Sentenza n.30 del 1980
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SENTENZA N.30

ANNO 1980

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI  Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia in nome e per conto del Comitato promotore del referendum abrogativo degli artt. 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, ricorso depositato in Cancelleria il 31 gennaio 1979 ed iscritto al n. 3 del registro 1979, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell'ordinanza 24 maggio 1978 dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, che ha dichiarato non aver più corso le operazioni di cui alla richiesta di referendum popolare presentata il 12 luglio 1975, riguardante i suddetti articoli del codice penale.

Vista l'ordinanza n. 1 dell'8 gennaio 1979, con la quale questa Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione di cui sopra;

udito nell'udienza pubblica del 6 aprile 1979 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

uditi gli avvocati Corrado De Martini e Mauro Mellini per Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia.

Considerato in diritto

1. - Con il ricorso in epigrafe tre dei promotori del referendum per l'abrogazione degli artt. 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550,551,552,554 e 555 del codice penale, hanno, in rappresentanza dei sottoscrittori della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. I ricorrenti impugnano l'ordinanza con la quale quell'Ufficio, ex art. 39 della legge n. 352 del 1970, aveva disposto la cessazione delle operazioni connesse con detta richiesta. Con ordinanza n. 1 del 1979, la Corte ha ritenuto la concorrenza dei requisiti prescritti dal primo comma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953 perchè possa aversi conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Tale pronunzia è stata resa, tuttavia, in linea di prima e sommaria delibazione, riservato ogni definitivo giudizio circa l'ammissibilità ed il merito del ricorso.

Rimane, dunque, anzitutto da accertare definitivamente, in questa sede se il ricorso in esame sia ammissibile. Si assume dai ricorrenti che il conflitto riguardi la sfera di applicazione dell'istituto del referendum configurato dal testo costituzionale, ed insorga tra la frazione del corpo elettorale, la quale ha nel nostro caso promosso il referendum e L'Ufficio centrale che ha, dal canto suo, disposto la cessazione delle relative operazioni; si deduce infatti che detto organo ha con l'ordinanza impugnata invaso la sfera garantita ai promotori del referendum, e leso il loro interesse, costituzionalmente protetto, allo svolgimento della consultazione popolare; si chiede pertanto alla Corte di dichiarare che all'Ufficio centrale non e attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie, e di annullare in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. La Corte ritiene di doversi fermare a considerare il prospettato conflitto sotto il profilo afferente al possibile oggetto della controversia.

2. - Per prima cosa, giova richiamare in quanto esso viene in rilievo nella specie, com'é di seguito spiegato il sistema delle disposizioni emanate con la legge 25 maggio 1970, n. 352 (< Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo >). Ai sensi dell'art. 32 della legge citata, l'Ufficio centrale esamina tutte le richieste referendarie < allo scopo di accertare che siano conformi alle norme di legge >: cioè alle norme, poste con legge ordinaria, che governano la procedura conseguente alla iniziativa del referendum abrogativo; il successivo giudizio sull'ammissibilità è invece riservato alla cognizione di questa Corte (ai sensi dell'art. 2l. cost. 11 marzo 1 953, n. 1 , e dell'art. 33 della legge n. 352), ed esige che la richiesta referendaria, una volta dichiarata legittima dall'Ufficio centrale, sia esaminata alla stregua della Costituzione, ed in particolare della norma (art. 75, comma secondo, Cost.), la quale individua le categorie di leggi, o di atti aventi forza di legge, eccettuate dal regime dell'abrogazione popolare. Nel citato art. 32 sono poi puntualmente previste le attribuzioni dell'Ufficio centrale nel corso della procedura: esso si pronunzia, in ogni caso, con ordinanza, comunicata e notificata a norma dell'art. 13 della stessa legge n. 352. I presentatori della richiesta referendaria, o i delegati o i rappresentanti dei promotori (cfr. artt. 9, comma primo, 19, comma secondo, della legge n. 352) hanno facoltà di produrre memorie o deduzioni. Dopo di che, l'Ufficio centrale decide in via definitiva, ex art. 32, ultimo comma, sulla legittimità di tutte le richieste depositate.

3. - Si colloca nel quadro della disciplina sopra descritta anche il potere, attribuito all'Ufficio centrale ex art. 39 della legge n. 352. < Se prima della data di svolgimento del referendum >- dispone testualmente il citato articolo-< la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di esse, cui il referendum si riferisce, siano state abrogate, l'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione dichiara che le operazioni relative non hanno più corso >. Di questa disposizione, com'é detto in narrativa, la Corte ha con sentenza n. 68 del 1978, e nei limiti ivi precisati dichiarato l'illegittimità costituzionale. Nella stessa pronunzia sono enunciati i criteri che qui soccorrono all'Ufficio centrale nel decidere, ma che il legislatore aveva omesso di adottare. Le operazioni referendarie devono essere in ogni caso fatte cessare ha in proposito avvertito la Corte quando le norme, alle quali esse si riferiscono, siano state rimosse col solo mezzo tecnico dell'abrogazione espressa. Dove l'abrogazione sia invece accompagnata da nuova disciplina, sostitutiva delle norme inizialmente contemplate dalla richiesta referendaria, l'Ufficio centrale decide diversamente, secondo i casi: deve disporre la cessazione delle operazioni, se accerta che la più recente disciplina abbia modificato i principi essenziali dell'intero atto legislativo (comunque, dell'organico corpo normativo), ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare; altrimenti, esso deve disporre che il referendum abbia luogo, trasferendo tuttavia il quesito, sul quale sono chiamati a pronunziarsi gli elettori, dalle norme poste in precedenza alle altre, che le hanno sostituite (ma non ne hanno, qui, modificato principi ispiratori o singoli precetti). In quest'ultima evenienza, è stato infatti ritenuto, il successivo atto del legislatore produce pur sempre il caratteristico effetto dell'abrogazione: non produce, pero, l'ulteriore effetto, che vulnererebbe il disposto dell'art. 75 Cost di impedire lo svolgimento della consultazione popolare già promossa con riguardo alla legislazione preesistente.

Ora, senza una simile pronunzia, il disposto dell'art. 39 avrebbe indistintamente in ogni sopravvenienza del fenomeno abrogativo da esso considerato implicato una corrispondente compressione della sfera di attuazione di un fondamentale istituto del nostro ordinamento, qual è il referendum. La Corte ha stabilito come il congegno di detta norma debba operare, e ne ha rimesso l'applicazione al motivato apprezzamento dell'Ufficio centrale. Ciò é bene ricordare proprio al fine di assicurare il rispetto della volontà manifestata dalla frazione del corpo elettorale che ha promosso la consultazione referendaria, e in tutto l'ambito in cui le attribuzioni a questa riconosciute risultano costituzionalmente protette. Ad analoga esigenza risponde, poi, il requisito, enucleato con la citata decisione dal sistema della legge n. 352, che l'Ufficio centrale decida ex art. 39 solo dopo aver sentito chi avanti ad esso rappresenta i promotori del referendum: per questa via è estesa al nostro caso la garanzia procedurale, che troviamo sancita nell'art. 32 della stessa legge.

Le considerazioni testè esposte trovano, ancora, accoglimento e sviluppo nella sentenza n. 69 del 1978, che dirime un precedente conflitto di attribuzione, sollevato dai promotori di altro referendum abrogativo nei confronti dell'Ufficio centrale. Il potere che l'art. 39 configura è stato affermato in quel giudizio spetta all'Ufficio centrale, se ed in quanto esso abbia previamente accertato, secondo la sentenza n. 68 del 1978, che ricorrono gli estremi per disporre la cessazione delle operazioni in corso, ed abbia escluso per converso che il referendum vada trasferito dalle norme preesistenti alle nuove. Esaurite le indagini ad esso in proposito riservate, l'Ufficio centrale è d'altra parte investito del potere, come previsto dalla legge, in piena conformità dei principi costituzionali. Il che conferma che questa sua attribuzione, così configurata, sorge necessariamente entro i limiti posti a salvaguardia della sfera riconosciuta ai promotori del referendum.

4. - Delle precedenti sentenze della Corte occorre tener conto nell'esame della specie. I ricorrenti lamentano infatti che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato al caso attuale i canoni ermeneutici in esse indicati. L'organo decidente, si afferma, ha ravvisato una sostanziale diversità fra i principi che ispirano la disciplina dell'aborto di donna consenziente posta dal codice penale, per la quale è stato richiesto il referendum, ed il successivo regime dell'interruzione volontaria della gravidanza, introdotto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (< Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza >): laddove, si soggiunge, esso avrebbe dovuto ritenere il contrario. L'art. 22 della legge citata, si osserva poi, dispone si, per un verso, al comma primo, l'abrogazione espressa dell'intero titolo X del codice penale, ma per l'altro, all'ultimo comma, mantiene ancora in vigore l'art. 546 (aborto di donna consenziente) nonché l'art. 549, secondo comma, (morte o lesione della donna) del codice penale, con riguardo ai fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della stessa legge n. 194. L'Ufficio centrale sarebbe quindi, anche qui, incorso in errore, ritenendo che la nuova legge abbia, nei confronti di dette norme del codice, dispiegato quell'effetto abrogativo, al quale l'ulteriore effetto impeditivo della consultazione referendaria è logicamente subordinato.

All'interpretazione denunziata come erronea sarebbe infine conseguita la decisione che, col precludere il ricorso alle urne, si assume abbia invaso la sfera, e leso l'interesse dei ricorrenti.

Ma con tutto ciò non si contesta anzi, si presuppone che l'Ufficio centrale abbia adempiuto alle indagini, dalle quali ogni sua decisione ex art. 39 deve essere preceduta, ed abbia motivato in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. Non si contesta, nemmeno, che prima di decidere esso abbia sentito i promotori del referendum. Pacificamente, dunque, sussistono i presupposti, in presenza dei quali l'attribuzione del potere qui considerato si concreta, in capo all'Ufficio centrale, precisamente come esige la sentenza n. 69 del 1978. L'attribuzione ha il suo pieno titolo giustificativo proprio in quel che risulta dalle stesse deduzioni dei ricorrenti: l'Ufficio centrale ha valutato la disciplina sopravvenuta in rapporto alle norme che formavano oggetto della richiesta di referendum; siffatta indagine si deve aggiungere è evidentemente servita a stabilire non soltanto se fra l'una e l'altra normativa vi fosse corrispondenza di principi ispiratori, ma, anche e in primo luogo se ricorresse l'ipotesi dell'abrogazione configurata dall'art. 39, e con quali effetti temporali.

Così atteggiandosi la specie, va allora escluso che la controversia prospettata alla Corte verta sulla titolarità sull'appartenenza all'Ufficio centrale, appunto del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie; potere che peraltro, come si è detto, ha sicuro fondamento nella Costituzione.

Resta il fatto che i ricorrenti denunziano comunque l'invasione della propria sfera, e censurano, a questo riguardo, il modo come l'Ufficio centrale avrebbe deciso. Ma vale in proposito un duplice e concorrente ordine di osservazioni.

Da un lato, siamo di fronte a un potere che si è nella specie esplicato in base ai criteri appositamente stabiliti dalla Corte per tutelare la sfera dei promotori: e che pertanto, ai fini del presente giudizio, questa stessa sfera non può invadere, o ledere altrimenti.

D'altro lato, entro la sfera delle proprie attribuzioni, l'Ufficio centrale è investito di un potere decisorio: e così decide, anche nel nostro caso, con le garanzie procedurali e nelle forme, che si connettono con la sua qualifica di organo decidente. Ad esso, in quanto tale, è dunque garantita una funzione, le cui modalità di esercizio non spetta alla Corte sindacare.

Una volta che, come nella specie, si radichi il potere, riconosciuto all'Ufficio centrale, di decidere ex art. 39, la decisione nel merito, che a detto organo è riservata in via esclusiva e definitiva, non può essere censurata in questa sede. Né si può trascurare che nella specifica materia di cui ci occupiamo vige la distinzione, rilevata anche in altre pronunzie (sentenze n. 251 del 1975 e 16 del 1978), fra i compiti, rispettivamente attribuiti alla Corte e all'Ufficio centrale, di accertare la conformità delle richieste referendarie, nell'un caso ad un parametro costituzionale, nell'altro alle norme della legge ordinaria. Ora, anche le indagini affidate all'Ufficio centrale in sede di applicazione dell'art. 39 involgono come necessaria operazione dell'interprete, retta dai criteri sopra visti sia il coordinamento sia la valutazione comparativa di norme, che si succedono nel tempo, sempre sul piano della legge ordinaria e delle fonti normative a questa equiparate: tale, pero, non è la sfera in cui la Corte è abilitata ad intervenire; essa è l'altra, autonoma e particolare, del controllo di costituzionalità, che si esercita col giudizio di ammissibilità, ed è la sola, del resto, riservata alla Corte secondo il vigente ordinamento del referendum.

La conclusione raggiunta vale a maggior ragione anche alla luce di precedenti pronunzie (sentenza n. 289 del 1974) se si voglia ritenere che il presente giudizio sia stato promosso attribuendo all'Ufficio centrale natura di organo giurisdizionale in senso stretto, con le conseguenze che scaturirebbero da una simile prospettazione del conflitto. Difetta comunque, per le ragioni già dette, la materia propria di un conflitto di attribuzione, di cui la Corte possa conoscere: con il che resta assorbito ogni altro rilievo in ordine all'ammissibilità del ricorso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/03/80.

Leonetto AMADEI – Edoardo  VOLTERRA – Guido  ASTUTI – Michele  ROSSANO – Antonino  DE STEFANO – Leopoldo  ELIA – Guglielmo  ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto  BUCCIARELLI DUCCI – Alberto  MALAGUGINI – Livio  PALADIN – Arnaldo  MACCARONE – Antonio  LA PERGOLA – Virgilio  ANDRIOLI

Giovanni  VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 25/03/80.