SENTENZA N. 215
ANNO 1975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli art. 261 e 262 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (testo unico delle leggi sulle imposte dirette), promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1973 dal tribunale di Roma sul ricorso dell'esattore del Comune di Roma per ottenere la dichiarazione di fallimento fiscale della società Farnesinatre, iscritta al n. 309 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 236 del 12 settembre 1973.
Visto l'atto di costituzione dell'esattore del Comune di Roma;
udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 1975 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;
udito l'avv. Giuseppe Mesiano, per l'esattore del Comune di Roma.
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso del 31 maggio 1972 l'esattore del Comune di Roma, autorizzato dall'Intendente di finanza, ha chiesto al tribunale di Roma di pronunciare, ex artt. 261 e 262 del t.u. 29 gennaio 1958, n. 645, il fallimento fiscale della s.r.1. Farnesinatre, morosa nel pagamento di sei rate consecutive d'imposte relative a redditi derivanti dall'esercizio di attività commerciale, per l'ammontare di L. 18.374.659.
A tale istanza si é opposta la società con ricorso facendo presente che avverso gli accertamenti delle imposte di cui sopra pendeva contestazione davanti alle competenti commissioni tributarie ed eccependo l'illegittimità costituzionale dei citati art. 261 e 262 del t.u. n. 645 del 1958, per contrasto con gli art. 24, comma secondo, 25 e 101 della Costituzione.
Il tribunale di Roma, premesso che in materia di fallimento fiscale é preventivamente determinata la competenza del tribunale a promuovere la dichiarazione di fallimento, ha, con ordinanza del 12 luglio 1973, sollevato questione di legittimità costituzionale degli art. 261 e 262 del citato t.u. in riferimento agli art. 3, 24, comma secondo, e 101 della Costituzione.
a) Secondo il giudice a quo all'imprenditore contribuente non é assicurato il diritto di difesa, perché non gli é consentito di eccepire e di dimostrare davanti al tribunale, nella fase prefallimentare, di non essere affatto debitore, nonostante che il credito, in base al quale é chiesto il fallimento, sia iscritto, come nella specie, provvisoriamente nei ruoli nella pendenza del ricorso davanti alle commissioni tributarie, e pur essendo possibile che a seguito dell'accoglimento di tale ricorso risulti addirittura non esistente il credito e quindi il presupposto dell'inadempimento.
Violerebbe, pertanto, il diritto alla difesa "un istituto processuale - il fallimento - che pretende di essere applicato senza offrire la possibilità al soggetto passivo di eccepire e dimostrare che egli non é tale, perché non debitore".
b) Osservato che al tribunale, giudice naturale di ogni fallimento, spetta per legge il potere di accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e rilevato che, in caso di fallimento fiscale, "il giudizio sull'esistenza del presupposto obiettivo per la dichiarazione di fallimento é affidato esclusivamente all'Intendente di finanza", l'art. 101 della Costituzione risulterebbe violato dalle norme denunciate, in quanto le stesse profilano come dovuta la sentenza dichiarativa di fallimento ed é completamente soppressa la libertà di giudizio del tribunale che rimane vincolato alla volontà della pubblica amministrazione e non può convincersi della insussistenza del credito in oggetto.
c) Si avrebbe, infine, la violazione del principio di eguaglianza perché non distinguendosi, in materia, tra credito definitivo e credito provvisorio, si assoggetta alla stessa sanzione (fallimento) sia l'imprenditore moroso che non abbia mosso opposizione all'accertamento tributario e sia l'imprenditore che, ritenendo di non dovere il carico di imposte iscritto provvisoriamente a ruolo, ha adito le competenti commissioni.
Viene così applicato il medesimo trattamento a situazioni obiettive diverse: al caso di morosità che é palese manifestazione di insolvenza e al caso di morosità che da sola non può essere considerata indice di insolvenza, dato che l'imprenditore non paga perché non si ritiene debitore.
2. - Davanti a questa Corte non ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri; si é invece costituito l'esattore del Comune di Roma, che, a mezzo dell'avv. Giuseppe Mesiano, ha chiesto che la questione fosse dichiarata non fondata.
La difesa dell'attore ha, anzitutto, osservato che unico presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento fiscale é la morosità nei pagamenti e non la certezza o meno del debito in via definitiva, e che, in sede di valutazione della relativa istanza, il tribunale non é tenuto a verificare se l'obbligazione tributaria sussista o meno in via definitiva quanto, invece, ad accertare se la pretesa manifestata dall'erario con la iscrizione a ruolo del tributo sia stata o meno soddisfatta.
Non può, quindi, parlarsi di violazione dell'art. 24, comma secondo, perché "la controversia innanzi al tribunale si svolge nei modi e con le garanzie previste dalla legge fallimentare e da quella processuale, né le disposizioni della legge speciale frappongono ostacoli processuali alle parti per far valere le proprie ragioni".
La difesa dell'esattore ha rilevato, ancora, che non risulta violato neppure l'art. 101 perché, di fronte alla documentata domanda di fallimento fiscale avanzata, tramite l'esattore, dalla pubblica amministrazione, é compito del tribunale di accertare la particolare morosità dell'imprenditore-contribuente (e non se sia legittima o meno la pretesa fiscale, culminata nell'avviso di accertamento impugnato dal contribuente, e non ancora definita) e di applicare la sanzione prevista dalle norme impugnate ed emettere la richiesta sentenza dichiarativa di fallimento. Il giudice é, pertanto, vincolato solo alla legge, di cui si richiede l'applicazione, una volta accertata l'esistenza dei presupposti per l'emissione del provvedimento richiesto.
Ed infine, secondo la difesa dell'esattore, non sarebbe violato l'art. 3. Dato che il tribunale, ai fini della dichiarazione di fallimento, ha da accertare solo il fatto obiettivo del mancato pagamento di sei rate consecutive d'imposte sui redditi derivanti dall'esercizio dell'impresa commerciale, e non la certezza o meglio ancora la definitività del credito tributario, e deve prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno stato di insolvenza, "non si può far distinzione fra i due casi prospettati (dal tribunale di Roma, nella specie) e rilevarne disparità di trattamento in ordine all'applicazione della sanzione".
"L'equiparazione del presupposto dell'insolvenza, richiesto per la dichiarazione di fallimento ordinario, a quello dell'inadempimento del debito d'imposta, richiesto per la dichiarazione di fallimento fiscale, appare pienamente giustificata, tenuto conto della difformità delle posizioni che, nell'attuale ordinamento economico- sociale, sono rispettivamente occupate dal comune imprenditore e dall'imprenditore contribuente. Ciò essenzialmente, in ragione della particolare rilevanza che l'inadempimento di qualsiasi altra obbligazione civile assume come violazione di un obbligo costituzionalmente sancito (art. 53 della Costituzione)".
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe il tribunale di Roma solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 261 e 262 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (testo unico delle leggi sulle imposte dirette), in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 101 della Costituzione.
2. - La Corte, con sue precedenti pronunce (sentenza n. 114 del 1974 ed ordinanza n. 195 del 1971), ha avuto modo di valutare i rilievi mossi da vari giudici circa la legittimità costituzionale delle norme ancora una volta denunciate, in riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione.
Ora si insiste sul contrasto delle ripetute norme con il principio di eguaglianza e si denuncia per la prima volta il mancato rispetto degli artt. 24, comma secondo, e 101.
3. - Il profilo sotto il quale si assume che sia violato l'art. 3, risulta nuovo. Nelle due precedenti occasioni, infatti, si é messo in evidenza o che a fronte di una eguale situazione (mancato pagamento da parte di contribuenti di sei rate consecutive d'imposta) erano previsti effetti giuridici diversi (ammenda o fallimento fiscale) a seconda che il contribuente non fosse o fosse un imprenditore commerciale ed in questo caso il reddito imponibile derivasse dall'esercizio di imprese commerciali; o che relativamente ad un'unica situazione (mancato pagamento da parte di imprenditori commerciali di sei rate consecutive d'imposta) erano previsti effetti giuridici diversi (ammenda o fallimento fiscale) a seconda che il contribuente fosse moroso nel pagamento di tributi sui redditi non derivanti o derivanti dall'esercizio di imprese commerciali, o che in presenza di situazioni diverse (esistenza o mancanza del presupposto oggettivo dell'insolvenza) era previsto un unico effetto giuridico (fallimento) con conseguenze anche nei confronti di tutti i creditori. Nell'ordinanza de qua, invece, si denuncia che situazioni diverse, quali sarebbero quelle in cui si trovano gli imprenditori commerciali che abbiano o non abbiano accettato il carico tributario e però siano morosi nel pagamento di sei rate consecutive d'imposte sui redditi derivanti dall'esercizio d'imprese commerciali, sarebbero trattate ingiustificatamente in modo eguale (con la previsione in entrambi i casi, della dichiarazione di fallimento fiscale).
L'assunta violazione del principio d'eguaglianza non ricorre. La differenza tra le due situazioni, secondo il tribunale di Roma, consisterebbe in ciò che in un caso il credito é "definitivo" ed il contribuente non ha mosso opposizione all'accertamento tributario, e, nell'altro il credito é "provvisorio" ed il contribuente, ritenendo di non dovere il carico di imposte iscritto provvisoriamente a ruolo, ha adito le competenti commissioni, ed in sostanza nel fatto che la morosità in un caso é palese manifestazione d'insolvenza e nell'altro da sola non può essere considerata indice d'insolvenza. Senonché tali punti o profili di differenziazione non sono decisivi o rilevanti nell'indicato senso. Nonostante l'esistenza di qualche decisione giurisprudenziale in contrario, non é da ritenere che, ai fini della pronuncia del fallimento fiscale, l'iscrizione a ruolo del tributo debba essere definitiva e non possa anche essere provvisoria: il fatto che condiziona la richiesta e la pronuncia di fallimento, é rappresentato dall'iscrizione a ruolo a titolo definitivo o operata in via provvisoria a seguito di accertamento non definitivo, di tributi sui redditi derivanti dall'esercizio di imprese commerciali, e dal mancato pagamento di sei rate consecutive delle dette imposte. E non importa se l'iscrizione a ruolo sia definitiva o provvisoria, perché in ogni caso, dato che l'iscrizione sia legalmente avvenuta, l'Amministrazione finanziaria ha diritto di pretendere dal contribuente il pagamento dell'imposta e di perseguire la realizzazione della pretesa in sede di esecuzione individuale o concorsuale.
E del pari deve escludersi che la morosità ricorrente nei due casi non si presti ad essere univocamente considerata: nella specie, il motivo per cui il contribuente sia in mora nel pagamento dell'imposta non ha rilievo, e conta invece il fatto nella sua oggettività e materialità. E poi il riferimento all'insolvenza, nella speciale materia del fallimento fiscale, non ha ragione di essere giacché il presupposto oggettivo di detto fallimento é rappresentato dal ripetuto inadempimento, e non interessa se questo possa o non possa essere assunto come indice o sintomo di insolvenza.
4. - Per il fatto che, nella fase del procedimento che precede la dichiarazione di fallimento fiscale, non é dato all'imprenditore commerciale di eccepire e dimostrare di non essere debitore, non può ammettersi che, come ritiene invece il giudice a quo, le norme denunciate siano in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione.
E così pure non si può convenire con lo stesso giudice, che il tribunale fallimentare, nello stesso procedimento, non sia soggetto soltanto alla legge (e sia per ciò, con le norme denunciate, violato l'art. 101, comma secondo, della Costituzione), perché "il giudizio sull'esistenza del presupposto obiettivo per la dichiarazione di fallimento é affidato esclusivamente all'Intendente di finanza".
I due profili si presentano connessi in quanto attengono alle posizioni giuridiche del soggetto passivo e del giudice che sono, ancorché variamente, interessati alla vicenda processuale di cui si tratta.
Dalla loro congiunta considerazione emerge che nell'ipotesi di fallimento fiscale ex art. 261 e 262 del d.P.R. n. 645 del 1958, sia l'imprenditore commerciale che il tribunale vengono a trovarsi in particolari situazioni giuridiche soggettive perché, al posto dell'insolvenza quale presupposto oggettivo é necessario e sufficiente il sopraddetto inadempimento ed a questo (e non anche all'insolvenza) é rivolto e limitato l'accertamento da parte del tribunale.
Per ciò che all'imprenditore commerciale sia in tal caso negato di eccepire e dimostrare di non essere debitore, non c'é alcuna violazione dell'art. 24, comma secondo. Il diritto alla difesa ed all'assistenza professionale e tecnica in giudizio é adeguatamente assicurato, avendo qui l'interessato le stesse possibilità che spettano ad ogni altro imprenditore commerciale di cui sia chiesta la dichiarazione di fallimento, e potendole far valere negli stessi modi. Ed é giurisprudenza costante di questa Corte che é rispettata la disposizione di cui all'articolo 24, comma secondo, qualora la norma di legge ordinaria garantisca l'esercizio nel processo delle situazioni giuridiche quali emergono dalla legge sostanziale, e nel caso in esame, questa, in presenza di date condizioni, consente l'iscrizione a ruolo del tributo, in via provvisoria.
E così non sussiste nelle norme denunciate alcun contrasto con l'art. 101 della Costituzione. Il potere di decisione normalmente spettante all'organo giurisdizionale nel fallimento non subisce, nella specie, alcuna limitazione o compressione, ed in particolare non si ha, da parte dell'organo fallimentare, alcun assoggettamento alla volontà della pubblica amministrazione: il tribunale, in via esclusiva, é chiamato ad accertare ed accerta, in funzione della richiesta pronuncia di fallimento, l'esistenza in concreto dei presupposti del fallimento ed in particolare di quello obiettivo costituito dal ripetuto inadempimento.
Stante ciò, la questione di legittimità costituzionale de qua anche sotto gli indicati due profili si appalesa non fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità Costituzionale degli artt. 261 e 262 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (testo unico delle leggi sulle imposte dirette), sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, e 101 della Costituzione con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 1975.
Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 15 luglio 1975.