Sentenza n.121 del 1980
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SENTENZA N.121

ANNO 1980

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

   composta dai signori giudici

   Avv. Leonetto AMADEI  Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93 e 102 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (testo unico delle leggi per la composizione e la elezione delle amministrazioni comunali), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 15 marzo 1975 dal pretore di San Sosti nel procedimento penale a carico di Madorno Pietro, iscritta al n. 203 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 174 del 2 luglio 1975;

2) n. 2 ordinanze emesse il 23 aprile 1976 dal pretore di Valentano nei procedimenti penali a carico di Sega Sandro e Mascitti Gino, iscritte ai nn. 526 e 527 del registro ordinanze 1976 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 253 del 22 settembre 1976;

3) ordinanza emessa il 24 febbraio 1977 dal pretore di Salò nel procedimento penale a carico di Roscia Luigi ed altri, iscritta al n. 175 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 141 del 25 maggio 1977;

4) ordinanza emessa il 27 maggio 1977 dal pretore di Valentano nel procedimento penale a carico di Pasqualini Romolo, iscritta al n. 342 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 258 del 21 settembre 1977;

5) ordinanza emessa il 27 maggio 1977 dal pretore di Cuneo nel procedimento penale a carico di Cavallera Francesco, iscritta al n. 455 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 320 del 23 novembre 1977.

Visti gli atti di costituzione di Giuliano Antonio ed altri (parti civili nel procedimento penale a carico di Madorno Pietro) nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 19 dicembre 1979 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

udito l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - E' opportuno esaminare per prima la questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 102, ultimo comma, del t.u. approvato con d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, così come è posta nelle tre ordinanze del pretore di Valentano ed in quella del pretore di Salo: tale ordine di precedenza si giustifica per il carattere di novità della questione rispetto all'altra pur concernente la stessa normativa (e a fronte del medesimo parametro costituzionale: art. 3, primo comma, della Costituzione), giacché la violazione del principio di eguaglianza non viene più prospettata come contrasto diretto tra norma ordinaria e norma costituzionale, e nei termini che avevano già condotto alla sua reiezione da parte di questa Corte, ma è ravvisata in una situazione lesiva del principio, provocata dal sopravvenire della disciplina contenuta nella legge 27 dicembre 1973, n. 933. Con l'articolo unico di questa legge era abrogato l'ultimo comma dell'art. 113 del t.u. delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati, approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361: comma che (disponendo per i reati elettorali previsti nel testo unico il divieto di applicare i benefici della sospensione della esecuzione della condanna e della non menzione nel certificato del casellario giudiziale) conteneva una norma anche formalmente identica a quella dell'art. 102, ultimo comma, del t.u. n. 570 del 1960.

La questione è fondata.

2. - Come è noto, l'istituto della sospensione condizionale della pena, o meglio della sua esecuzione, fu introdotto in Italia con la legge 26 giugno 1904, n. 267 (< legge sulla condanna condizionale >), in cui si prevedevano per la concessione del beneficio condizioni molto più restrittive di quelle stabilite attualmente (tra l'altro, la sospensione non era consentita se la pena detentiva irrogata oltrepassava i sei mesi). Dopo l'entrata in vigore di questa legge ebbero luogo due elezioni politiche generali (nel 1904 e nel l909); e soltanto nel corso della discussione nella Camera dei deputati del progetto per la riforma della legge elettorale politica (divenuta poi legge 30 giugno 1912, n. 665) fu approvato un art. 113 bis, con il quale si escludeva l'applicabilità della legge n. 267 del 1904 ai reati elettorali.

Tale disciplina più rigorosa non era contenuta nel progetto governativo, ma scaturì dal dibattito in Commissione e fu proposta all'Assemblea dal relatore, il quale sottolineò soprattutto questo motivo: la sospensione dell'esecuzione della pena è prevista dal legislatore non solo per la lievità del reato commesso, ma perchè si presuppone che il comportamento del reo sia pur sempre circondato dalla riprovazione dei cittadini; se, < per un pervertimento della pubblica opinione > come, a suo avviso, accadeva per i reati elettorali la riprovazione sociale fa difetto e per di più non si procede all'esecuzione della pena, viene meno del tutto l'efficacia pratica delle disposizioni penali. Si osservava poi che gli intervalli piuttosto lunghi tra l'una e l'altra consultazione elettorale avrebbero impedito di mettere alla prova il ravvedimento del condannato cui fosse concesso il beneficio della sospensione.

In assemblea il testo proposto dal relatore fu vivamente contrastato dai promotori della legge n. 267 del 1904, secondo i quali la ratio di questa legge impediva di distinguere tra reato e reato, trattandosi, oltretutto, di pene per reati non gravi; né si aggiungeva vale l'argomento della intermittenza delle consultazioni elettorali, perchè la legge del 1904 prevede la revoca del beneficio non soltanto nella ipotesi di recidiva specifica ma anche in quella di recidiva generica. Peraltro il relatore, col pieno appoggio del Presidente del Consiglio e Ministro dell'interno del tempo, confermò gli argomenti già esposti, sottolineando che in Italia il condannato per frodi elettorali nulla perdeva della pubblica estimazione; aggiungeva che erano da prevedersi fortissime pressioni sui giudici perchè concedessero il beneficio, anche perchè, secondo altri deputati, i rei sarebbero stati spesso delinquenti primari e avrebbero violato la legge penale spinti dalla passione politica, particolarmente viva in periodo di elezioni.

Secondo il relatore, infine, non bisognava sottovalutare il pericolo della commissione di un maggior numero di reati a seguito dell'estensione del suffragio prevista dalla legge allora in esame, comportante l'allargamento dell'elettorato attivo a milioni di cittadini. Il testo proposto dal relatore fu approvato a maggioranza nella seduta pomeridiana del 24 maggio 1912. La nuova disciplina era senza discussione adottata anche dal Senato, al quale la relazione governativa di accompagnamento al testo approvato dalla Camera dei deputati la segnalava come < remora > efficace alla commissione di reati elettorali. La norma restrittiva era poi contenuta nelle seguenti disposizioni, con ulteriori modificazioni formali (riferimento alla disciplina della condizionale nel c.p.p. del 1913, anziché nella legge del 1904): u.c. art. 128 legge 30 giugno 1912, n. 666 e t.u. 26 giugno 1913, n. 821; u.c. art. 121 t.u. 2 settembre 1919, n. 1495; u.c. art. 119 t.u. 13 dicembre 1923, n. 2694; u.c. art. 118 t.u. 17 gennaio 1926, n. 118 e u.c. art. 118 t.u. 2 settembre 1928, n. 1993; così il divieto, passando senza riesame nei testi unici succedutisi per quasi quattro lustri, finì per acquistare un carattere tralaticio.

Di questo argomento si tornò poi a discutere nella Consulta nazionale. Già nella relazione della Commissione degli esperti designati dai partiti politici al Ministero per la Costituente per elaborare la legge elettorale si sottolineava la severa repressione proposta per qualsiasi attentato alla libertà dell'elettore e all'ordine delle elezioni, anche con arresto immediato: < ma sarà più efficace si soggiungeva la certezza della rapidità del procedimento e della espiazione> (Atti, pag. 18). Era quindi proposto un aggiornamento delle norme penali contenute nel t.u. del 1919, con pene inasprite, tenuto conto della esigenza di maggiori garanzie richieste per la elezione di un'assemblea che doveva adottare la nuova Carta costituzionale. L'art. 72 del pro getto, nel suo ultimo comma, riprendeva il divieto di applicare la sospensione della esecuzione della condanna, in riferimento alla normativa dei codici penale e di procedura penale del 1930, con una formulazione accolta integralmente nell'art. 78, ultimo comma, del d.lgs.lgt. 10 marzo 1946, n. 74, recante norme per la elezione dei deputati all'Assemblea costituente.

Come si è detto, in sede di discussione nell'assemblea plenaria della Consulta nazionale (21-22 febbraio 1946), il tema del divieto della sospensione condizionale della pena per i reati elettorali fu riesaminato perchè un consultore, con la presentazione di un emendamento soppressivo, tentò di far eliminare l'ultimo comma dell'art. 72 del progetto. In particolare si affermava che la norma costituiva una deroga ingiustificata al diritto penale comune, trattandosi di reati molto lievi, dal momento che alla sospensione non poteva farsi luogo per condanne a pena detentiva superiore ad un anno; e si soggiungeva che nemmeno nelle leggi tributarie (compresa la legge 7 gennaio 1929, n. 4) si era adottata una disciplina tanto rigorosa. Ma l'emendamento soppressivo incontrava una vittoriosa resistenza, motivata, oltrechè dall'obbiezione più generale che non si poteva senza pericolo rendere incerta l'esecuzione della pena per i reati elettorali, dal richiamo alle difficili condizioni dell'ordine pubblico in Italia nel periodo succeduto alla seconda guerra mondiale. Sicché, se è inesatto far risalire alla legislazione di allora un divieto, venuto in essere già nel 1912, è pur vero che esso trovò una giustificazione specifica nella turbata situazione del paese negli anni 1944-1946.

Non avendo la nuova legge per la elezione della Camera dei deputati (legge 20 gennaio 1948, n. 6) apportato alcuna modifica su questo punto, il divieto di concedere il beneficio passò prima nell'art. 88, ultimo comma, del testo unico, approvato con d.P.R. 5 febbraio 1948, n. 26 e poi nell'art. 113, ultimo comma, del testo unico, approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, applicabile anche alle elezioni per il Senato della Repubblica.

Con sentenza n. 26 del 1970, questa Corte dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 113, ultimo comma, sollevata per contrasto con l'articolo 3 della Costituzione. La Corte richiamava allora la motivazione della sentenza n. 48 del 1962 (che aveva dichiarato non fondata la medesima questione a proposito dell'art. 102, ultimo comma, del testo unico 16 maggio 1960, n. 570). Nella pronuncia del 1962 si poneva tra l'altro in rilievo: a) la fondamentale importanza della materia elettorale in un regime democratico; b) la efficacia immediata da riconoscersi per i reati elettorali alla pena e alle misure che alla pena conseguono; c) la possibilità per il legislatore di ricondurre i limiti per l'applicazione dell'art. 163 c.p. oltrechè ad una valutazione della gravità dei reati mediante il criterio quantitativo della pena, anche ad una differenziazione fondata sulla diversa qualità dei reati stessi.

3. - Il divieto di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena per i reati elettorali era stato esteso ben presto alla normativa per le elezioni amministrative con gli artt. 2 (art. 110) della legge 19 giugno 1913, n. 640 e 115 del testo unico, approvato con r.d. 4 febbraio 1915, n. 148; ripreso nell'art. 83, ultimo comma, del d.lgs.lgt. 7 gennaio 1946, n. 1, recante norme per la ricostituzione delle Amministrazioni comunali e provinciali su base elettiva, passò poi nell'art. 95, ultimo comma, del testo unico, approvato con d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203 e finalmente nell'art. 102, ultimo comma, del testo unico n. 570 del 1960. Con la sentenza n. 48 del 1962 (v. inoltre le ordinanze n. 8 e n. 85 del 1964), questa Corte ha dichiarato non fondata, per i motivi di sopra accennati, la questione di legittimità sollevata a proposito di quest'ultima disposizione per asserito contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

4. - Va inoltre ricordato un settore di grande importanza nella legislazione elettorale costituito dalla disciplina del l'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali. Com'é noto, fino al secondo dopoguerra tale disciplina era contenuta nei testi unici che regolavano il procedimento per le elezioni alla Camera dei deputati ed ai consigli delle amministrazioni locali. Perciò il divieto di concedere il beneficio della condizionale comprendeva, nella formula < reati elettorali >, anche quelli relativi alla regolare formazione delle liste. Con la legge 7 ottobre 1947, n. 1058, l'Assemblea costituente separò la disciplina dell'elettorato attivo e delle liste elettorali dalla normativa sul procedimento, rendendola altresì comune per ogni tipo di elezione. Di questa vicenda, ai fini del presente giudizio, vanno rilevati due circostanze: era mantenuto il divieto di concedere il beneficio della condizionale per i reati previsti nello stesso testo, ma limitandolo ai < delitti dolosi > (art. 50 u.c., ora art. 60 u.c. t.u. approvato con d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223); in secondo luogo, anche questa volta si ripeteva il tentativo di sopprimere la norma restrittiva (cfr. Atti A. C., 13 settembre 1947, pagg. 171-172), adducendosi in favore della proposta, oltre a motivi già noti, l'argomento che il divieto, < assolutamente erroneo ed ingiusto >, contrastava con il principio informatore della normativa sulla condizionale, secondo cui si deve tener conto non della qualità del delitto, ma della personalità del delinquente.

Il tentativo di tornare al diritto comune fu respinto con una ragione di carattere generale (importanza della regolare formazione delle liste per lo svolgimento delle elezioni) e con un motivo attinente al periodo iniziale di funzionamento delle nuove istituzioni, in cui era necessario educare alla osservanza delle regole democratiche le coscienze dei cittadini.

5. - Il 21 dicembre 1972 veniva presentata alla Camera dei deputati una proposta di legge d'iniziativa parlamentare, che mirava ad attenuare il rigore dell'art. 113, u.c., del testo unico 30 marzo 1957, n. 361, escludendo dalla non applicabilità dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale < i casi di particolare lievità e di età giovanile del colpevole >. Nella relazione la norma era ritenuta < del tutto ingiusta, inumana ed anticostituzionale >, in quanto impediva al giudice di concedere, in tutti i casi, anche i più lievi, i benefici predetti, con la conseguenza automatica della interdizione dai pubblici uffici.

La I Commissione permanente della Camera (vedi per la relazione atto n. 1413-A della VI legislatura) ritenne che le < dure deroghe > al diritto comune fossero collegate con le esigenze della ripresa della vita democratica nel nostro paese, e propose unanime all'Assemblea di deliberare l'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 113. La Camera approvò senza discussione, consenziente il rappresentante del governo (Atti Camera, 12 aprile 1973, pagg. 6940-6941).

Al Senato la I Commissione permanente condivise all'unanimità il testo approvato dalla Camera ed il suo motivo ispiratore, ritenendo la deroga al diritto comune < manifestamente ingiusta ed inumana > anche in rapporto al tipo di reato che ha le sue radici nell'< inevitabile clima creato dalle tensioni politiche > (Atto n. 1086-A della VI legislatura). L'Assemblea approvò senza discussione il disegno di legge (Atti Senato, 20 dicembre 1973, pagg. 11826-11827). Si pervenne così alla pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 21 del 23 gennaio 1974, della legge 27 dicembre 1973, n. 933.

6. - Già prima, pero, la coerenza dell'ordinamento in tema di divieto di applicazione dei noti benefici ai reati elettorali, lasciava per qualche aspetto a desiderare: infatti, per le trasgressioni sanzionate penalmente ai precetti della legge 4 aprile 1956, n. 212 (Norme per la disciplina della propaganda elettorale), il divieto al giudice non era affatto previsto.

Ma è con la legge n. 933 del 1973 che la incoerenza dell'ordinamento su questo punto assume caratteri e dimensioni tali da determinare un sicuro contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost. dell'art. 102, u.c., del t.u. 16 maggio 1960, n. 570.

Ammesso infatti, con la giurisprudenza di questa Corte, che il principio democratico (artt. 1, 48, 55, 56, 75, 122 Cost.) conferisca alla materia elettorale tale rilievo da giustificare la deroga al diritto penale comune in tema di benefici applicabili dal giudice, è evidente che la ulteriore differenziazione interna alla materia, nei termini in cui è determinata dallo jus superveniens del 1973, risulta del tutto irrazionale ed arbitraria.

Ove infatti si volesse fare ricorso, nell'ambito del diritto elettorale, ad una ratio distinguendi con diversi gradi di rigore per reati commessi in relazione ai procedimenti elettivi, e chiaro che il principio democratico potrebbe se mai comportare, considerata la maggior importanza da questo punto di vista delle elezioni politiche nazionali ed europee, una maggior severità proprio per le violazioni delle norme penali previste per queste elezioni.

A tale argomento non può opporsi la sent. 45 del 1967 di questa Corte che dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 86 del d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203 e 93 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, sulle elezioni degli organi delle Amministrazioni comunali, denunziati per violazione dell'art. 3, primo comma, Cost. in quanto, per effetto dei loro precetti, chi sottoscrive più di una dichiarazione di presentazione di candidatura per le elezioni comunali è punibile con pena edittale più grave (reclusione fino a due anni e multa fino a lire 20.000) di chi sottoscrive più di una lista di candidati per le elezioni politiche (reclusione fino a tre mesi ovvero multa sino a lire 10.000: art. 106 d.P.R. n. 361 del l 957). In realtà, la considerazione di fondo, contenuta in quella pronuncia (< le elezioni amministrative vengono realizzate in ambienti, circostanze, situazioni locali che ne caratterizzano la preparazione e l'andamento >), potrebbe in astratto valere come nota distintiva (o insieme di note distintive) tali da costituire motivo attendibile di differenziazione. Ma la questione allora decisa riguardava la < misura > di sanzioni penali, il < quantum > di alcune pene, rispetto alle quali si è espresso invano (finora) un auspicio di armonizzazione da parte del legislatore. La misura delle pene, come è noto, è materia che, salvo casi-limite, non può non essere riservata alla discrezionalità del potere legislativo. Del resto altro è la disciplina di una situazione puntuale, altro la applicabilità o meno di istituti di diritto comune (quali la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena o la non menzione nel certificato del casellario giudiziale) a complessi di reati, distinti per l'afferire al procedimento elettorale politico o a quello amministrativo.

Inoltre, anche se non è questa una considerazione decisiva, sul piano storico la norma più rigorosa in tema di elezioni amministrative è nata come un'estensione o un riflesso di quella originariamente adottata per le elezioni della Camera dei deputati.

La riprova che lo jus superveniens del 1973 ha prodotto intollerabili disparità di trattamento di situazioni quantomeno analoghe emerge, per il giuoco dei rinvii tra diversi corpi di norme, a proposito di elezioni regionali. Come è noto, l art. 1, u.c., della legge 17 febbraio 1968, n. 108, recante norme per la elezione dei consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario, dispone che si osservano, salvo quanto stabilito dalla legge stessa e per quanto applicabili, le disposizioni del d.P.R. n. 570 del 1960, nelle parti riguardanti i consigli dei comuni con oltre 5.000 abitanti. Ciò comporta che per la disciplina penale valga in toto il capo IX di questo testo unico, e dunque anche il divieto contenuto nell'art. 102, ultimo comma. Al contrario, norme statali e norme regionali in vigore per le elezioni degli organi rappresentativi delle Regioni a statuto speciale rinviano in varia guisa alla disciplina contenuta nel tit. VII del testo unico n. 361 del 1957 e perciò, dopo la legge n. 933 del 1973, ad un art. 113, il cui ultimo comma risulta abrogato (v. per la Val d'Aosta art. 2, primo comma, legge 5 agosto 1962, n. 1257; per il Trentino- Alto Adige art. 69, legge reg. 20 agosto 1952, n. 24, art. 72 nella numerazione che risulta in seguito alla legge reg. 18 giugno 1964, n. 23; per il Friuli-Venezia Giulia art. 49 legge reg. 27 marzo 1968, n. 20; per la Sardegna art. 79o legge reg. 23 marzo 1961, n. 4; per la Sicilia art. 67 legge reg. 20 marzo 1951, n. 29).

A questa ingiustificata disparità di trattamento, secondo che si partecipi alle elezioni per le regioni a statuto ordinario o per le regioni a statuto speciale, si aggiungono, sempre per effetto di multipli rinvii (tra leggi statali e tra leggi regionali e leggi statali), ulteriori differenziazioni prive di ogni razionale fondamento. Come è noto, secondo l'art. 51, primo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), le disposizioni penali, contenute nel titolo VII del testo unico per la elezione della Camera dei deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della legge sui referendum; quindi, lo jus superveniens del 1973, abrogando l'ultimo comma dell'art. 113, reagisce senza dubbio in tema di disciplina dei reati commessi in occasione di referendum, ripristinando le regole del diritto comune.

Ma le leggi regionali sui referendum dispongono che per la tutela penale dei loro precetti si applichi l'art. 51 della legge statale sui referendum nazionali (si veda, ad esempio, per il Piemonte l'art. 39 della legge reg. 16 gennaio 1973, n. 4; per il Veneto l'art. 30 della legge regionale 12 gennaio 1973, n. 1 e per l'Emilia-Romagna l'art. 22 della legge regionale 13 maggio 1980, n. 34). Ciò fa sì che, nell'ambito di una stessa regione a statuto ordinario, per i reati elettorali commessi in occasione del rinnovo del Consiglio regionale valga ancora il divieto di applicare il beneficio della condizionale mentre per i reati occasionati da referendum regionali, il giudice possa disporre la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena.

E va pure ricordato che il divieto di applicare questi benefici non è stato introdotto nella disciplina per la elezione dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo (artt. 48 e 49 della legge 24 gennaio 1979, n. 18).

Questa mancanza di coordinamento legislativo, derivante dalla legge n. 933 del 1973, è certo involontaria e dovuta alla complessità e farraginosità della normativa vigente: nondimeno essa dà luogo ad un grave difetto di congruità tra il motivo adducibile per la deroga al diritto comune e la disciplina dettata nella materia dei reati elettorali.

Non rileva peraltro accertare in questa sede se la legge del 1973 sia ispirata ad un giudizio sottostante che ritiene il motivo della deroga semplicemente anacronistico (rispetto al periodo postbellico) o addirittura incostituzionale: è sufficiente constatare la contraddizione logica prodotta dalla volontà di ripristinare il diritto comune in ordine all'applicabilità dei ridetti benefici ai reati commessi in occasione di elezioni politiche, di referendum statali, di elezioni agli organi rappresentativi delle regioni a statuto speciale e di referendum regionali, ed il mantenimento della deroga per le elezioni degli organi rappresentativi dei comuni, delle province e delle regioni a statuto ordinario.

Si potrebbe osservare a questo punto che il legislatore del 1973 abrogò il divieto quando il limite massimo della pena detentiva per la concessione del beneficio ex art. 163 c.p., era fissato in un anno; e che pertanto i reati elettorali per i quali si consentiva la concessione del beneficio erano relativamente lievi. Ma, avendo poi l'art. 11 del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 (conv. con legge 7 giugno 1974, n. 220) portato a due anni il limite predetto, i reati elettorali per cui potrebbe sospendersi l'esecuzione della pena non mancherebbero di una certa gravita. Sicché, si potrebbe rilevare, la deroga fu fortemente voluta e mantenuta quando le condizioni per la concessione del beneficio erano assai restrittive, mentre la deroga stessa verrebbe poi meno integralmente allorché il limite della pena detentiva è stato notevolmente ampliato.

Ma è agevole rispondere che intanto il novellato art. 163 c.p. è applicabile fin dal 1974 ai reati commessi in occasione di elezioni politiche: e che più l'istituto della sospensione condizionale si dilata, più appare grave la deroga ad un diritto comune divenuto ancor più benigno. Ed in definitiva spetterà sempre al legislatore valutare le conseguenze derivanti dal sommarsi della modifica della disciplina elettorale introdotta dalla legge n. 933 del 1973 con la riforma del 1974 in tema di sospensione condizionale della pena.

Infine è da ricordare che l'art. 423, primo comma, del c.p.p. del 1913 condizionava espressamente la concessione della condizionale ad un < salvo che sia altrimenti stabilito in leggi speciali >; mentre il testo dell'art. 163 c.p., nella versione originaria ed in quella ora in vigore, non contiene questa riserva, quasi a sottolineare, più che la sua inutilità, stante il carattere di legge ordinaria della norma del codice, la propensione dell'ordinamento ad esaurire il giudizio di gravità e di qualità dei reati nella comminazione e commisurazione delle pene, anche per ciò che concerne l'applicabilità del beneficio.

Si deve inoltre chiarire che, malgrado dubbi espressi fin dalla lontana discussione parlamentare del 1912 e malgrado qualche isolata pronuncia giurisprudenziale del periodo precedente la guerra 1915-1918, la sospensione dell'esecuzione della condanna ha per oggetto solamente l'espiazione della pena inflitta e non si estende né influisce in ordine alle pene accessorie (art. 586 c.p.p. del 1913; art. 166 c.p. del 1930); pertanto la concessione del beneficio ex art. 163 c.p. non tocca né l'interdizione dai pubblici uffici nè la sospensione del diritto elettorale quando conseguono alla condanna per reati previsti dalle leggi sulle elezioni politiche o amministrative.

Si è pure obbiettato, contro l'eliminazione della deroga restrittiva, che essa sarebbe in contraddizione con quelle norme che impongono il giudizio direttissimo con o senza l'arresto in flagranza (es. artt. 89, 90 e 91 del testo unico n. 570 del 1960 per le elezioni dei Consigli comunali). Ma è sufficiente rammentare che vigono numerose leggi speciali le quali impongono il giudizio direttissimo (es . art. 21 legge 8 febbraio 1948, n. 47, disposizioni sulla stampa) senza escludere l'applicabilità della sospensione condizionale della pena: in questi casi il legislatore ha sicuramente ritenuto che la eventuale concessione del beneficio non vanificasse le finalità del procedimento direttissimo.

Dopo lo jus superveniens della legge n. 933 del 1973, non vi sono, dunque, valide ragioni che giustifichino il permanere, in tema di sospensione condizionale della pena e di non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, di un trattamento più severo per i reati commessi in occasione di elezioni per i consigli dei comuni, delle province e delle regioni a statuto ordinario.

7. - Il giudizio di fondatezza, adottato sotto il profilo ora svolto, comporta l'assorbimento della questione sollevata dal pretore di San Sosti per contrasto dell'art. 102, u.c., del testo unico n. 570 del 1960, con l'art. 3, primo comma, Cost., in quanto il principio di eguaglianza sarebbe violato per il più severo trattamento disposto per i reati elettorali rispetto a quelli comuni.

8. - Assorbita risulta pure la questione di legittimità costituzionale dell'art. 102, ultimo comma, del testo unico n. 570 del 1960, sollevata dal pretore di Cuneo, per contrasto con l'art. 27, terzo comma, Cost. in quanto la disciplina ivi disposta impedirebbe di sottrarre il delinquente primario al deleterio regime del carcere, con un divieto previsto in relazione al tipo di reato e tale da escludere valutazioni specifiche della personalità del reo.

9. - L'altra questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Cuneo con la stessa ordinanza riguarda l'art. 93 del testo unico n. 570 del 1960, in quanto non < ridotto > nel suo ambito operativo per la mancata estensione alle elezioni amministrative delle nuove disposizioni concernenti le modalità di presentazione delle liste dei candidati alle elezioni politiche ed, in particolare, la eliminazione per talune di esse dell'onere di sottoscrizione da parte di elettori presentatori.

Evidentemente il pretore di Cuneo non ha tenuto conto dell'art. 1, lett. b) del d.l. 3 maggio 1976, n. 161 (convertito con modificazioni, che non interessano questo punto, con legge 14 maggio 1976, n. 240). Secondo tale disposizione: < in occasione di elezioni regionali, provinciali e comunali, nessuna sottoscrizione è richiesta per la presentazione di liste o di candidature con contrassegni tradizionalmente usati da partiti o gruppi politici che abbiano avuto eletto un proprio rappresentante in Parlamento o siano costituiti in gruppo parlamentare nella legislatura in corso alla data di indizione dei relativi comizi; ovvero, in caso di contemporaneo svolgimento delle elezioni politiche con quelle regionali, provinciali e comunali, nella legislatura precedente a quella per la quale vengono svolte le consultazioni politiche >.

Gli atti devono dunque essere restituiti al giudice perchè rivaluti su questo punto la situazione alla luce della disciplina ora richiamata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara la illegittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 102 del testo unico approvato con d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali);

b) ordina la restituzione degli- atti al pretore di Cuneo per una nuova valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 93 dello stesso testo unico.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/07/80.

Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA – Guido  ASTUTI – Michele  ROSSANO – Antonino  DE STEFANO – Leopoldo  ELIA – Guglielmo  ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto  BUCCIARELLI DUCCI – Alberto  MALAGUGINI – Livio  PALADIN – Arnaldo  MACCARONE – Antonio  LA PERGOLA – Virgilio  ANDRIOLI

Giovanni  VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 23/07/80.