Sentenza n. 110 del 1967
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ANNO 1967

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 43, lett. c, della legge 22 gennaio 1934, n. 36, sull'ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, promosso con deliberazione emessa il 13 novembre 1965 dal Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Campobasso nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati Testa Pasquale e Di Gregorio Gennaro, iscritta al n. 67 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 18 maggio 1967 la relazione del Giudice Michele Fragali;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.  

Ritenuto in fatto

 1. - A carico degli avvocati Pasquale Testa e Gennaro Di Gregorio del foro di Campobasso venne emesso mandato di cattura facoltativo per peculato per distrazione a favore di terzi e per falso ideologico, commessi mediante deliberazioni assunte come componenti della giunta provinciale, con i poteri del consiglio e nella vacanza di tale consesso; il mandato di cattura fu poi sospeso nei confronti dell'avv. Testa per le gravi condizioni della sua salute, e all'avv. Di Gregorio fu concesso il beneficio della libertà provvisoria. In seguito a ciò il locale consiglio, chiamato a pronunziare la sospensione dei predetti dall'esercizio della professione, ai sensi dell'art. 43, lett. c, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, con deliberazione 13 novembre 1965, denunziò di illegittimità costituzionale detto articolo, con riferimento agli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione.

Rilevò il consiglio dell'ordine che:

a) nell'articolo predetto non si differenzia fra cattura in atto e cessata, fra mandato obbligatorio di cattura e mandato facoltativo, fra delitti comuni e delitti a carattere e colorazione politica, mentre é chiaro che i criteri democratici di rispetto della personalità umana e delle libertà politiche impongono un diverso trattamento, almeno di fronte a delitti aventi causale politica;

b) l'articolo stesso nulla dispone perché la moglie e i figli dell'avvocato sospeso abbiano almeno il pane: il lavoratore delle imprese private, una volta cessata la cattura, può continuare a lavorare a guadagnare, ed il dipendente dello Stato é messo al sicuro dalla fame, per sé e la famiglia, attraverso l'erogazione di metà di quanto percepisce e dell'integrale pagamento degli assegni familiari, e, se assolto, viene integrato e percepisce gli arretrati, mentre l'avvocato sospeso, anche se assolto, si trova colpito moralmente dalla gravità della sospensione, con lo studio chiuso e la clientela sviata;

c) la sospensione comminata anche quando l'esecuzione del mandato sia stata sospesa e resa praticamente inoperante dalla concessione della libertà provvisoria, si risolve in una applicazione di vera pena sulla base di una presunzione di responsabilità penale.

Il consiglio si ritenne legittimato a sollevare la questione, e si richiamò alla sentenza della Cassazione 16 febbraio 1960, n. 255, nella quale fu ritenuto ammissibile un ricorso prodotto da un avvocato sospeso di diritto, riconoscendosi così piena veste di organo giurisdizionale al consiglio dell'ordine, che tale provvedimento aveva emesso. Il consiglio nazionale forense, pur andando in contrario avviso circa l'illegittimità costituzionale della norma, impugnata in relazione all'art. 27 della Costituzione, ha ammesso la possibilità del gravame contro i provvedimenti del consiglio dell'ordine.

La deliberazione venne notificata alle parti private nei giorni 7 e 8 gennaio 1966, e negli stessi giorni rispettivamente al P.M. e al Presidente del Consiglio dei Ministri. La stessa deliberazione venne poi comunicata il 24 gennaio 1966 ai Presidenti delle due Camere.

2. - Innanzi a questa Corte non si costituirono le parti private; il 3 giugno 1966 intervenne il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha contestato al consiglio dell'ordine degli avvocati la natura di organo giurisdizionale. La Corte di cassazione non ha sancito che le decisioni dei consigli dell'ordine siano provvedimenti giurisdizionali, né ha conferito natura giurisdizionale a detti consigli; pronunziò in un ricorso contro la decisione del consiglio nazionale forense, ricorso previsto dall'art. 56 della legge professionale per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. A parte poi l'orientamento della dottrina, che fa rientrare fra quelle amministrative le decisioni dei consigli dell'ordine, sta in fatto che la relazione alla legge ha affermato la natura giurisdizionale della commissione centrale, ora consiglio nazionale, implicitamente escludendo quella natura ai consigli dell'ordine; i quali non fanno parte dell'ordine giudiziario, e i cui membri non godono comunque di quelle garanzie costituzionali proprie dell'organo giudiziario.

Vero é che i consigli hanno facoltà e, in talune ipotesi, il dovere, di sentire il professionista e possono sentire testimoni; vero é che i loro membri possono essere ricusati dall'incolpato e che al procedimento partecipa il pubblico ministero; vero é che le loro decisioni sono impugnabili; ma é anche vero che tali norme sono regolatrici di una procedura o, se anche si vuole, di un processo, e che l'esistenza di una procedura o di un processo non comporta necessariamente che l'organo procedente sia giurisdizionale.

Nel merito il Presidente del Consiglio ritiene infondata la questione proposta sotto tutti i profili.

A parte il rilievo che la legge penale non distingue fra reato comune e reato politico, posto che il reato é tale qualunque sia la causale che ha spinto l'agente, e che la distinzione potrebbe avere valore solo ai fini della misura della pena o della concessione di particolari attenuanti, resta pur sempre che la norma denunciata attiene a quel momento del processo che concerne l'istruttoria, e che la distinzione cui accenna il consiglio dell'ordine potrebbe avere una efficacia in concreto solo quando, con sentenza, fosse stata dichiarata la sussistenza di una causale politica.

Emanato un mandato o un ordine di cattura, il professionista non é in grado di poter svolgere la sua attività lavorativa perché ne segue o la sua costrizione in un carcere o la sua latitanza; di nessun rilievo é perciò che egli sia di diritto sospeso dall'albo. Il vedere se alla sospensione del mandato e dell'ordine di cattura oppure alla concessione della libertà provvisoria possa seguire la riammissione allo esercizio della professione é questione d'interpretazione della norma, non senza osservare che, nei casi predetti, sarebbe ben strano che possa continuarsi l'esercizio di una attività che é ausiliaria della giustizia. Nessun legame é possibile stabilire fra la norma costituzionale che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo e la norma impugnata; e non potrebbe sostenersi che il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento con il proprio lavoro possa travolgere ogni legge di carattere sanzionatorio che limiti o escluda l'esercizio di una particolare attività professionale. La norma in esame non preclude ogni altra diversa e possibile attività.

La diversità di trattamento che si denuncia discende dalle diversità delle situazioni: nessuna comparazione é possibile fra la posizione lavorativa di un professionista iscritto ad un albo e quella di un operaio o di un impiegato privato o di dipendente pubblico. La diversità delle conseguenze economiche che la sospensione dall'albo produce al primo è dedotta da considerazioni che vanno al di là del profilo giuridico.

La sospensione dall'iscrizione nell'albo professionale a seguito dell'emissione di un ordine e di un mandato di cattura é un provvedimento disciplinare cautelare, e non spiega efficacia né in ordine al processo penale né in ordine alla decisione del giudice; la circostanza che un professionista sia colpito da un mandato o da un ordine di cattura é così grave da assorbire del tutto il provvedimento di sospensione dalla professione, che può anche avere applicazione per fatti che non rivestono il carattere di reato.

3. - All'udienza del 18 maggio 1967 l'Avvocato dello Stato ha illustrato e ribadito le proprie tesi.

Considerato in diritto

 Il provvedimento che il Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Campobasso era chiamato ad assumere in base alla norma impugnata ha natura disciplinare. Tra le pene disciplinari é infatti compresa, dall'art. 40, n. 3, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, la sospensione dall'esercizio professionale sulla quale il consiglio predetto doveva pronunciarsi; e, ai fini di tale qualificazione, non si può distinguere tra i casi in cui la sanzione é applicata dal consiglio nell'esercizio della sua discrezionalità e quelli in cui, come nella specie, essa deve essere disposta perché la legge la fa di diritto discendere dal verificarsi di una circostanza che ha valutato in via generale ed uniforme.

Ora non é esatto che, nell'esplicazione di tale potere, il consiglio dell'ordine degli avvocati assume veste giurisdizionale. Esso svolge il relativo compito nei confronti dei professionisti che formano l'ordine forense; quindi all'interno del gruppo che essi costituiscono, e per la tutela di interessi che sono essenzialmente della classe professionale, in modo che la funzione disciplinare che al consiglio compete é manifestazione di un potere sugli iscritti all'albo; e di un potere meramente amministrativo. Questo, se non é, come non é, di carattere gerarchico, é certo dato dalla legge per l'attuazione del rapporto che si instaura per il fatto dell'appartenenza all'ordine, il quale impone comportamenti conformi ai fini che esso deve perseguire; é espressione di una autonomia concessa per la più diretta e immediata protezione di questi fini, e soltanto di essi.

Per attribuire alla funzione una natura giurisdizionale non basta constatare che il consiglio opera con la garanzia di un procedimento: questo é spesso previsto anche nella materia amministrativa, in modo che non ha nemmeno importanza che esso si svolge nel contraddittorio dell'incolpato e che il consiglio dell'ordine può sentire testimoni. Ha importanza invece che il procedimento si conclude con una pronunzia che mira a sanzionare l'offesa fatta al gruppo di cui l'ordine é esponente, con riguardo ai fatti consumati da un suo componente, perché uno dei dati che danno carattere giurisdizionale ad un organo é l'estraneità dell'interesse in ordine al quale esso dà la sua pronunzia. La giurisprudenza allegata dal consiglio di Campobasso per giustificare la natura giurisdizionale della sua funzione concerne quello nazionale forense; e, se é vero che, in un primo tempo, anche alle decisioni disciplinari dei consigli dell'ordine venne data qualifica giurisdizionale, é anche vero che, più di recente, in giurisprudenza si é affermata la più esatta opinione del loro carattere amministrativo, sul fondamento delle considerazioni sopra esposte.

Non vale che il procedimento può essere iniziato anche dal pubblico ministero presso il Tribunale o su ricorso di chi é interessato a denunciare l'infrazione commessa dal professionista; né vale che gli atti del procedimento e la decisione devono essere comunicati al pubblico ministero suddetto, che questi può presentare deduzioni, e può chiedere la escussione di testimoni. A parte che non può escludersi che il compito di iniziare un procedimento amministrativo o di intervenirvi sia dato al pubblico ministero, quello presso il Tribunale, nella specie, non partecipa al procedimento innanzi al consiglio dell'ordine; tanto vero che, ricevuta copia della decisione, deve farne relazione all'ufficio superiore, il quale é il solo legittimato a proporre ricorso al consiglio nazionale forense. Unicamente in questa seconda fase del procedimento il pubblico ministero prende parte alla discussione, svolge le sue conclusioni e assiste alla decisione finale; e così resta dimostrato che i poteri che gli spettano nella fase anteriore hanno unicamente il carattere di collaborazione ad una attività amministrativa. E si dimostra che soltanto quando il procedimento si sposta nella sede del reclamo le funzioni del pubblico ministero si esercitano ai fini della tutela di un interesse esterno a quello del gruppo, diverso e distinto dall'altro che si incentra nell'ordine.

Pertanto non può ritenersi che il giudizio di legittimità costituzionale sulla questione di cui sopra sia stato promosso in modo idoneo.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, lett. c, della legge 22 gennaio 1934, n. 36, sull'ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, promossa dal Consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Campobasso con deliberazione 13 novembre 1965, in riferimento agli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.

 

Gaspare AMBROSINI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA -Michele FRAGALI -  Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI

 

Depositata in cancelleria il 12 luglio 1967.