli artt. 101 e 108 rientra in quella degli artt. 24 e 113 Cost." e che "l'indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità é stata talvolta ritenuta requisito talmente essenziale da incidere sull'esistenza stessa del giudice (Corte cost., sentenza n. 110 del 1967)". Indagine che sarebbe semplicistico ricondurre alle ovvie considerazioni:

  1. a) che l'esclusione delle garanzie che rendono seria ed effettiva la tutela giurisdizionale in ragione della qualità del soggetto contro il quale certe pretese vengono fatte valere per atti al medesimo imputabili é esattamente quanto gli artt. 24 e 113 mirano ad evitare;
  2. b) che non ricorre il requisito della soggezione soltanto alla legge in capo al giudice che decide in causa propria;
  3. c) che il Senato decide appunto in causa propria quando giudica su controversie promosse dai propri dipendenti, cioé su controversie concernenti atti o rapporti propri. Né sembra che al Senato si attaglino le considerazioni svolte dalle stesse Sezioni unite con sentenza n. 2979 del 1975, allorché si affermò che il personale della Presidenza della Repubblica dipende esclusivamente dal Segretario generale; pur riconoscendosi, invero, che anche il Segretario generale del Senato riveste la posizione di capo del personale, va tuttavia considerato che, a norma dell'art. 19 del citato regolamento interno, al Senato le nomine vengono fatte con decreto del Presidente previa deliberazione del Consiglio di presidenza, altresì competente per le promozioni degli impiegati di un certo livello, mentre le altre vengono deliberate dal Consiglio direttivo dell'Amministrazione, presieduto dal Presidente del Senato o, per sua delega, da un Vice presidente.

Il punto essenziale - continua l'ordinanza - sta invece nell'accertare se la norma stessa non costituisca l'espressione o l'implicazione necessaria di un principio racchiuso nella Costituzione; nel qual caso ogni sospetto d’illegittimità costituzionale verrebbe evidentemente fugato. Prendendo le mosse dalla considerazione che comunemente la giustificazione dell'autodichia viene ravvisata nelle esigenze di indipendenza degli organi costituzionali, nella preminenza del Parlamento e nel principio della divisione dei poteri, si osserva che, a ben vedere, il problema si risolve in definitiva nello stabilire "se e in qual senso e misura il detto principio possa ritenersi accolto nella nostra Costituzione e se, come eventualmente accolto, esso ricomprenda o implichi necessariamente la norma della cui dubbia legittimità si tratta". Alla conclusione dubitativa sul primo punto e senz'altro negativa sul secondo le Sezioni unite pervengono in esito ad un'analisi storica dell'atteggiarsi del principio della divisione dei poteri dall'epoca post-assolutistica, al secolo scorso, ai tempi più recenti, nei quali la distinzione tra la serie di atti di esercizio del potere da parte di ciascun organo ha assunto rilevanza anche sotto l'aspetto formale, "collegandone strettamente forma procedimentale e trattamento giuridico ad ulteriore garanzia ed in correlazione con la sempre maggiormente avvertita esigenza di tutela giurisdizionale del cittadino".

Da tali notazioni - osservano le Sezioni unite - é agevole dedurre che già quando si addiviene ad una concezione del principio come distribuzione di competenze, costituirebbe una forzatura postulare l'indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria. Mentre addirittura in stridente contrasto con la finale evoluzione del principio della divisione dei poteri sarebbe ritenere "che debbano fruire del regime proprio della funzione primaria" (di ciascun organo) "gli atti che di questa non hanno neppure la forma procedimentale".

La rigorosa applicazione del principio, invero, condurrebbe a conseguenze cui non si pervenne neppure in epoca anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, non essendo mai stato esso inteso ed applicato nel senso dell'impenetrabilità o indifferenza assoluta tra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, stante la consapevolezza che "l'esigenza di assicurare la reciproca indipendenza é inscindibile da quella di consentire l'equilibrio e il contemperamento sia fra gli uni che fra le altre". Nell'attuale ordinamento costituzionale, poi, dove la prevalenza di tale ultima esigenza é resa palese oltre che dal concorso, in termini di cooperazione, di più organi costituzionali alla funzione di indirizzo politico, anche dal controllo, sia pure a livello costituzionale, sulle funzioni primarie di ciascun organo, non v'é ragione di ritenere giustificabile l'esclusione del sindacato giurisdizionale sull'esercizio delle funzioni accessorie. Tanto più se si consideri che la tutela giurisdizionale ha assunto il rango di un principio cardine non derogabile se non per ragioni puntualmente giustificate (Corte cost., sent. n. 44 del 1968), al punto che caratteri di garanzia giurisdizionale non possono disconoscersi allo stesso sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi, pur tenendo conto del livello costituzionale al quale esso opera.

La conclusione che le Sezioni unite ne traggono é che, quale che sia il senso e la misura in cui il principio della divisione dei poteri (ovvero quello dell'indipendenza degli organi costituzionali) può ritenersi accolto nell'attuale assetto costituzionale, in ogni caso "esso non sembra ricomprendere o implicare necessariamente l'esclusione del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Camere non riconducibili neppure formalmente alla loro funzione primaria". Meno ancora si giustifica l'autodichia sulle controversie concernenti i rapporti di impiego dei propri dipendenti, non sembrando affatto sostenibile che gli atti dell'organo costituzionale inerenti a tali rapporti siano riconducibili all'esercizio di un potere di autorganizzazione incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di essere dell'organo medesimo, come invece accade quando l'organo dispone in ordine alla propria struttura o ai propri uffici.

Né certamente possono trarsi argomenti in contrario dal giudizio spettante a ciascuna Camera sui titoli di ammissione e sulle cause sopraggiunte d’ineleggibilità e di incompatibilità dei propri componenti, e sul giudizio disciplinare nei confronti dei componenti medesimi. Oltre all'evidente diversità di posizione dei componenti rispetto ai dipendenti deve infatti osservarsi che, nel primo caso, l'autodichia é espressamente riconosciuta dall'art. 66 Cost. e che, nel secondo, il giudizio disciplinare - secondo quanto già affermato dalle Sez. un. con sentenza n. 255 del 1976 - riveste caratteri particolarissimi, costituendo momento di emersione della norma deontologica la cui osservanza é garantita dagli stessi appartenenti all'ordine o all'istituzione, mentre per il giudicabile rappresenta addirittura una garanzia l'essere sottoposto al giudizio dei propri pari. L'autodichia ha dunque, in tali casi, una sua autonoma giustificazione, che non può essere estesa a situazioni diverse.

Maggior pregio - continua l'ordinanza - non potrebbe riconoscersi neppure all'ulteriore argomento che al nostro diritto positivo non sono estranei altri casi di autodichia in capo ad organi, ai quali la Costituzione riconosce una particolare posizione di indipendenza, attese le affermazioni contenute nella citata sentenza n. 44 del 1968 circa la necessità che, in ogni singolo caso, ricorrano puntuali giustificazioni (quali, ad es. - si ipotizza in ordinanza - "la competenza giurisdizionale generale dell'organo per date materie o funzioni", ovvero "il concorso nell'organo di una particolare posizione costituzionale e di prevalenti funzioni giurisdizionali").

Da tutto quanto esposto - conclude l'ordinanza - sembra doversi ritenere che l'autodichia in questione non costituisce un attributo compreso nella posizione propria dell'organo costituzionale o a tale posizione immediatamente connessa, "ma solo un privilegio soggettivo, il cui riconoscimento, a meno che sia ancorato a ragioni di prestigio non rilevanti nell'attuale ambiente storico culturale", risponde nella migliore delle ipotesi all'esigenza di rafforzare indirettamente l'indipendenza dell'organo costituzionale nell'esercizio della sua funzione primaria liberandolo dai condizionamenti esterni che fossero in ipotesi ravvisabili nella possibilità del sindacato sui propri atti, anche se non inerenti alla detta funzione primaria. Ma solo alla Corte costituzionale spetterà di stabilire, ove dovesse ravvisare "nell'autodichia uno strumento di attuazione del valore costituzionale dell'indipendenza dell'organo", "se tale strumento sia illegittimo in quanto leda un altro valore costituzionale da ritenere in ogni caso preminente - quello della tutela giurisdizionale - ovvero in quanto, non essendo strettamente indispensabile alla tutela di uno dei due valori, induca, per eccesso a favore di questo, una rottura dell'equilibrio delle rispettive tutele".

  1. - Analoga questione di legittimità costituzionale le stesse Sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno sollevato riguardo alla corrispondente disposizione del regolamento della Camera dei deputati. Adite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione con ricorsi proposti nel corso di due procedimenti - rispettivamente promossi da Luciano Russi innanzi al Pretore di Roma e da Franco Muscariello innanzi al T.A.R. del Lazio - aventi ad oggetto l'impugnazione dei provvedimenti con i quali era stato posto fine al rapporto d'impiego intrattenuto con la Camera da due dipedenti, le Sezioni unite, con due identiche ordinanze emesse il 10 luglio 1980, hanno denunciato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, oltre che all'art. 108, comma primo, Cost., l'art. 12, n. 3, del regolamento della Camera dei deputati e comunque della norma attributiva alla stessa dell'autodichia sulle controversie di impiego dei propri dipendenti.

Premesso che i ricorrenti avevano in entrambi gli originari procedimenti sostenuto che il nostro sistema senz'altro ammette la tutela giurisidizionale innanzi al giudice comune dei dipendenti della Camera dei deputati, adombrando il contrasto con la Costituzione di ogni diversa interpretazione e addirittura sollevando questione di legittimità costituzionale della eventuale norma che l'autodichia attribuisse, le Sezioni unite richiamano la precedente ordinanza espressamente affermando che intendono riprenderne e ribadirne il contenuto "salvo a tener conto, in quanto necessario, degli apporti successivi della dottrina e ad estendere, nel senso che sarà appresso indicato, la questione di incostituzionalità".

Gli argomenti ulteriori o diversi addotti con le due ordinanze del 1980 possono così sintetizzarsi.

In ordine all'esistenza della norma attributiva dell'autodichia e dell'impossibilità di accedere ad un'interpretazione del sistema nel senso di ritenere la tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni senz'altro operante nei confronti dei dipendenti delle Camere, in ordinanza si osserva che, a parte l'inequivoco tenore dell'art. 12, n. 3, del regolamento della Camera approvato il 18 febbraio 1971 ("L'ufficio di presidenza... decide in via definitiva... etc."), é evidentemente improbabile l'interpretazione prospettata da una parte della dottrina, che ha ritenuto di poter attribuire all'espressione il senso del riferimento ad una decisione amministrativa sottoposta a ricorso giurisdizionale (attesa anche la quasi coeva soppressione, ad opera della legge n. 1034 del 1971, della definitività dell'atto amministrativo come requisito per la sperimentabilità del rimedio giurisdizionale); ovvero quello dell'esplicito "abbandono" del principio dell'autodichia mediante l'adozione di un'espressione diversa da quella contenuta nell'art. 148 del regolamento precedentemente in vigore (all'Ufficio di Presidenza "esclusivamente appartiene il giudizio sugli eventuali ricorsi"), data anche l'assoluta carenza di riscontri in tal senso nei regolamenti interni della Camera.

In ordine all'ammissibilità il giudice a quo preliminarmente osserva che la soluzione del problema della sindacabilità da parte della Corte costituzionale dei regolamenti parlamentari - problema che ha formato oggetto di dibattito in dottrina dopo la prima ordinanza - sebbene assolutamente pregiudiziale, non é tuttavia decisivo, giacché la norma attributiva alle Camere dell'autodichia in materia di controversie dei propri dipendenti "é desumibile (anche) dal sistema delle disposizioni in tema di tutela giurisdizionale", anch'essa denunciata. In ogni caso - continua l'ordinanza - benché spetti ovviamente alla Corte costituzionale la decisione sull'ambito oggettivo del proprio sindacato, sembra che la risposta debba essere affermativa.

Invero, alla tesi secondo la quale, ai fini di cui all'art. 134 Cost., la forza di legge andrebbe riconosciuta non già a tutti gli atti assistiti dal requisito della primarietà, ma soltanto a quelli "ammessi ad operare nello stesso spazio in cui é ammessa ad operare la legge e con la medesima efficacia" (id est, oltre ai decreti legge e ai decreti legislativi di cui agli artt. 78 e 79 Cost., a quelli previsti dalle regioni ad autonomia speciale per l'emanazione delle relative norme di attuazione, ai quali la Costituzione avrebbe inteso dare un giudice che prima non avevano) con esclusione degli atti soggetti al sindacato del giudice comune (quali i referendum ed i contratti collettivi di cui all'art. 39 Cost.) e di quelli non soggetti ad alcun sindacato giurisdizionale (salvo quello indiretto sui singoli atti applicativi) in quanto espressione di autonomia costituzionale, quali sarebbero appunto i regolamenti parlamentari, può contrapporsi la tesi che fa capo ad una diversa nozione di "forza di legge". Quella, cioé, secondo la quale, ormai, la forza formale della legge non risiede nella sua efficacia sostanziale (innovatività e resistenza all'abrogazione), non più omogenea neppure nell'ambito della stessa legge in relazione all'esistenza di "leggi atipiche" e di "leggi rinforzate", bensì nella "primarietà "; pertanto può parlarsi di "atti aventi forza di legge" per tutti gli atti normativi operanti a livello primario - inclusi dunque i regolamenti parlamentari - "intendendosi l'alternatività rispetto alla legge non già nel senso della loro attitudine a sostituire la legge formale nell'ambito di questa, bensì a sostituire (o meglio a giustapporre) un ambito proprio a quello residuale della legge formale".

Quale che sia il giudizio su tale teoria, non può comunque disconoscersi la qualificante e soverchiante incidenza che nell'ordinamento costituzionale delle fonti normative, caratterizzato da una pluralità di fonti pariordinate, spiega il criterio della competenza, ad assicurare il rispetto del quale, inteso come criterio ordinatore della produzione normativa primaria é (anche) preordinato il sindacato sulla legittimità costituzionale. E ciò sembra sufficiente per ritenere soggetto a tale sindacato il regolamento parlamentare, che ha un ambito normativo primario e riservato ex artt. 64 e 72 Cost., tanto più che é perfettamente configurabile sia una riserva a favore del regolamento sia una riserva a favore della legge, la violazione delle quali ad opera di ciascuna delle altre fonti indubbiamente comporta la (sindacabile) violazione di precetti costituzionali e, di riflesso, della complessiva regolamentazione costituzionale nella quale il precetto si inquadra.

Né può validamente opporsi che il regolamento é espressione di autonomia costituzionale, giacché ciò non toglie che si tratta di autonomia normativa che opera come fonte di produzione primaria costituzionalmente garantita, onde l'argomento varrebbe solo a riconoscere la sindacabilità delle violazioni di tale garanzia, non già per escludere quella che col regolamento si perpetri in danno di altre garanzie poste dalla Costituzione a favore di diverse fonti di produzione normativa primaria come, nella specie, la legge. Neppure potrebbe sostenersi - concludono sul punto le Sezioni unite - che l'assenza di sindacabilità costituzionale sarebbe, per il regolamento parlamentare, bilanciata dall'assoggettamento dello stesso al sindacato indiretto e incidentale (vale a dire sugli atti di osservanza) da parte del giudice ordinario. Invero, a prescindere dalle riserve sull'efficienza di siffatto sindacato, comunque limitato all'accertamento dei requisiti di esistenza, "non si vede perché (se non per le asserite ragioni riferibili all'intento dei conditores e come tali non decisive) si dovrebbe ritenere sottratto al sindacato dell'interprete più qualificato e sensibile dell'ordine costituzionale l'atto normativo primario in argomento e d'altra parte assoggettata a sindacato diretto, con effetto definitivamente caducatorio, soltanto la legge ed i procedimenti strettamente alternativi ad essa".

In ordine alla non manifesta infondatezza, ribadite le conclusioni cui erano precedentemente pervenute, le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione si preoccupano di esporre e contrastare le obiezioni a quelle conclusioni "autorevolmente opposte" dalla dottrina.

Da ultimo, si domandano se la denuncia d’incostituzionalità debba operarsi anche in riferimento agli artt. 3, 24, 25, comma primo, 64 e 108, comma primo, della Costituzione. E rispondono affermativamente solo in ordine all'ultimo parametro, osservando che l'invasione da parte del regolamento di un campo oggetto di specifica riserva a favore della legge posta da quel precetto costituzionale, integra una violazione diretta oltre che del disposto dell'art. 108, comma primo, Cost. anche, pur se solo di riflesso, della regolamentazione complessiva del riparto della competenza normativa.

  1. - Ad eccezione di Enzo Micone, che ha tardivamente depositato il proprio atto di costituzione, in ogni giudizio si sono costituite entrambe le parti ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri tramite l'Avvocatura generale dello Stato. In particolare, nel giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze, l'Avvocatura dello Stato esclude anzitutto che i regolamenti parlamentari possano costituire oggetto di sindacato di legittimità costituzionale da parte della Corte, negandone il carattere di atti aventi forza di legge. Fatto cenno all'argomento letterale consistente nel rilievo che la formulazione dell'art. 134 Cost. ("leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato") é simile a quella degli artt. 75 e 87 Cost., ed é tuttavia certo che i regolamenti parlamentari non sono soggetti ad abrogazione per referendum ne sono promulgati dal Presidente della Repubblica, nonché a quello - pur riconosciuto formalistico - che non possono ricomprendersi tra gli "atti aventi forza di legge dello Stato" perché sono atti di un organo e non dello Stato, l'Avvocatura sostiene che una riprova dell'assenza nei regolamenti parlamentari della forza di legge - intesa come attitudine ad abrogare una legge e come resistenza all'abrogazione se non ad opera di una altra legge - può storicamente trarsi dalle vicende dell'art. 18 del reg. generale della Corte costituzionale, la cui natura giuridica é sicuramente analoga a quella dei regolamenti parlamentari. La norma - si osserva - prevedeva l'istituto della prorogatio per i Giudici costituzionali quando fu emanata la legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, che all'art. 1 dettò una norma incompatibile, la quale dispose che alla scadenza del termine il Giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. E dalla circostanza che la Corte costituzionale, con deliberazione del 7 luglio 1969, espressamente dispose la soppressione di detto art. 18 del reg. generale, si trae la conclusione che non si ritenne che dalla sopravvenuta norma costituzionale potesse conseguire effetto abrogativo della norma regolamentare (in virtù della sua natura). Si nega, poi, che dalla sentenza n. 9 del 1959 della Corte costituzionale possano trarsi le univoche conclusioni cui erano pervenute le Sezioni unite, osservandosi come, invece, dall'affermazione contenuta in quella sentenza che sull'interpretazione della norma regolamentare "é da ritenersi decisivo l'apprezzamento della Camera" era stato da taluno tratto il convincimento che la Corte si sarebbe implicitamente pronunziata nel senso dell'insindacabilità dei regolamenti parlamentari.

Vero é - continua l'Avvocatura - che la Corte costituzionale non si é mai espressamente pronunciata sul punto, essendo stata, in altra occasione nella quale era stata impugnata una norma di regolamento parlamentare, la questione dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza (sentenza n. 148 del 1975). Tuttavia, da altre pronunce possono trarsi argomenti per escludere la sindacabilità dei regolamenti: così dalla sentenza n. 66 del 1964, che affermò la competenza degli organi giurisdizionali dello Stato in materia di impiego dei dipendenti dell'Assemblea regionale siciliana per la ragione che ad essa non può attribuirsi la stessa posizione costituzionale delle Camere, osservando altresì che al potere regolamentare conferito all'Assemblea medesima dall'art. 4 dello Statuto siciliano non può assegnarsi la stessa sfera di effetti attribuita al potere regolamentare delle Camere ex art. 64 Cost.; dalla sentenza n. 14 del 1965, che esclude che un regolamento di Consiglio regionale avesse forza di legge; dalla sentenza n. 91 del 1968, con la quale si precisò che "condizione dell'azione diretta a promuovere il giudizio costituzionale é che oggetto della denuncia sia una legge ovvero un decreto legislativo o un decreto legge"; dalle sentenze n. 183 del 1973 e n. 232 del 1975, con le quali la Corte, negando la sindacabilità dei regolamenti comunitari, osservò che "l'art. 134 Cost. riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni" e che "tali non sono i regolamenti comunitari". Da tale analisi risulterebbe la insufficienza del solo elemento oggettivo e sostanziale per ritenere ammissibile il sindacato di costituzionalità: non basta - si afferma - che l'atto sia assimilabile come fonte di diritto oggettivo, alla legge formale; deve sussistere anche il requisito soggettivo e formale, deve cioé trattarsi di un atto dello Stato o della Regione, e tale non é l'atto della Comunità o di un singolo ramo del Parlamento.

In ogni caso - continua l'Avvocatura - se in ipotesi ammissibile, la questione sarebbe infondata, essendo l'autodichia giustificabile in funzione dell'esigenza di assicurare la autonomia e l'indipendenza degli organi (Senato, Camera, Corte costituzionale, Corte dei Conti e Consiglio di Stato) e degli ordini professionali (ai cui consigli nazionali ed alle cui decisioni sarebbe ormai pacificamente riconosciuta natura giurisdizionale) cui é attribuita. Autonomia ed indipendenza "che, per quanto riguarda Corte dei Conti e Consiglio di Stato, sono costituzionalmente garantite dall'art. 100 Cost." e che, per "il Parlamento e la Corte costituzionale, assumono il carattere della sovranità, della quale é peculiare manifestazione il potere regolamentare attribuito alle Camere dall'art. 64 Cost. ed alla Corte dagli artt. 137 Cost. e 14, legge n. 87 del 1953". Del resto, la stessa ragione giustificatrice sarebbe stata indicata dalla Corte con la citata sentenza n. 66 del 1964 e con la successiva sentenza n. 110 del 1970, con la quale si precisò che le attribuzioni di autonomia delle Camere si svolgono a livello di sovranità. L'Avvocatura contesta, inoltre, che la preoccupazione di evitare che una sentenza sfavorevole possa nuocere al prestigio dell'organo sia irrilevante, in proposito osservando che con sentenza n. 15 del 1969 la Corte costituzionale affermò che la propria posizione di assoluta indipendenza deve essere assicurata "anche nelle forme esteriori". Nega, infine, che gli atti che riguardano le situazioni dei dipendenti - al contrario di quelli incidenti sulla posizione dei componenti - siano estranei al potere di organizzazione, il quale si estende invece a tutto quanto attiene alla preparazione dell'attività ed all'esercizio delle funzioni dell'organo e, quindi, anche alla scelta ed alla predisposizione degli strumenti necessari. D'altro canto basta pensare ai poteri cautelari e di annullamento del giudice amministrativo e a quelli cautelari e di reintegrazione del giudice ordinario (artt. 700 c.p.c. e 28 dello Statuto dei lavoratori) per comprendere come le pronunce di un giudice esterno potrebbero, se non paralizzare, turbare profondamente la funzionalità dell'organo parlamentare.

  1. - Negli atti di costituzione e d’intervento depositati negli altri due giudizi, l'Avvocatura ribadisce le proprie conclusioni in ordine all'inammissibilità e, in subordine, alla infondatezza delle sollevate questioni, sviluppando le argomentazioni già svolte e adducendone di nuove. Premesso che la sovranità costituisce attributo che le Camere ripetono dalla Costituzione e che la riserva costituzionale in favore della fonte regolamentare mira ad escludere i controlli cui soggiace la legge (tra i quali quelli del Presidente della Repubblica e del referendum abrogativo) in funzione dell'assoluta indipendenza dell'organo parlamentare nel momento della strutturazione del proprio ordinamento, l'Avvocatura osserva che, evidentemente, il limite all'estensione di poteri diversi va rinvenuto in regole o principi di rango costituzionale (una volta che si escluda che esso direttamente discenda dalla norma regolamentare). Ma, in tale ottica, la norma attributiva dell'autodichia che il giudice a quo - al di là dell'esplicita previsione della disposizione del regolamento - indica come evincibile dal sistema delle norme in materia di tutela giurisdizionale, in quanto di livello costituzionale, renderebbe ogni questione superata in radice.

Inoltre - continua l'Avvocatura - la Corte costituzionale, dopo aver fatto riferimento all'"assoluta indipendenza" dell'organo parlamentare (sentenza n. 143 del 1968), ha in particolare precisato che detta autonomia se si esprime anzitutto sul piano normativo non si esaurisce tuttavia nella normazione, ma "comprende il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta attuazione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza" (sentenza n. 129 del 1981). Insomma, "situazioni e rapporti che nell'ambito del sistema proprio dell'organo costituzionale trovano configurazione, presupposti di esistenza e rilievo (non riferibili all'ordine legislativo operante, per analoghe materie, in altro ambito), nello stesso sistema debbono trovare il loro modo e momento di definizione, ché, altrimenti, l'autonomia dell'organo ne risulterebbe dimezzata".

D'altro canto, così come la Camera gestisce il proprio bilancio in piena indipendenza da altri organi statali (sentenza n. 129 del 1981) ed in modo autonomo fissa la struttura e l'organizzazione dei propri uffici (in tal modo sottraendosi all'ambito precettivo dell'art. 97 Cost., che pone una riserva di legge), in modo altrettanto autonomo regola, in tutti gli aspetti sostanziali e procedimentali, il rapporto d'impiego con i dipendenti, senza che ciò costituisca invasione del diverso e separato campo riservato alla legge dall'art. 108 Cost. (che ha riguardo al sistema magistratuale dell'ordinamento generale e non all'esplicazione dell'autonomia dell'organo costituzionale).

Né viene in discussione l'art. 113 Cost., che riguarda solo gli atti della pubblica amministrazione, e rispetto al quale comunque possono svolgersi le stesse considerazioni che si attagliano all'art. 97 Cost., che pone una riserva di legge concernente specificamente gli uffici della "pubblica amministrazione (cfr. sez. II del titolo III, Cost)".

Si nega, altresì, ogni violazione dell'art. 24 Cost., affermandosi, da un canto, che nell'ambito dell'ordinamento interno delle Camere i dipendenti possono esperire un'istanza di giustizia libera da condizionamenti di sorta e, dall'altro, che la Corte costituzionale, con la menzionata sentenza n. 110 del 1970, ha ammesso deroghe alla giurisdizione "nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato e perciò situati ai vertici dell'ordinamento in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca parità ". Si osserva, in particolare, che l'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, cui viene devoluta la definizione delle controversie in questione, é organo di vertice di creazione non regolamentare ma costituzionale (art. 63 Cost.), estraneo a funzioni di amministrazione del personale dipendente e composto da deputati al parlamento, la cui posizione istituzionale esclude la configurabilità di un interesse diretto, giuridicamente rilevante, da parte dei medesimi.

In conclusione, l'autodichia costituirebbe uno strumento di attuazione dell'indipendenza di un organo superiorem non recognoscens, le cui attribuzioni si svolgono a livello di sovranità, e troverebbe la sua puntuale giustificazione nell'esigenza sostanziale di salvaguardare l'autonomia delle Camere anche nel momento dell'organizzazione e della gestione dell'apparato necessario allo svolgimento della loro funzione primaria.

  1. - A conclusioni opposte perviene, nelle deduzioni di costituzione, la difesa di Luciano Russi, che pone preliminarmente in rilievo come entrambe le concezioni che si sono contrapposte alla prevalente opinione affermativa circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari da parte della Corte costituzionale appaiono insoddisfacenti: la prima - secondo la quale i regolamenti parlamentari, pur essendo fonti di carattere primario, non avrebbero tuttavia forza di legge e sarebbero espressione della particolare posizione che il nostro ordinamento riconosce alle Assemblee Parlamentari - in quanto finisce con l'escludere il sindacato della Corte su una eccessivamente ampia categoria di atti normativi primari sol perché operano in un campo di competenza riservata; la seconda - che ritiene il regolamento parlamentare atto fonte bensì differenziato dal punto di vista formale, ma sostanzialmente subordinato alla legge e privo della forza formale di legge - poiché, dopo talune esatte premesse, del tutto immotivatamente esclude che i regolamenti si pongano in posizione primaria allorché sia esplicitamente prevista una riserva di competenza a loro favore. Invero, se si afferma che esiste un'area nella quale é stabilita una competenza normativa riservata del regolamento, non può poi disconoscersene, per lo meno in tale ambito, il carattere primario e, quindi, la sindacabilità da parte della Corte costituzionale. Se dal sindacato della Corte dovessero escludersi gli atti normativi a competenza costituzionalmente riservata dovrebbe infatti ridiscutersi tutta la giurisprudenza - ormai pacificamente accettata - che lo riconosce in ordine ai decreti di attuazione degli Statuti speciali, ai decreti di amnistia e di indulto, alle norme di esecuzione dei Patti lateranensi, agli statuti regionali ordinari, alle leggi "rinforzate" di cui agli artt. 132 e 133 Cost..

La verità, continua la difesa del Russi, é che la giustapposizione tra primarietà e forza di legge va ricollegata al problema specifico per la cui risoluzione era stata avanzata: quello dei regolamenti delegati, dei quali si afferma la primarietà, ma non la forza di legge. Ma si tratta di problema affatto diverso, giacché la primarietà di tali regolamenti sussiste fin quando nelle materie da essi disciplinate non intervenga la legge, laddove la primarietà dei regolamenti parlamentari vale specificamente nei confronti della legge e trova nella Costituzione la propria fonte legittimante: in particolare, oltre che nell'art. 72, nell'art. 64 Cost..

Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente - ad avviso della difesa del Russi - a respingere la tesi che vede nel regolamento parlamentare una fonte subordinata alla legge, anche se la negazione della riserva di competenza a favore del regolamento parlamentare (per quanto concerne l'area di cui all'art. 64 Cost., essendo l'art. 72 Cost. esplicito in proposito) potrebbe non essere sufficiente per affermarne la natura secondaria. L'art. 64 Cost. potrebbe essere infatti interpretato "come norma attributiva di una competenza primaria alle singole Camere, non riservata, ma concorrente con la legge per ciò che attiene alla loro organizzazione interna, laddove il successivo art. 72 riserverebbe al regolamento parlamentare la disciplina di determinate materie anche nei confronti della legge ordinaria". Anche per tale via, dunque, si giungerebbe a qualificare i regolamenti parlamentari come dotati di forza di legge ed a ritenerli conseguentemente soggetti al sindacato di costituzionalità della Corte, anche in funzione dell'esigenza propria del nostro sistema costituzionale di non sottrarre al controllo giurisdizionale neppure le supreme manifestazioni del potere statuale.

Nel merito, si prospetta un triplice ordine di argomentazioni a sostegno della possibilità che l'art. 12 del regolamento Camera venga interpretato dalla Corte - che potrebbe conseguentemente adottare una pronuncia interpretativa di rigetto - secundum constitutionem nel senso che esso prevede un rimedio amministrativo interno, di per sé non esclusivo degli ordinari rimedi giurisdizionali. Lo consentirebbero: a) il dato letterale della disposizione che, rimettendo all'Ufficio di Presidenza la decisione in via definitiva dei ricorsi dei dipendenti, adotta un'espressione che non può non essere posta in relazione col fatto che, sino al dicembre del 1971, la definitività costituiva presupposto necessario per l'impugnativa innanzi all'Autorità giurisdizionale dei provvedimenti dell'Amministrazione; b) gli stessi lavori preparatori della legge n. 1034 del 1971, dai quali non emerge con chiarezza la volontà di sopprimere la regola della definitività, tanto che parte della dottrina sostenne che la soppressione riguardava soltanto gli atti specificamente indicati dall'art. 20; c) la non esistenza - a parte la tradizione cui si riferisce l'ordinanza di rinvio - di elementi testuali da cui dedurre l'esclusione della tutela giurisdizionale ordinaria per i dipendenti degli organi parlamentari.

Sulla scorta di tali considerazioni la difesa del Russi conclude, in via principale, per la declaratoria di infondatezza della questione in quanto il ricorso previsto dall'art. 12 reg. Camera va configurato come rimedio amministrativo contro il quale é ammessa la comune tutela giurisdizionale e, in via subordinata, per la declaratoria dell'illegittimità costituzionale della norma denunciata.

  1. - Il Senato della Repubblica ha depositato due pareri pro veritate di altrettanti studiosi del diritto costituzionale nei quali si sostiene l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con l'ordinanza del 31 marzo 1977.
  2. - Franco Muscariello non ha presentato deduzioni.

Nel giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze delle Sezioni unite ha ritenuto di intervenire, pur non essendo parte nel giudizio a quo, Autilia Santaniello, dipendente della Camera dei deputati.

  1. - Alla pubblica udienza del 15 gennaio 1985 le parti hanno ribadito le tesi già svolte insistendo per l'accoglimento delle rispettive conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

  1. - La questione sottoposta al vaglio di questa Corte nasce da tre ordinanze, emesse dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione - l'una il 31 marzo 1977 (r.o. n. 408/1977), le altre due il 10 luglio 1980 (r.o. nn. 315 e 316/1981) - nel corso di giudizi per regolamento preventivo di giurisdizione, che erano stati promossi, il primo davanti al Tribunale di Roma, sezione lavoro, il secondo davanti al Pretore di Roma quale giudice del lavoro, il terzo davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Con tali ordinanze, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno denunciato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12.1 del regolamento del Senato della Repubblica, dell'art. 12.3 del regolamento della Camera dei Deputati "e comunque della norma attributiva dell'autodichia" ad entrambi i predetti organi parlamentari, per contrasto con gli artt. 24, 113, 101, secondo comma, e 108, primo e secondo comma, Cost.. Risultando identiche le norme impugnate, identici i parametri costituzionali invocati, e pertanto identica la questione sollevata, le tre cause vanno riunite e decise con unica pronuncia.
  2. - Tanto il Senato della Repubblica, quanto la Camera dei Deputati, si erano costituiti in giudizio, eccependo il difetto di giurisdizione dei giudici aditi. A tale eccezione conseguivano i ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, sia di alcuni interessati, sia delle Camere. E le Sezioni unite, ritenuto di dover dubitare della legittimità costituzionale delle norme più sopra indicate, in quanto non assicurerebbero ai dipendenti di entrambi i rami del Parlamento la tutela dei loro diritti e interessi legittimi "dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa", come prescritto in linea generale nell'art. 113 Cost., hanno sollevato d'ufficio la questione in esame, rimettendo gli atti a questa Corte, dinanzi alla quale si sono costituiti, per Camera e Senato l'Avvocatura dello Stato, tramite la quale ha compiuto atto d'intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, l'avvocato Franco Gaetano Scoca, e (ma tardivamente) l'avvocato Stefano Riccio. Tutte le parti che si erano tempestivamente costituite hanno depositato memorie ed alla pubblica udienza l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti e gli avvocati Franco Gaetano Scoca e Federico Sorrentino hanno ulteriormente ribadito e più ampiamente illustrato le deduzioni già esposte negli scritti.
  3. - La motivazione su cui viene poggiata la denunciata illegittimità costituzionale richiede, stante la sua complessità, che ne venga ripercorso l'iter argomentativo, e nella sua interezza, sia pure summatim, e nello stesso ordine espositivo seguito dalle ordinanze.

3.1. - Esse esordiscono con le affermazioni: che "la norma invocata" dalla difesa delle Camere - quella, cioé, attributiva dell'autodichia a queste - "in realtà, esiste"; che essa é desumibile, già dai regolamenti parlamentari in vigore (art. 12), ma anche dalle disposizioni regolamentari previgenti; che "é comunque desunta, per costante tradizione interpretativa... dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale come limitazione posta alla portata generale di tali disposizioni - nel senso dell'esclusione di qualsiasi giudice o dell'introduzione di un giudice speciale - a garanzia delle Camere in riferimento alla posizione di queste". Premesso, poi, che "dall'applicazione della norma non può prescindersi ai fini del regolamento di giurisdizione... il cui oggetto é stabilire se vi sia un giudice e, quale esso sia" e che dei due orientamenti interpretativi "é da preferire"quello che "accorda un giudice, anche se questo non sembra avere i requisiti voluti dalla Costituzione", si legge nelle ordinanze che "la norma fa nascere dubbi circa la sua compatibilità con fondamentali precetti della Costituzione relativi alla tutela giurisdizionale". Viene successivamente affrontato il problema "se una norma quale quella suindicata... sia riconducibile e assimilabile agli atti aventi forza di legge, cui si riferisce l'art. 134 Cost."; ed il problema é risolto affermativamente per una triplice considerazione: in tal senso sarebbe la dottrina prevalente; l'assimilabilità sarebbe ancor più evidente per la parte in cui "i regolamenti parlamentari... regolino rapporti fra Camere e terzi"; nessun dubbio sussisterebbe sulla loro sindacabilità, "se la norma più correttamente, ed in conformità con la costante tradizione interpretativa richiamata all'inizio sia tratta dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale nel senso... della attribuzione di una giurisdizione speciale dell'organo costituzionale". Ed al riguardo si precisa che l'insistito "richiamo alla costante tradizione interpretativa non importa ritenere che la norma trovi la sua fonte in una consuetudine costituzionale", di cui difetterebbero i requisiti.

3.2. - Alla luce poi degli artt. 24 e 113 Cost. - argomentano ulteriormente le ordinanze - non sarebbe sostenibile che "non di limitatezza delle cennate norme si tratti, bensì di una mera lacuna della normazione attuativa di esse, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale non sarebbe positivamente esclusa, ma solo, allo stato, in concreto non realizzabile per mancanza di adeguata strumentazione". "Va altresì ribadito" - prosegue il giudice a quo - "che delle due interpretazioni dianzi indicate come sostenibili, é preferibile la seconda" (quella che accorda un giudice) alla prima (che nega ogni giudice), giacché questa "sembra suscettiva di offendere anche più gravemente gli artt. 24 e 113 Cost.", mentre quella "sembra suscettiva di offendere (soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di tutela" sotto i profili dell'indipendenza-terzietà, dell'indipendenza-imparzialità" e della difesa e del contraddittorio", soggiungendosi che il "modo in cui l'autodichia viene attualmente in concreto strumentata ed esercitata" - cioé, mediante il Consiglio di Presidenza, che esercita anche la potestà regolamentare ed amministrativa - non vale ad "attenuare" le sospette lesioni. E non potendosi l'indagine esaurire - così ancora il giudice a quo - nelle ovvie considerazioni: "che l'esclusione della tutela giurisdizionale... é proprio quanto gli artt. 24 e 113 sono diretti ad evitare"; che "non é soggetto soltanto alla legge il giudice che decide in causa propria"; "che il Senato decide in causa propria", allora "il punto essenziale é se la norma in argomento non trovi una giustificazione... nell'indipendenza degli organi costituzionali", cioé nel "principio così detto della divisione dei poteri", ovvero se gli atti di autodichia siano "riconducibili all'esercizio di un potere di autoorganizzazione incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di essere dell'organo costituzionale". Ad entrambi i quesiti viene data risposta negativa. Ammesso pure - si dice nelle ordinanze che il principio della divisione dei poteri sia accolto nella nostra Costituzione, "rappresenta una forzatura postulare l'assoluta indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria". "Nell'attuale ordinamento costituzionale" si sarebbe imposta l'esigenza "di reciproco controllo proprio per quel che concerne le funzioni primarie" - come appunto nella funzione di indirizzo politico -, sicché "non vi é ragione di ritenere che l'assetto medesimo importi l'esclusione del sindacato giurisdizionale sull'esercizio delle funzioni accessorie", tanto più che, maggiormente che per il passato, "la tutela giurisdizionale (é) considerata ormai quale principio cardine", le cui eccezioni "vanno puntualmente giustificate". E deve da ultimo "negarsi che qui venga in considerazione un potere di autoorganizzazione", essendo certo che un'istituzione "non esercita tale potere quando dispone delle situazioni dei propri dipendenti, cioé di soggetti il cui destino non può toccare direttamente il modo di essere intrinseco dell'istituzione medesima".

3.3. - Ne consegue - concludono le ordinanze - che, poiché "l'autodichia in argomento non costituisce un attributo compreso nella posizione propria dell'organo costituzionale o da tale posizione immediatamente e necessariamente implicata, ma solo un privilegio soggettivo", non é manifestamente infondata la questione della sua legittimità costituzionale.

  1. - La particolare elaboratezza della prospettazione testé riassunta consiglia di fissare preliminarmente quei punti che sembrano maggiormente giovare all'essenzialità e chiarezza del successivo discorso.

4.1. - Per espresso dettato dell'art. 12.1 del vigente regolamento del Senato della Repubblica, "il consiglio di presidenza, presieduto dal Presidente del Senato... adotta i provvedimenti relativi al personale... nei casi... previsti" dai regolamenti interni; analogamente, per espresso dettato dell'art. 12.3 del vigente regolamento della Camera dei Deputati, "l'ufficio di presidenza... decide in via definitiva i ricorsi che attengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti della Camera".

Le sopra trascritte disposizioni hanno dato motivo a contrasti interpretativi, peraltro non del tutto privi di fondamento - specie con riguardo alla formulazione del regolamento del Senato, troppo scarna, e perciò scarsamente significante nella sua genericità -, opinandosi addirittura - con riguardo, questa volta, al regolamento della Camera - che la formulazione di questo sul punto, in quanto mutata rispetto al regolamento anteriore, avrebbe comportato la caducazione del principio dell'autodichia, nel senso conseguentemente che ormai i ricorsi dei dipendenti dovrebbero ritenersi definiti con decisione amministrativa impugnabile in sede giurisdizionale. Senonché, con le ordinanze in esame, le Sezioni unite della Cassazione, dopo avere dichiarato esplicitamente, come già detto, che, "ai fini del regolamento di giurisdizione.. oggetto é stabilire se vi sia un giudice e quale esso sia", ed implicitamente che la formulazione del regolamento del Senato vale quella del regolamento della Camera, osservano che la norma attributiva dell'autodichia - e perciò le due disposizioni regolamentari in parola - può ritenersi che "esclude la giurisdizione del giudice comune", sia "in quanto nega qualsiasi giudice nell'ordinamento generale ed affida la risoluzione delle controversie ad una decisione adottata dall'organo costituzionale... e destinato ad operare unicamente all'interno dell'ordinamento particolare", sia "in quanto istituisce nell'ordinamento generale un giudice speciale - l'organo costituzionale appunto, in una sua articolazione - con competenza in causa propria". E poiché nelle ordinanze si afferma apertamente che "é da preferire,", e si riafferma che "é preferibile", per le considerazioni riportate nel paragrafo 3.2., l'orientamento interpretativo, secondo cui le controversie in tema di rapporto d'impiego dei dipendenti delle Camere sono decise da queste, sembra non dubitabile che, così esprimendosi, il giudice a quo ha inteso riconoscere in sostanza nei due menzionati articoli i portatori del principio dell'autodichia e, quindi, l'esistenza nel nostro ordinamento dell'autodichia, sia della Camera dei Deputati, sia del Senato della Repubblica.

4.2. - In tutte le tre ordinanze vengono impugnati, specificamente gli artt. 12, in parte de qua, dei regolamenti parlamentari in vigore, e genericamente "la norma attributiva dell'autodichia" ad entrambe le Camere. Stante la duplicità della denuncia, si rende necessario comprendere in quale rapporto l'una impugnativa si pone nei confronti dell'altra.

Sembra doversi escludere che il giudice a quo abbia inteso riferirsi ad un unico dato normativo, giacché allora gli articoli dei regolamenti sarebbero meramente ricognitivi ed esplicativi di quella norma inespressa, da cui in effetti avrebbe tratto origine in passato e su cui troverebbe ancor oggi fondamento la giurisdizione domestica delle Camere; ciò equivarrebbe a ravvisare l'unica e vera fonte e l'unico e vero sostegno dell'autodichia nella norma inespressa, che le disposizioni dei due articoli si sarebbero limitate a recepire. L'ipotesi é inaccoglibile: basterebbe in proposito considerare anche solo che nelle ordinanze il quesito assolutamente pregiudiziale é quello relativo alla sindacabilità, da parte di questa Corte, dei regolamenti parlamentari, e che tale quesito risulterebbe proposto inutiliter - anzi, non avrebbe addirittura senso -, ove le Sezioni unite ritenessero che il rapporto fra le norme espresse e la norma inespressa sia quello testé ipotizzato. Ma se, viceversa, si pone mente che in ognuna delle tre ordinanze risultano impugnati principaliter i più volte menzionati artt. 12 dei regolamenti parlamentari, e solo successivamente "la norma attributiva dell'autodichia", appare verosimile la congettura che l'impugnativa della norma inespressa sia stata proposta in via meramente subordinata e prudenziale.

Se la ricostruzione del pensiero del giudice a quo sul punto é esatta, ne deriva che, a parte la questione della proponibilità della denuncia di una norma inespressa, sarebbe ultroneo ogni discorso intorno a quest'ultima, in quanto ai fini del decidere é necessario e sufficiente fare oggetto del presente giudizio solo gli artt. 12.1 del regolamento del Senato e 12.3 del regolamento della Camera.

4.3. - É appena il caso di avvertire che i regolamenti di che trattasi sono esclusivamente quelli previsti dall'art. 64, primo comma, Cost., cioé quelli adottati direttamente dall'assemblea di ognuna delle due Camere "a maggioranza assoluta dei suoi componenti". Se, infatti, si dubita che qualsiasi giudice - sia pure il giudice delle leggi - abbia il potere di sindacare i suddescritti regolamenti, non si dubita, viceversa, che a sensi dell'art. 134 Cost. é precluso a questa Corte di prendere in esame atti normativi di una singola Camera diversi da quelli di cui sopra. E nella specie i regolamenti oggetto di questo giudizio sono precisamente quelli adottati dal Senato della Repubblica il 17 febbraio 1971 e dalla Camera dei Deputati il giorno successivo ed entrambi pubblicati nella "Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana".

4.4. - Il giudice a quo si chiede: a) "se la norma in argomento non trovi una giustificazione... nell'indipendenza degli organi costituzionali", cioé nel principio così detto della divisione dei poteri, ovvero nel principio che riconosce ad ogni Camera il potere di autoorganizzazione; b) se l'istituzione dell'"organo costituzionale quale giudice in causa propria" non offenda "le garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione sotto il profilo dell'indipendenza- terzietà e indipendenza-imparzialità del giudizio, e di nuovo e più direttamente, dall'art. 24 della Costituzione sotto il profilo della difesa e del contraddittorio". Sollevando il primo interrogativo, egli sospetta che la giurisdizione domestica delle Camere - e la correlativa esclusione di un qualsivoglia giudice non possa ritenersi ancor oggi costituzionalmente legittima, ove non si rinvenga una giustificazione nel sistema instaurato dalla Costituzione repubblicana. Sollevando il secondo interrogativo, che concerne più propriamente "il modo in cui l'autodichia viene attualmente in concreto strumentata ed esercitata", egli sospetta che non ricorrano e concorrano le garanzie che rendano costituzionalmente legittimo l'esercizio della funzione giurisdizionale.

I due punti appaiono di per sé meritevoli della più attenta considerazione. Le Sezioni unite della Cassazione, pur riconoscendo all'autodichia radici storiche e, a quanto pare, anche logiche, pensano tuttavia che il nuovo sistema costituzionale ne abbia operato la delegittimazione. Ed in quanto al dubbio sulla compatibilità dell'autodichia delle Camere con i principi costituzionali in tema di giurisdizione, non può non convenirsi col giudice a quo, anche sulla base di principi contenuti in convenzioni internazionali, che indipendenza ed imparzialità dell'organo che decide, garanzia di difesa, tempo ragionevole, in quanto coessenziali al concetto stesso di una effettiva tutela, sono indefettibili nella definizione di qualsiasi controversia. Senonché, il dubbio sulla sindacabilità, da parte di questa Corte, ai sensi ed ai fini dell'art. 134, primo alinea, Cost., dei regolamenti parlamentari contenenti gli impugnati artt. 12.1 e 12.3 é in ordine logico pregiudiziale rispetto ai due interrogativi di cui sopra, e perciò va esaminato per primo.

  1. - Il problema dell'assoggettabilità al giudizio di questa Corte dei regolamenti parlamentari adottati a sensi dell'art. 64, primo comma, Cost., é il problema dell'ammissibilità della questione. Secondo il giudice a quo, tali regolamenti sono fonti del diritto oggettivo assimilabili alle leggi ordinarie. Ed invero, la riserva del potere di organizzazione delle Camere e di integrazione della disciplina del procedimento legislativo, in quanto istituisce fra gli uni e le altre un rapporto di distribuzione di competenza normativa, se non comporta la costituzionalizzazione dei regolamenti in parola e la loro parametricità, comporterebbe certamente la loro collocazione allo stesso livello delle leggi ordinarie, specie per la parte in cui vengono regolati i rapporti con terzi e, più ancora, se si ritiene che la norma inespressa si lascia desumere dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale. Né varrebbe in contrario invocare il dogma dell'insindacabilità degli interna corporis degli organi costituzionali, che questa Corte ha già ripudiato con l'ormai remota sentenza del 1959, n. 9.

Di opposto avviso é, viceversa, l'Avvocatura dello Stato, la quale contesta l'assimilabilità di cui sopra: i regolamenti parlamentari non sarebbero atti dello Stato, bensì di organo, cioé di un singolo ramo del Parlamento, e si sottraggono, sia alla promulgazione del Presidente della Repubblica, sia all'abrogazione per referendum, sicché non possono farsi rientrare fra gli atti di cui all'art. 134 Cost.; essi sarebbero privi, tanto della potenzialità attiva (abrogatrice) nei confronti delle leggi anteriori, quanto della potenzialità passiva (di resistenza) nei confronti delle leggi posteriori, sicché non avrebbero forza di legge; l'interpretazione della sentenza n. 9 del 1959 sarebbe tutt'altro che univoca ed, anzi, sarebbero reperibili altre sentenze (55/1964, 14/1965, 183/1973 e 232/1975), dalle quali "possono desumersi e sono stati desunti indirettamente altri argomenti per escludere quella sindacabilità".

5.1. - É opinione di questa Corte che i richiami alla giurisprudenza costituzionale non danno un apporto risolutivo allo scioglimento del nodo in parola. Ed invero, le sentenze che vengono invocate dall'Avvocatura dello Stato e dalle parti, quando non sono inconferenti, appaiono prestarsi solo a congetture, piuttosto forzate e, comunque, controvertibili e controverse, le quali talvolta risultano dedotte da qualche evidente obiter dictum. E quanto alle considerazioni di ordine concettuale, esse in definitiva si bilanciano, sicché non é possibile cogliere in alcuna di esse un argomento decisivo.

Sembra, viceversa, che la soluzione possa e debba ricercarsi nell'art. 134 Cost., prima ipotesi, indagato alla stregua del sistema costituzionale. Formulando tale articolo, il costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d'interpretazione potrebbe ritenersi che questi vi siano ugualmente compresi. Ma una simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale, urterebbe contro il sistema. La Costituzione repubblicana ha instaurato una democrazia parlamentare, intendendosi dire che, come dimostra anche la precedenza attribuita dal testo costituzionale al Parlamento nell'ordine espositivo dell'apparato statuale, ha collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l'istituto caratterizzante l'ordinamento. É nella logica di tale sistema che alle Camere spetti - e vada perciò riconosciuta - una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.. Le guarentigie non vanno considerate singolarmente, bensì nel loro insieme. Ed infatti, attengano esse all'immunità dei membri delle Camere ovvero all'immunità delle rispettive sedi, é evidente la loro univocità, mirando pur sempre ad assicurare la piena indipendenza degli organi. Ne é conferma il divieto alla forza pubblica ed a qualsiasi persona estranea - sia pure il Presidente della Repubblica o il membro di una Camera diversa da quella di appartenenza - di entrare nell'aula, che discende dall'art. 64, ultimo comma, Cost., prima ancora che dagli artt. 62.2 e 64.1 del regolamento della Camera e 69.2 e 70.1 del regolamento del Senato. Il Parlamento, insomma, in quanto espressione immediata della sovranità popolare, é diretto partecipe di tale sovranità, ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno una "peculiarità e dimensione" (sentenza n. 78 del 1984), che ne impedisce la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra fra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l'indipendenza dell'organo sovrano da ogni potere. Le suesposte considerazioni non consentono che nell'art. 134, primo alinea, Cost. possano ritenersi compresi i regolamenti parlamentari in oggetto, dei quali pertanto va riconosciuta l'insindacabilità, con la conseguente dichiarazione d'inammissibilità della proposta questione, cui corrisponde la preclusione dell'esame del merito.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi relativi alle tre ordinanze in epigrafe (r.o. 408/1977, 315 e 316/1981),

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 12.1 e 12.3 dei regolamenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati - approvati rispettivamente il 17 e 18 febbraio 1971 -, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 101, secondo comma, 108, primo e secondo comma, e 113, primo comma, Cost., con le ordinanze in epigrafe dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 1985.

LEOPOLDO ELIA - Giuseppe FERRARI

Depositata in cancelleria il 23 maggio 1985.