SENTENZA N. 35
ANNO 1985
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio sull'ammissibilità, ai sensi dell'art. 2, comma primo, legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale dell'articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219, recante "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70, concernente misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e d’indennità di contingenza", iscritto al n. 28 del registro referendum.
Vista l'ordinanza 7 dicembre 1984 con la quale l'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato legittima la suddetta richiesta;
udito nella camera di consiglio del 16 gennaio 1985 il Giudice relatore Livio Paladin;
uditi gli avvocati Adolfo Di Majo e Giorgio Ghezzi per il Comitato promotore e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Ai sensi della legge 25 maggio 1970, n. 352, e successive modificazioni, l'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha esaminato la richiesta di referendum popolare, presentata il 25 luglio 1984 da Vitale Romano, Valentini Daniela, Leoni Carlo, Montanari Adonella, Fredda Angelo, Funghi Franco, Puro Vincenzo, Marincione Alfredo, Evangelisti Carlo, Brugnetti Viviana, Piermarini Marco, Maffioletti Roberto, Montessoro Antonio, Ventura Luciano, Spagnoli Ugo e Smuraglia Carlo, sul seguente quesito: "Volete voi l'abrogazione dell'articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 163 del 14 giugno 1984), che ha convertito in legge il decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 107 del 17 aprile 1984), concernente misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e d’indennità di contingenza, limitatamente al primo comma, nella parte che ha convertito in legge senza modificazioni l'art. 3 del decreto-legge suddetto, articolo che reca il seguente testo:
"Per il semestre febbraio-luglio 1984, i punti di variazione della misura dell’indennità di contingenza e d’indennità analoghe, per i lavoratori privati, e dell’indennità integrativa speciale di cui all'art. 3 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79, per i dipendenti pubblici, restano determinati in due dal 1 febbraio e non possono essere determinati in più di due dal 1 maggio 1984"; nonché al penultimo comma, che reca il seguente testo: "Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 15 febbraio 1984, n. 10" (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 47 del 16 febbraio 1984)?".
Con ordinanza del 7 dicembre 1984, depositata il 12 dicembre, l'Ufficio centrale ha preliminarmente dato atto che la richiesta in questione era stata preceduta dall'attività di promozione conforme ai requisiti di legge, che essa era stata presentata da soggetti a ciò legittimati, che il deposito dei fogli contenenti le firme e dei relativi certificati elettorali era avvenuto nel termine di tre mesi dalla timbratura dei fogli medesimi, che la richiesta predetta era stata regolarmente formulata (salva un'irregolarità sanabile e in effetti sanata da parte dell'Ufficio) e trascritta sulla facciata dei fogli contenenti le firme, che il numero delle firme delle quali si era definitivamente accertata la validità superava quello di 500.000 previsto dalla legge (e voluto dalla Costituzione).
Ciò posto, l'Ufficio centrale si é ritenuto competente "a conoscere della prima eccezione del Presidente del Consiglio dei Ministri, secondo la quale la richiesta di referendum sarebbe illegittima in quanto avrebbe per oggetto norme caratterizzate dal riferimento della loro disciplina ad una serie definita di fatti verificatisi prima della richiesta stessa, cioé a norme che presenterebbero un ambito d’efficacia temporale delimitato esclusivamente nel passato". Per altro, l'Ufficio ha ritenuto che, "nel caso concreto, l'art. 3 del decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70, derogando in via temporanea per i trimestri febbraio-aprile e maggio-luglio 1984 al previdente sistema, stabilito da contrattazioni collettive per il settore privato e da norma di legge per quello pubblico, ha avuto bensì come effetto diretto e immediato di "raffreddare" nel numero complessivo di quattro i punti di variazione dell'indennità di contingenza, delle indennità analoghe e dell'indennità integrativa speciale rispetto al numero più elevato risultante dalle rilevazioni dell'Istituto Centrale di Statistica, ma ha anche avuto come effetto mediato e conseguenziale un correlativo minore aumento delle retribuzioni dei lavoratori, in misura corrispondente ai punti non conteggiati" (come reso palese sia dalla corrente interpretazione ed applicazione di tale disciplina, sia dalla ratio del d.l. n. 70, sia dalla lettera del decreto stesso); ed ha, pertanto, dichiarato in tal senso legittima "la richiesta di referendum per l'abrogazione dell'art. unico della legge 12 giugno 1984, n. 219, nella parte in cui ha convertito in legge l'art. 3 del decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70"
Quanto invece al penultimo comma dell'articolo unico della legge n. 219, l'Ufficio ha ritenuto "l'esistenza di un'implicita dichiarazione di volontà dei richiedenti di limitare la richiesta alla parte di tale penultimo comma riguardante l'art. 3 del decaduto decreto-legge 15 febbraio 1984, n. 10, corrispondente all'art. 3 decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70, e di non estenderla invece anche alla parte riguardante le altre disposizioni del decreto-legge 15 febbraio 1984, n. 10": in quanto "dalla congiunta proposizione del secondo quesito in stretto collegamento col primo" si dedurrebbe che "si é inteso quello come meramente complementare rispetto a questo, e che alla base di entrambi sta l'unico e comune scopo di evitare ogni possibile ulteriore operatività delle norme sul raffreddamento dei punti, senza incidere su altre norme dei due decreti-legge non sfavorevoli ai lavoratori". Tuttavia, secondo l'ordinanza dell'Ufficio stesso, la mancata espressione di tale volontà costituirebbe "una mera irregolarità formale, sanabile ai sensi dell'art. 32 della legge 25 maggio 1970, n. 352". Ed é appunto in tal senso che nell'ordinanza si é provveduto ad aggiungere al secondo quesito, successivamente al testo del penultimo comma, le parole "limitatamente a quelli di cui all'art. 3 di quest'ultimo decreto-legge": dopo di che l'Ufficio centrale ha dichiarato senz'altro legittima anche questa parte della richiesta in esame, affermando invece la propria incompetenza a pronunciarsi sulle altre eccezioni proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri, in vista dell'art. 75 della Costituzione.
2. - Ricevuta comunicazione dell'ordinanza, il Presidente di questa Corte ha fissato per la conseguente deliberazione il giorno 16 gennaio 1985, dandone a sua volta comunicazione ai presentatori della richiesta ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'art. 33, secondo comma, della legge n.352 del 1970. E in vista di tale deliberazione tanto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, quanto il comitato promotore del referendum si sono avvalsi della facoltà di depositare memorie, in base al terzo comma del citato art. 33.
a) L'Avvocatura dello Stato ha sostenuto anzitutto che si tratterebbe "di accertare in questa sede l'inammissibilità del referendum abrogativo volto a far cessare effetti mediati e conseguenziali di norme che abbiano esaurito la loro efficacia diretta ed immediata". In realtà, il ricalcolo dei punti "tagliati" per effetto della disciplina in esame non potrebbe essere "introdotto nell'ordinamento ad opera del Corpo elettorale", "ne ex tunc né a partire da una qualsivoglia data successiva", dal momento che il referendum abrogativo non avrebbe mai "effetto propositivo né retroattivo", disponendo invece d'un mero "valore unidirezionale di normazione negativa". L'art. 3 del d.l. n. 70 del 1984 si sarebbe infatti limitato "a decurtare una volta per tutte due addendi di variazione (i punti, cioé, relativi ai due trimestri del 1984) delle indennità in questione, col risultato di ridurre l'incidenza delle variazioni relative a quel periodo e di determinare con ciò stesso un irreversibile contenimento della crescita di quello che gergalmente viene definito lo zoccolo di tale indennità". Nessun ulteriore effetto sarebbe stato prodotto dalla disciplina in esame, che avrebbe solo compresso i punti suddetti, mentre a partire dal 1 agosto 1984 avrebbe ripreso integralmente ad operare "il meccanismo normativo anteriore al decreto legge"; sicché l'unica possibilità di far conseguire "un risultato utile" al referendum in questione consisterebbe appunto nel conferirgli "efficacia retroattiva", determinando in tal modo "lo sconfinamento del potere attribuito al Corpo elettorale dall'art. 75 Cost.".
Ciò posto, l'Avvocatura ha dedotto un ulteriore motivo di inammissibilità, determinato dalla "disomogeneità delle norme, rispettivamente oggetto delle due articolazioni del quesito referendario", e dalla conseguente "ambiguità di fondo del medesimo". Mentre, infatti, nell'ordinanza dell'Ufficio centrale si afferma "la decorrenza ex nunc" della prevista abrogazione dell'art. 3, "l'abrogazione del penultimo comma dell'articolo unico della l. 219/1984, per lo specifico contenuto di questo, non potrebbe che produrre, univocamente e incontestabilmente, l'effetto retroattivo di scoprire di ogni legittimazione gli atti e i rapporti sorti sulla base del decreto legge 10/ 1984 decaduto per mancata conversione". Ed allora - si chiede l'Avvocatura - come sarebbe ammissibile "che l'unico quesito consenta diverse soluzioni, una delle quali assolutamente incompatibile con il limite negativo del potere di cui all'art. 75, esplicitato dagli artt. 37 e 39 l. 352/1970"?.
Osserva ancora l'Avvocatura dello Stato che, "come codesta Corte si é ritenuta carente di poteri di scissione o ridefinizione dei quesiti referendaria..., così analoga impossibilità di interferenza va ritenuta sussistere per l'Ufficio Centrale del Referendum". Per contro, l'Ufficio non si sarebbe limitato ad una "modifica di carattere meramente formale", ma avrebbe alterato - con la ricordata aggiunta di alcune parole finali - il "contenuto sostanziale" della richiesta in esame; e ciò, senza averne la competenza e senza potersi ritenere "subdelegato o interprete della volontà sostanziale dei promotori". Dal che discenderebbe - secondo l'Avvocatura - "un altro autonomo e sufficiente motivo di inammissibilità del referendum", considerato nel suo intero complesso.
Si afferma ancora, per un altro verso, che non sarebbe "legittimo isolare singole disposizioni e contrapporre quelle che, in termini nominalistici, impongono un sacrificio ai lavoratori a quelle che, anche in via compensativa, realizzano invece immediati vantaggi per essi (aumento degli assegni familiari, calmiere alle tariffe pubbliche, ecc.) obliterandone l'inscindibile collegamento". Disconoscere la reciproca integrazione di tali misure, "nell'equilibrato dosaggio di sacrifici e benefici previsti dallo strumento legislativo nel cui tessuto unitario le norme oggetto della richiesta di referendum sono inseparabilmente collegate", significherebbe, infatti, "invalidare e distorcere tutto lo strumento legislativo sbilanciandone gli effetti e deviandoli dagli obiettivi unitariamente concepiti". E ne deriverrebbe, dunque, una quarta ragione d'inammissibilità della richiesta.
Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato sostiene l'"insuscettibilità delle norme del d.l. 70/1984 e legge 219/1984 a formare oggetto di referendum abrogativo in relazione alla loro natura e portata". Da un lato, infatti, la legge finanziaria dovrebbe ritenersi "direttamente compresa" tra quelle costituzionalmente sottratte a referendum; d'altro lato, il d.l. n. 70 rientrerebbe "nella sostanziale portata della legge finanziaria in quanto strumento preordinato al raggiungimento dell'obiettivo del contenimento della inflazione nei limiti medi del tasso programmato per l'anno 1984 individuato come esigenza primaria per la riuscita della politica economica del Governo". E, di conseguenza, la richiesta in esame "verrebbe ad incidere sull'equilibrio finanziario costituito dalla richiamata normativa, sussumibile, in una valutazione unitaria, sotto il concetto di legge di bilancio o comunque nell'area delle disposizioni produttive di effetti strettamente collegati all'ambito di operatività delle leggi di bilancio".
b) La difesa del comitato promotore si é soffermata unicamente, invece, sull'ultimo fra i punti messi in rilievo dall'Avvocatura dello Stato.
Nella memoria si riconosce che le norme costituenti oggetto della richiesta "riguardano in parte, certamente, anche la pubblica spesa". Senonché la legge finanziaria - sostiene la memoria stessa - "si affianca alla legge di bilancio, ma da questa giuridicamente si differenzia e in nulla ne assume la natura"; anche perché la portata degli atti così denominati "é divenuta tanto ampia da riferirsi, con le sue implicazioni ed i suoi rimandi, a buona parte della legislazione che regge il nostro paese". D'altronde - si osserva - il d.l. n. 70 del 1984 "non rinvia alla legge finanziaria, ne da questa é rinviato": con la conseguenza che il ragionamento svolto dall'Avvocatura si rivela viziato da due "salti logici"; e si pone comunque in contrasto con la giurisprudenza della Corte, formata dalle sentenze n. 16 del 1978 e n. 26 del 1982.
Conclusivamente, per altro, la difesa del comitato nega che "possano sussistere dubbi sulla univocità, semplicità, obiettiva omogeneità e coerenza dei quesiti", dal momento che le norme investite dalla richiesta referendaria sarebbero "istitutive di un meccanismo giuridico unitario, riduttivo del costo del lavoro dipendente". Ne sussisterebbe "contraddittorietà alcuna fra la richiesta di abrogazione dell'art. 3 del d.l. convertito e quella che si riferisce al penultimo comma della legge di conversione": anche in quest'ultimo senso, difatti, non si chiederebbe "la restituzione del valore monetario non pagato allora ai lavoratori, ma..., di reintegrare per il futuro la piena operatività dell'indice e del sistema di indicizzazione", senza eccettuare "la decurtazione dei due punti del febbraio 1984".
3. - Ad integrazione del contraddittorio espressamente previsto dall'art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, nella camera di consiglio del 16 gennaio 1985 sono stati uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, e gli avvocati Adolfo di Majo e Giorgio Ghezzi, per il comitato promotore del referendum.
Il primo ha riproposto tre ordini di eccezioni d'inammissibilità: l'uno relativo ai limiti logici del referendum, per sua natura ablativo ed irretroattivo, e dunque insuscettibile di far recuperare ai lavoratori dipendenti punti che giuridicamente non sarebbero mai venuti in essere; il secondo concernente il penultimo comma della legge di conversione, che avrebbe disposto una sanatoria per il solo passato, sicché la consultazione referendaria non potrebbe in tal senso non esser destinata a retroagire; il terzo riguardante l'asserita inscindibilità della manovra antiinflattiva del 1984 e l'inseparabilità delle leggi finanziarie, considerate nei loro contenuti tipici, dalle leggi di bilancio di cui al secondo comma dell'art. 75 Cost..
La difesa dei promotori ha invece replicato, in particolar modo, che non si potrebbe disconoscere quanto é stato ormai deciso dall'Ufficio centrale; che la richiesta in esame si proporrebbe, comunque, la sola restaurazione de futuro del meccanismo di valutazione del differenziale inflazionistico, alterato dal Governo con i d.l. n. 10 e n. 70 del 1984; che lo stesso quesito concernente il penultimo comma dell'articolo unico della legge n. 219 sarebbe complementare al quesito riguardante l'art. 3 del d.l. n. 70, mirando soltanto ad escludere che gli effetti in esame si stabilizzino per l'avvenire.
Entrambe le parti hanno quindi depositato, a sostegno delle rispettive tesi, copia delle deduzioni svolte dinanzi all'Ufficio centrale per il referendum.
Considerato in diritto
1. - Secondo un ordine logico, va preso anzitutto in esame il problema dell'integrazione del quesito referendario da parte dell'Ufficio centrale per il referendum, disposta nei termini già ricordati in narrativa: integrazione che l'Avvocatura dello Stato contesta, negando la competenza dell'Ufficio ad effettuare qualunque operazione correttiva del genere.
Impropriamente, però, l'Avvocatura si appella alla sentenza n. 16 del 1978, con cui questa Corte ha escluso che la vigente disciplina del referendum abrogativo consenta la scissione delle richieste referendarie, pur dove esse risultino così disomogenee da esigere distinte consultazioni del corpo elettorale. Altro, infatti, é la scissione delle richieste, altro la rettifica delle richieste stesse, mirante a far coincidere forma e sostanza del quesito, secondo l'effettiva ed inequivoca volontà dei promotori del referendum. Ora, nella specie, la Corte considera pacifico che i promotori non abbiano inteso coinvolgere nel quesito in esame - come risulta dalla struttura di esso - tutte le disposizioni del decreto-legge n. 10 del 1984, comprese quelle attinenti alle tariffe, ai prezzi amministrati ed agli assegni familiari; ma abbiano avuto riguardo - nei medesimi termini della richiesta concernente l'art. 3 del decreto-legge n. 70, convertito nella legge n. 219 del 1984 - al solo "taglio" dei punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale, sia pure nella parte concernente il trimestre febbraio - aprile. Pertanto, la Corte deve muovere dalla decisione con cui l'Ufficio centrale ha ritenuto necessario aggiungere alla richiesta in esame le parole "limitatamente a quelli di cui all'art. 3 di quest'ultimo decreto-legge".
2. - In base alle diffuse argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato, la Corte dovrebbe riconsiderare le conclusioni raggiunte dall'Ufficio centrale, anche e soprattutto per ciò che riguarda le premesse interpretative che hanno condotto l'Ufficio a dichiarare legittima la richiesta in questione: sia quanto alla ricostruzione delle norme formanti l'oggetto del quesito referendario, sia - principalmente - quanto all'individuazione degli effetti che il referendum sarebbe suscettibile di determinare. Nella già descritta prospettiva dell'Avvocatura, i punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale, "tagliati" in virtù dei decreti-legge n. 10 e n. 70 del 1984, non sarebbero mai venuti in essere nell'ordinamento giuridico e non potrebbero, quindi, venire nuovamente calcolati e riattribuiti ai lavoratori interessati, se non provvedendo a ridisciplinare per legge la materia. Di conseguenza, il referendum del quale si tratta non sarebbe in grado di realizzare il suo scopo, se non a condizione di riconoscergli una qualche efficacia retroattiva, implicante la piena restaurazione del meccanismo della scala mobile sin dal trimestre febbraio-aprile 1984: il che, per altro, significherebbe snaturare l'istituto di democrazia diretta configurato dall'art. 75 Cost., cui la Carta costituzionale non avrebbe collegato altro che un normale effetto abrogativo ed ablativo, destinato ad operare per il solo avvenire. E come, per tali motivi, l'Ufficio centrale avrebbe dovuto pronunciare l'illegittimità della richiesta referendaria, così la stessa Corte sarebbe ora tenuta a dichiarare l'inammissibilità del referendum.
Al fine di apprezzare la consistenza di queste eccezioni, occorre però ricordare quali siano i compiti rispettivamente attribuiti all'Ufficio centrale ed alla Corte, nell'ambito del complesso procedimento previsto dalla legge n. 352 del 1970. La legge stessa precisa - nel secondo comma dell'art. 32 - che "l'Ufficio centrale... esamina tutte le richieste depositate, allo scopo di accertare che esse siano conformi alle norme di legge, esclusa la cognizione dell'ammissibilità, ai sensi del secondo comma dell'art. 75 della Costituzione, la cui decisione é demandata dall'articolo 33 della presente legge alla Corte costituzionale"; ed é all'Ufficio che spetta rilevare "le eventuali irregolarità delle singole richieste" (in base al citato terzo comma dell'art. 32), proporre la "concentrazione" delle richieste che rivelino "uniformità o analogia di materia" (cfr. il quarto comma del medesimo articolo), nonché dichiarare che le operazioni referendarie "non hanno più corso", "se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati" (secondo l'espresso disposto dell'art. 39). Ora, é ben vero che la Corte - a partire dalla sentenza n. 16 del 1978 - ha costantemente ritenuto, al di là delle ipotesi testualmente indicate dal secondo comma dell'art. 75 Cost., la sussistenza di "altre ragioni", individuabili "in via sistematica", che possono comunque "precludere il ricorso al corpo elettorale". Ma il conseguente ampliamento delle cause d'inammissibilità del referendum non ha mai comportato il venir meno della linea distintiva fra le attribuzioni della Corte e le attribuzioni dell'Ufficio centrale.
Fin dalla sentenza n. 251 del 1975 (cui la sentenza n. 16 del 1978 fa esplicito riferimento), si é invece ribadito quanto già risulta dalla legge n. 352, ossia che "al controllo di legittimità demandato all'apposito Ufficio soltanto la cognizione dell'ammissibilità del referendum"; ed a quella pronuncia si sono poi aggiunte, in termini estremamente significativi, la sentenza n. 68 del 1978 e le sentenze nn. 30 e 31 del 1980. Con la prima di tali decisioni s'é infatti stabilito che spetta all'Ufficio centrale (e non alla Corte) "valutare se la nuova disciplina legislativa, sopraggiunta nel corso del procedimento, abbia o meno introdotto modificazioni tali da precludere la consultazione popolare, già promossa sulla disciplina preesistente"; e nelle due altre pronunce si é poi precisato che, "entro la sfera delle proprie attribuzioni, l'Ufficio centrale é investito di un potere decisorio, le cui modalità di esercizio non spetta alla Corte sindacare". In breve, perciò, la Corte si é riservata - come ancora si legge nelle sentt. n. 30 e n. 31 del 1980 - il solo "controllo di costituzionalità" del referendum; mentre "le indagini affidate all'Ufficio centrale... involgono... sia il coordinamento sia la valutazione comparativa di norme, che si succedono nel tempo, sempre sul piano della legge ordinaria e delle fonti normative a questa equiparate", anziché sul piano delle norme costituzionali. Ed entro la sfera spettante all'Ufficio non si può pretendere che la Corte operi - in sostanza - come un giudice di secondo grado, appellandosi ad essa contro le pronunce già adottate dall'Ufficio stesso.
Ma, nella specie, é precisamente sul piano della legislazione ordinaria che sono rimaste collocate le scelte interpretative e le decisioni dell'Ufficio centrale. Tale collegio non ha affatto ritenuto che la richiesta in esame potesse tradursi - come assumeva ed assume l'Avvocatura dello Stato - in un referendum di tipo retroattivo: nel qual caso la Corte avrebbe dovuto accertare, a sua volta, se consultazioni del genere rientrino (ed eventualmente a quali condizioni) nella tipologia dei referendum abrogativi, configurati e consentiti dalla Costituzione. Al contrario, l'Ufficio si é posto il problema se la richiesta in esame avesse ed abbia di mira "un voto popolare... in partenza privato di entrambi i suoi effetti tipici, abrogativo e preclusivo, alternativamente previsti dagli artt. 37 e 38 della legge... n. 352, esattamente come nell'ipotesi di una legge abrogata" (secondo la terminologia della sentenza n. 68 del 1978); il che non avrebbe avuto senso, ove si fosse trattato di un referendum retroattivo, che per definizione non potrebbe considerarsi giuridicamente inutile e dunque illegittimo. Ma la soluzione del quesito é stata negativa, poiché l'Ufficio stesso ha sostenuto che il "taglio" dei punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale continua "a produrre... effetti... mediati e conseguenziali, destinati a verificarsi una o più volte in tempi successivi, in ulteriore deroga al sistema previgente"; ed ha perciò rilevato che il richiesto referendum sarebbe per l'appunto idoneo - secondo la costante prospettazione dei promotori - ad impedire "l'ulteriore verificarsi" di tali conseguenze, "fermo restando soltanto ogni e qualsiasi effetto prodottosi prima del giorno previsto dal terzo comma dell'art. 37 della legge 1970 n. 352" (vale a dire, prima del giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto presidenziale dichiarante l'avvenuta abrogazione delle disposizioni sottoposte a referendum).
Stando così le cose, non giova discutere se gli effetti giuridici del "taglio" si siano esauriti allo scadere del semestre febbraio-luglio 1984, lasciando perdurare i soli effetti economici (per altro imputabili agli stessi criteri che presiedono al normale conteggio dei punti di variazione dell'indennità di contingenza e dell'indennità integrativa speciale); o se, viceversa, la ridotta operatività del meccanismo della scala mobile continui a ripercuotersi, in termini giuridicamente rilevanti, sulle retribuzioni periodicamente dovute ai lavoratori subordinati. Qualunque sia la risposta, é infatti palese che non può essere la Corte a fornirla, poiché in entrambi i casi si tratta soltanto di fissare l'ambito temporale di efficacia d'una disciplina legislativa ordinaria (non altrimenti che nell'ipotesi - prevista dall'art. 39 della legge n. 352 - di una successiva abrogazione delle disposizioni sottoposte a referendum ).
Né la conclusione muta quanto al penultimo (rectius: ultimo) comma dell'articolo unico della citata legge di conversione, per cui "restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 15 febbraio 1984, n. 10". L'Ufficio centrale ha infatti precisato - ed il comitato promotore ha ribadito - che tale disposizione é stata coinvolta nel quesito con "l'unico e comune scopo di evitare ogni possibile ulteriore operatività delle norme sul raffreddamento dei punti" di contingenza. Sicché rimane fermo, anche da questo lato, che la richiesta referendaria é atta ad incidere - nel caso di un risultato favorevole all'abrogazione - sulle sole retribuzioni da corrispondere successivamente alla pubblicazione del decreto presidenziale previsto dall'art. 37 della legge n. 352.
3. - Con queste premesse e nei limiti temporali segnati dall'ordinanza dell'Ufficio centrale, la Corte può dunque passare senz'altro all'esame delle altre eccezioni d'inammissibilità, proposte dall'Avvocatura dello Stato: la quale ha sostenuto, da una parte, che le disposizioni formanti l'oggetto della richiesta - al pari delle "leggi finanziarie" - sarebbero assimilabili alle leggi "di bilancio", espressamente sottratte al referendum abrogativo in base al secondo comma dell'art. 75 Cost.; ed ha argomentato, d'altra parte, che non si potrebbe "spezzare l'omogeneità, la coerenza, la stretta concatenazione" delle misure previste dal decreto-legge n. 70 del 1984, per assoggettare al referendum le sole disposizioni che impongono un sacrificio ai lavoratori, isolandole da quelle compensative del sacrificio stesso.
Tuttavia, ne l'uno ne l'altro assunto si dimostrano fondati.
a) Per stabilire se la disciplina in questione debba essere esclusa dall'area del referendum abrogativo, in vista del secondo comma dell'art. 75 Cost., non occorre che la Corte analizzi il nesso riscontrabile fra le cosiddette leggi finanziarie e le leggi di bilancio. Effettivamente, ai sensi dell'art. 11 della legge 5 agosto 1978, n. 468, la legge finanziaria può annualmente operare "modifiche ed integrazioni a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio dello Stato, su quelli delle aziende autonome e su quelli degli enti che si ricollegano alla finanza statale", provvedendo "a tradurre in atto la manovra di bilancio per le entrate e le spese che si intende perseguire"; ed é ben noto che la legge stessa e la corrispondente legge di bilancio derivano da un comune processo decisionale, anche se mantengono una diversa natura e subiscono limiti diversi per effetto dell'art. 81 della Costituzione. Senonché nella soluzione dell'attuale problema, risulta comunque decisiva la considerazione che i disposti compresi nella richiesta referendaria sono esorbitanti, sia formalmente che sostanzialmente, dall'ambito proprio delle stesse leggi finanziarie.
Da un punto di vista formale, é incontroverso che le misure di politica economica prefigurate dal decreto-legge n. 10 e quindi realizzate dal decreto - legge n. 70 non sono state puntualmente preannunciate dalla legge finanziaria 1984 (promulgata sin dal 27 dicembre 1983), né recepite dalla legge finanziaria 1985; tanto più che in tali atti assume un qualche rilievo il solo trattamento economico dei dipendenti pubblici, ad esclusione di quelli privati. Da un punto di vista sostanziale, poi, le disposizioni investite dalla richiesta in esame non riguardano in modo specifico "la manovra di bilancio" né il fabbisogno della finanza pubblica, sia pure allargata; bensì hanno di mira - come si precisa nelle premesse dei decreti-legge n. 10 e n. 70 del 1984 - "il contenimento dell'inflazione nei limiti medi del tasso programmato per l'anno 1984, al fine di favorire la ripresa economica generale e mantenere il potere di acquisto delle retribuzioni". Ciò mostra come tali disposizioni siano completamente estranee alla figura della legge di bilancio in senso tecnico, quale é desumibile dalle combinate previsioni degli artt. 75 ed 81 Cost.. Né si può forzare il testo costituzionale fino al punto di affiancare alle leggi di bilancio le innumerevoli leggi comunque interessanti il bilancio medesimo: poiché una siffatta integrazione dell'art. 75 sarebbe "ovviamente inammissibile per la sua evidente esorbitanza dai limiti interpretativi posti da questa Corte con la citata sentenza n. 16/78" (come ha precisato la sentenza n. 26 del 1982, nel caso - per certi aspetti analogo - del referendum concernente l'esclusione della contingenza dal computo delle indennità di anzianità).
b) Del pari, non ha pregio sul piano giuridico la tesi per cui la richiesta in esame sarebbe incongruamente formulata, e dunque dovrebbe venir dichiarata inammissibile, per non aver coinvolto l'intero complesso dei provvedimenti adottati con il decreto-legge n. 70. Queste misure si differenziano profondamente, infatti, sia per i loro contenuti sia per i soggetti che vi sono interessati; sicché non si riscontra, nel presente caso, quella "contraddittorietà ed incoerenza tra la proposta abrogativa di alcune norme e la prevista permanenza di altre nello stesso contesto normativo", in nome della quale la Corte dichiarò inammissibili - mediante le sentenze nn. 27 e 29 del 1981 - le richieste referendarie concernenti la disciplina della caccia e l'ordinamento della Guardia di finanza.
In altre parole, la presenza di misure atte a compensare il sacrificio economico imposto ai lavoratori dipendenti, in forza dell'art. 3 del decreto - legge n. 70, concorre a dimostrare che il legislatore non ha violato i criteri di ragionevolezza ed ha inteso perseguire i "fini sociali", di cui agli artt. 3 e 41 della Costituzione (come si é già ritenuto nel giudizio sulla legittimità costituzionale del "taglio" della scala mobile); ma non rileva in un giudizio concernente l'ammissibilità d'una richiesta referendaria, che obbedisce in maniera coerente ed inequivoca alla scelta liberamente adottata dai promotori e dai sottoscrittori. Ed é solo al corpo elettorale, non a questa Corte, che spetta di pronunciarsi sull'intrinseca bontà della scelta stessa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale dell'articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70, concernente misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza), iscritta al n. 28 del reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, e dichiarata legittima con ordinanza 7-12 dicembre 1984 dell'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 1985.
Leopoldo ELIA - Livio PALADIN
Depositata in cancelleria il 7 febbraio 1985.