Sentenza n. 49 del 1976
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SENTENZA N. 49

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Dott. Luigi OGGIONI, Presidente

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 545, quarto ed ultimo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, dei salari e delle pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 24 luglio 1974 dal pretore di Firenze nel procedimento civile vertente tra Bigi Giancarlo e Forzini Armando, iscritta al n. 398 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 289 del 6 novembre 1974;

2) ordinanza emessa il 14 marzo 1975 dal tribunale di Vicenza nel procedimento civile vertente tra Giugliano Carlo e Filippi Osvaldo, iscritta al n. 211 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 181 del 9 luglio 1975.

Udito nella camera di Consiglio dell'11 dicembre 1975 il Giudice relatore Nicola Reale.

Ritenuto in fatto

1. - Il pretore di Firenze, con ordinanza emessa il 24 luglio 1974 nel procedimento civile promosso da Bigi Giancarlo contro Forzini Armando al fine di ottenere il pignoramento della retribuzione dal medesimo percepita quale dipendente dell'Istituto medico pedagogico Umberto I, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, numero 180, testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, dei salari e delle pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni.

Il giudice a quo, pur dando atto che la questione é stata già dichiarata dalla Corte non fondata con la sentenza n. 88 del 1963 e successivamente manifestamente infondata con le ordinanze n. 131 del 1967, 37 del 1970 e 189 del 1973, la ritiene tuttavia meritevole di un nuovo esame poiché sarebbero emersi elementi di valutazione nuovi, tali da renderla, oltre che pregiudizialmente rilevante, non manifestamente infondata.

2. - Analoghe questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal tribunale di Vicenza con ordinanza emessa il 14 marzo 1975 nel corso del procedimento civile vertente tra Filippi Osvaldo e Giugliano Carlo, dipendente delle Aziende Municipalizzate di Verona.

I dubbi di legittimità costituzionale riguardano, in questo secondo caso, oltre il già citato art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, anche l'art. 545, quarto ed ultimo comma, del codice di procedura civile e sono prospettati non solo con riferimento all'art. 3, ma anche rispetto agli artt. 24, primo comma, e 28 della Costituzione.

3. - Entrambe le ordinanze sono state ritualmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale ma in nessuno dei rispettivi giudizi vi é stata costituzione di parte o intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze in epigrafe sollevano questioni analoghe o connesse, onde si ravvisa opportuna la riunione dei giudizi per dar luogo a decisione con unica sentenza.

2. - L'art. 545 c.p.c., dopo aver stabilito che le somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego (comprese quelle dovute a causa di licenziamento) possono essere pignorate per i crediti alimentari nella misura autorizzata dal pretore, nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle provincie e ai comuni e, cosa di particolare rilievo, in uguale misura, per ogni altro credito (con il limite della metà in caso di concorso), fa salve le altre limitazioni contenute in speciali disposizioni di legge. L'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, t.u. delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni, dispone poi che - eccezion fatta per i crediti indicati nel successivo art. 2 (e cioè - entro una certa misura - per i crediti alimentari, per i crediti per tributi dovuti allo Stato, alle provincie e ai comuni e per quelli dello Stato o di altri enti da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto di impiego o di lavoro), escluso quindi ogni altro credito - non possono essere pignorati, oltre che sequestrati o ceduti, "gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che lo Stato, le provincie, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e qualsiasi altro ente od istituto pubblico sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza dell'amministrazione pubblica (comprese le aziende autonome per i servizi pubblici municipalizzati), e le imprese concessionarie di un servizio pubblico di comunicazioni o di trasporto corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati ed a qualsiasi altra persona, per effetto ed in conseguenza dell'opera prestata nei servizi da essi dipendenti".

3. - Il pretore di Firenze, con ordinanza emessa nel corso di un procedimento di esecuzione forzata promosso al fine di ottenere - per credito non compreso nelle eccezioni del t.u. citato - il pignoramento dello stipendio percepito dal dipendente di un ente pubblico di assistenza, prospetta il dubbio che l'art. 1 di detto testo unico contrasti con l'art. 3 della Costituzione per l'irragionevole disparità di trattamento che determinerebbe, in ordine alla pignorabilità delle retribuzioni, tra pubblici e privati dipendenti. A sua volta il tribunale di Vicenza, nel corso di procedimento civile promosso per l'esecuzione forzata in virtù di un credito analogo a quello sopra cennato ed essendo sorta questione circa la pignorabilità dello stipendio che il debitore percepiva da un'azienda municipalizzata in qualità di operaio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del predetto art. 1 del d.P.R. n. 180 del 1950 (e, di riflesso, dell'art. 545 c.p.c. nella parte in cui ad esso art. 1 implicitamente si fa rinvio), non solo in riferimento all'art. 3 ma anche agli artt. 24, comma primo, e 28 della Costituzione.

4. - I giudici a quibus, pur dando atto che le suddette questioni sono state già dichiarate da questa Corte non fondate con la sentenza n. 88 del 1963 e manifestamente infondate con le ordinanze n. 131 del 1967, 37 del 1970 e 189 del 1973, le ritengono tuttavia meritevoli di un nuovo esame in quanto sussisterebbero elementi di valutazione tali da renderle, oltre che pregiudizialmente rilevanti, non manifestamente infondate.

Con speciale riferimento all'art. 3 Cost., si assume che le differenze tra i due tipi di rapporto di lavoro, di diritto pubblico e di diritto privato, sono attualmente molto attenuate rispetto alla situazione cui hanno avuto riguardo le precedenti pronunzie di questa Corte sopra richiamate, in quanto gli aspetti vantaggiosi per i lavoratori così del rapporto di pubblico impiego (stabilità, trattamento pensionistico, garanzie cosiddette "giustiziali") come di lavoro privato (indennità di liquidazione, tutela sindacale, diritto di sciopero etc.) sono andati progressivamente trasfondendosi dall'uno all'altro tipo di rapporto. Questa evoluzione sarebbe particolarmente evidente nella determinazione della retribuzione, sia per l'ormai incontroversa applicabilità, anche ai pubblici dipendenti, dei principi enunciati nell'art. 36 Cost., sia e soprattutto, per l'estensione, al pubblico impiego, del sistema, caratteristico del rapporto di lavoro privato, di trarre il contenuto delle disposizioni sul trattamento economico dagli accordi collettivi (art. 24 legge 28 ottobre 1970, n. 775, ora sostituito dall'articolo 9 della legge 22 luglio 1975, n. 382).

Di qui l'irragionevolezza delle disparità di trattamento che, in ordine alla pignorabilità delle retribuzioni, le norme impugnate creano, da un lato, tra pubblici e privati dipendenti e, dall'altro, tra i titolari di diritti di credito (diversi da quelli, sopra ricordati, per i quali é ammessa dall'art. 2 d.P.R. citato una limitata pignorabilità) nei confronti di pubblici dipendenti e i titolari di analoghi diritti di credito verso privati dipendenti. Secondo il tribunale di Vicenza, poi, come si é già accennato, dette norme sarebbero da ritenersi in contrasto anche con l'art. 24, primo comma, Cost. (avuto riguardo alle difficoltà che il creditore di soggetto cui é concesso opporre l'impignorabilità della retribuzione, potrebbe incontrare nella realizzazione dei propri diritti) e con l'art. 28 Cost., poiché esse consentirebbero restrizioni, in ordine alla responsabilità dei pubblici dipendenti, tali da eludere concretamente la responsabilità medesima.

5. - La parziale novità delle argomentazioni e gli innegabili mutamenti, nel frattempo intervenuti circa la disciplina dei rapporti di lavoro, inducono la Corte a riprendere in esame le questioni.

Esse, peraltro, risultano tuttora infondate.

É certo esatto che le differenze tra il rapporto di pubblico impiego e quello di lavoro privato sono oggi molto ridotte rispetto al passato.

Basti pensare alla stabilità nel posto di lavoro che in conseguenza delle leggi 15 luglio 1966, n. 604, e 20 maggio 1970, n. 300, é venuta a informare - sia pure entro certi limiti anche il rapporto di lavoro privato o, per converso, al riconoscimento della possibilità di un'attività sindacale in seno alla amministrazione statale (artt. 45 e segg. legge 18 marzo 1968, n. 249) e all'applicazione a dipendenti civili dello Stato o di aziende autonome statali del sistema di far precedere qualsiasi regolamentazione sul loro trattamento economico da accordi tra pubblica Amministrazione e organizzazioni sindacali (art. 9, legge 22 luglio 1975, n. 382, che ha sostituito l'art. 24, legge 28 ottobre 1970, n. 775).

Ma da ciò sarebbe arbitrario dedurre che le norme impugnate difettino di ragionevolezza e siano conseguentemente lesive del principio di uguaglianza.

Non solo perché, nonostante il processo di osmosi cui si é precedentemente accennato, permangono ancor oggi sensibili divergenze tra la disciplina del rapporto di impiego pubblico e quello di diritto privato (vedi anche la sentenza numero 209/75) ma soprattutto perché, come é fatto palese dalla evoluzione storica della normativa concernente l'impignorabilità delle retribuzioni dei pubblici dipendenti e dalla stessa formulazione dell'art. 1 del d.P.R. n. 180 del 1950, la ratio di quest'ultima disposizione, più che nelle differenze di disciplina dei due rapporti, va individuata nell'esigenza di garantire il buon andamento degli uffici e la continuità dei servizi della pubblica Amministrazione. In effetti, l'impignorabilità non é che l'aspetto particolare di una normativa volta ad assicurare, nell'interesse precipuo della p.a., l'indisponibilità giuridica - sia pure non assoluta - delle retribuzioni dei pubblici dipendenti e di coloro che comunque sono addetti a taluni pubblici servizi, il cui regolare funzionamento é stato ritenuto di primaria importanza. La legge, infatti, non si limita a sancire l'impignorabilità degli stipendi ma ne vieta, altresì, come si é ricordato, oltre che il sequestro, la cessione, salvo che agli istituti indicati nell'art. 15 del d.P.R. citato, e con i limiti e le modalità in esso d.P.R. specificati. In passato, anzi, il divieto di cessione fu assoluto e solo in un secondo momento, per venire incontro alle esigenze dei dipendenti, i quali altrimenti sarebbero venuti a trovarsi nell'impossibilità di contrarre mutui per far fronte a gravi esigenze anche di carattere familiare, fu introdotta la possibilità di una limitata cessione, dando vita a provvidenze che nel tempo hanno poi assunto i caratteri di una vera e propria assistenza creditizia nei confronti dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni.

Il che conferma che il legislatore, più che alla natura del rapporto, ha avuto riguardo al carattere pubblico (o, comunque, di interesse generale) della funzione o del servizio esplicati attraverso il medesimo, preoccupandosi di escludere, salvo talune eccezioni tassativamente previste, la possibilità di sottrazione o di distrazione, anche legittima, della retribuzione dovuta ai dipendenti, nell'intento che ciò valga ad assicurare il regolare svolgimento della loro attività nell'espletamento dell'ufficio o del servizio cui sono preposti.

Premessi questi rilievi, appare evidente che la progressiva convergenza della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico e privato non vale ad inficiare di irragionevolezza la denunciata disparità di trattamento tra i dipendenti privati ed i dipendenti degli enti e delle imprese elencate nell'art. 1 del d.P.R. n. 180 del 1950.

Le due situazioni non sono infatti identiche poiché, come si é già osservato, nel secondo caso ricorre - a differenza che nel primo - un interesse pubblico a garantire il buon andamento di taluni uffici o servizi. E tanto basta ad escludere, secondo i principi costantemente enunciati da questa Corte, che le norme impugnate concretino una violazione del principio di uguaglianza, in sé considerato e nella specificazione che di esso é fatta nell'art. 24, comma primo, della Costituzione.

6. - Ad escludere l'esistenza di ogni contrasto con lo art. 28 della Costituzione é poi sufficiente osservare che detta norma se, da un lato, enuncia il principio della responsabilità personale dei dipendenti pubblici verso i danneggiati, dall'altro non esclude la possibilità che per quella dei medesimi vengano introdotte regole particolari e diverse rispetto ai principi comuni in materia (sentenze n. 123 del 1972 e n. 2 del 1968), sempre che la disciplina adottata non sia tale da comportare un'esclusione più o meno manifesta di ogni responsabilità (sentenza n. 4 del 1965). Il che non può dirsi delle disposizioni impugnate, le quali non toccano né esplicitamente né implicitamente il principio della diretta responsabilità del pubblico dipendente verso i danneggiati per gli atti compiuti in violazione dei diritti, limitandosi a sottrarre all'azione esecutiva dei creditori, e per validi motivi, la retribuzione ed ogni altra indennità da essi percepita per effetto ed in conseguenza dell'opera prestata. Del resto, come questa Corte ha già posto in rilievo nella già ricordata sentenza n. 88 del 1963, la responsabilità patrimoniale del pubblico dipendente ben può trovare attuazione rispetto ad altri beni e crediti esistenti nel patrimonio del debitore.

Anche tale questione é pertanto infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 545, quarto ed ultimo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, dei salari e delle pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni) sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, comma primo, e 28 della Costituzione, dal pretore di Firenze e dal tribunale di Vicenza con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 1976.

Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 16 marzo 1976.