Sentenza n. 123 del 1972

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 SENTENZA N. 123

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 51, ultimo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 21 maggio 1970 dal pretore di Castelnuovo di Garfagnana nel procedimento penale a carico di Casilli Edoardo e Cioni Marcello, iscritta al n. 225 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 222 del 2 settembre 1970.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1972 il Giudice relatore Luigi Oggioni;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Il pretore di Castelnuovo di Garfagnana, nel dicembre 1969, iniziava procedimento penale a carico del brigadiere dei carabinieri Cioni Marcello, comandante la stazione di Barga, imputato del reato di cui all'art. 615 cpv. del codice penale (violazione di domicilio) per essersi introdotto e trattenuto nell'abitazione di Sereni Umberto ed altri, la sera del 12 dicembre 1969, al fine di ricercare l'eventuale presenza di armi o munizioni, senza essere provvisto del decreto di perquisizione domiciliare emesso dall'autorità giudiziaria. Il pretore procedeva anche a carico del tenente dei carabinieri Casilli Edoardo, comandante la tenenza di Castelnuovo di Garfagnana, per concorso nello stesso reato, ai sensi degli artt. 110 e 112, n. 3, del codice penale, per avere ordinato al Cioni, sottoposto al suo comando, di eseguire la perquisizione, senza essere in possesso del cennato decreto.

Nel corso del procedimento istruttorio, il pretore accertava che il tenente Casilli aveva ordinato la perquisizione al Cioni a seguito di ordine telefonico a sua volta impartitogli dal colonnello comandante del gruppo carabinieri di Lucca, ed erroneamente interpretato, per la concitazione del momento immediatamente successivo all'attentato alla Banca nazionale dell'agricoltura di Milano, nel senso di dover procedere ad immediata perquisizione senza attendere di essere in possesso del documento comprovante l'ordine e l'autorizzazione, che effettivamente erano stati emessi dal Procuratore della Repubblica di Lucca.

Con ordinanza 21 maggio 1970, detto pretore, premesso che si rendeva applicabile nei confronti degli imputati l'art. 51, ultimo comma, del codice penale, secondo cui non é punibile chi commette un fatto costituente reato in esecuzione di un ordine, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine stesso, assumeva tuttavia di non potere emettere la sentenza istruttoria di proscioglimento degli imputati perché il detto art. 51 c.p. appariva sospetto di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 28 della Costituzione, nonché con "le norme della Costituzione sui diritti di libertà" specificamente indicate negli artt. 13, 14, 15, 16, 17, e con lo stesso "sistema" della Costituzione della Repubblica.

Ha osservato in proposito il pretore che l'art. 28 della Costituzione, stabilendo la responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, ha posto una garanzia delle posizioni individuali contro gli abusi dell'autorità, attraverso la personalizzazione della responsabilità per i torti arrecati. Nel campo penale, nel quale la responsabilità non può non essere personale, il detto principio si risolverebbe, secondo il pretore, nel divieto di escludere la responsabilità del pubblico dipendente in relazione alla particolare posizione in cui egli si trovi nell'organizzazione statale. L'art. 51, ultimo comma, del codice penale rappresenterebbe l'attuazione concreta di una scelta di politica legislativa tendente a dare, invece, la preminenza al momento dell'autorità sul momento della legalità e si porrebbe quindi in contrasto col divieto costituzionale ora enunciato. Né varrebbe obiettare che l'art. 28 sancisce la responsabilità diretta "secondo quanto dispongono le leggi ordinarie", e che quindi dovrebbe ammettersi una diversità di disciplina della responsabilità dei pubblici dipendenti per categorie o situazioni, giacché mai potrebbe giungersi ad una pura e semplice esclusione di responsabilità, come invece risulterebbe nella specie.

Ma, prosegue l'ordinanza, se anche le esigenze organizzative dello Stato potessero ritenersi prevalenti sul dovere di obbedienza alle norme penali, mai potrebbe sacrificarsi l'osservanza di quelle norme penali che sono poste a tutela di diritti costituzionali, come la libertà personale, domiciliare, o di corrispondenza (artt. 606-609, 615, 616 ecc. c.p.), onde, secondo il giudice a quo, sarebbe non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata anche sotto il profilo del possibile contrasto con gli artt. 13, 14, 15, 16 e 17 della Costituzione, che appunto garantiscono i diritti di libertà.

Il dubbio di legittimità non sarebbe eliminato dalla prevista punibilità di chi ha emanato l'ordine illegittimo, perché l'irresponsabilità dell'esecutore costituirebbe, di per sé, una "esposizione a pericolo dell'interesse costituzionale protetto". Ed anzi, considerato che, a norma dell'art. 221 c.p.p., svolgono funzioni di polizia giudiziaria esecutori militari, come tali particolarmente vincolati dagli ordini superiori (carabinieri, agenti di p.s. ecc.), la insindacabilità da parte loro degli ordini, sia pure ad esclusione di quelli manifestamente criminosi, profilerebbe, per la delicatezza delle funzioni, destinate istituzionalmente ad incidere sui diritti di libertà, un contrasto con il "sistema costituzionale" aprendo la via alla possibile emanazione di ordini tendenti "alla realizzazione di una trama eversiva mediante la soppressione delle libertà individuali", ed escludendo persino l'applicabilità della scriminante della arbitrarietà dell'atto del pubblico ufficiale di cui all'art. 4 del d.l. 14 settembre 1944, n. 298, e quindi l'autotutela del soggetto privato.

D'altra parte, l'organizzazione militare e la concessione insindacabile degli ordini, non sarebbero affatto indispensabili allo svolgimento dell'attività di polizia giudiziaria, poiché le stesse funzioni sarebbero svolte dagli ufficiali civili di p.s., che hanno doveri di obbedienza più limitati di quelli militari (articolo 17, comma terzo, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) e più ampia sfera di responsabilità penale in relazione ai reati commessi in esecuzione di un ordine dei quali rispondono sempre (art. 51, terzo comma, c.p.), salvo che, per errore di fatto, abbiano ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Ed appunto in vista di tale situazione, secondo il pretore, dovrebbe riscontrarsi un ulteriore profilo di illegittimità della norma impugnata, per contrasto con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto nell'ambito di un gruppo di pubblici dipendenti chiamati a svolgere le stesse funzioni, si consentirebbe che alcuni di essi (i militari) non rispondano dei reati commessi in esecuzione di ordini, e gli altri ne siano tenuti invece responsabili.

Avanti alla Corte costituzionale si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha tempestivamente depositato le proprie deduzioni.

L'Avvocatura afferma che l'art. 28 della Costituzione porrebbe in essere un rinvio alle leggi ordinarie in materia di responsabilità diretta dei pubblici funzionari, onde ben potrebbe la responsabilità medesima essere disciplinata per categorie o per situazioni, come del resto già avrebbe ritenuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 2 del 1968.

D'altra parte, la norma impugnata risponderebbe ad evidenti motivi di necessità, collegati con la stessa esistenza dello Stato, e non avrebbe un campo di applicazione illimitato, poiché l'ordine dell'autorità, per costante giurisprudenza, non andrebbe eseguito se manifestamente criminoso. Di conseguenza l'impugnata disciplina concreta della responsabilità diretta, sancita in via di principio dall'art. 28 della Costituzione, non renderebbe inoperante il precetto costituzionale, poiché, attraverso la conservazione della sindacabilità dell'ordine, verrebbe altresì conservata la responsabilità diretta di chi lo esegue, conciliandosi così l'imperatività del precetto costituzionale con l'esigenza di tutela dell'esistenza dello Stato.

Neppure fondata sarebbe la questione sollevata in relazione agli artt. 13, 14, 15, 16 e 17 della Costituzione, poiché, secondo l'Avvocatura, alla luce delle precedenti considerazioni, la lesione dei diritti di libertà ivi protetti potrebbe, se mai, derivare dalla violazione delle norme ordinarie, e non già dall'osservanza del disposto dell'art. 51, ultimo comma, del codice penale.

Infine, la censura mossa in relazione all'art. 3 della Costituzione sarebbe infondata, perché, nel caso in esame, non sussisterebbe la lamentata diversità di trattamento fra funzionari civili e militari, dovendosi il limite della insindacabilità dell'ordine ritenere valido per ambedue le categorie.

Comunque, nei limiti in cui si potesse riscontrare una differenza di trattamento, varrebbe a giustificarla la diversità dei compiti e doveri rispettivamente attribuiti agli ufficiali civili e militari di polizia giudiziaria.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'ordinanza di rinvio sottopone alla Corte, come rilevante nel giudizio a quo, la questione di costituzionalità dell'art. 51, ultimo comma, del codice penale, riguardante la non punibilità degli esecutori di ordini illegittimi dell'Autorità, da osservare in adempimento di doveri gerarchici, senza che ne sia consentito il sindacato.

Secondo l'ordinanza, la norma violerebbe: a) l'art. 28 della Costituzione, che stabilisce la responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato per la commissione di atti, in violazione di diritti; b) l'art. 3 della Costituzione che stabilisce l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali; c) in generale, tutti i diritti di libertà, garantiti dalla Costituzione con gli artt. 13, 14, 15, 16, 17 (libertà personale, inviolabilità di domicilio, di comunicazione, di circolazione, di riunione).

2. - La questione non é fondata.

Il richiamo all'art. 28 della Costituzione, per desumerne, premessa l'equivalenza tra responsabilità "diretta" e responsabilità "personale", l'assoluta inderogabilità di quest'ultima, dovendo prevalere in ogni caso il principio di legalità sul principio di autorità, non é richiamo idoneo a sostenere l'assunto di incostituzionalità.

Infatti, l'art. 28 non generalizza ma espressamente riconduce il concetto di responsabilità a quanto dispongono le leggi penali, civili e amministrative: cioé, come questa Corte ha ritenuto con la sentenza n. 2 del 1968, la norma "rinvia alle leggi ordinarie, che codesta responsabilità disciplinano variamente per categorie o per situazioni". Ciò, analogamente a quanto dispone l'art. 97, comma secondo, della Costituzione nel comprendere le "responsabilità proprie dei funzionari" come elementi essenziali ai singoli ordinamenti dei pubblici uffici.

Il rinvio alle leggi ordinarie significa, pertanto, rinvio alla disciplina positiva cui é assoggettata, nelle leggi stesse, la responsabilità soggettiva dei funzionari e dei dipendenti, anche in considerazione di regole particolari, che, in deroga alle regole comuni, determinino il contenuto ed i limiti di detta responsabilità.

Come precisato nella suindicata sentenza di questa Corte, la disciplina dei limiti può essere variamente individuata anche per categorie di soggetti o per speciali situazioni.

Tale, appunto, come esempio caratterizzante, che inerisce, nel caso, all'oggetto del procedimento a quo, la categoria e la situazione di quegli organi, che, come l'Arma dei Carabinieri, fanno parte, direttamente o per equiparazione, dell'Amministrazione militare dello Stato.

Per questi organi vigono norme particolari che pongono come primario il dovere di obbedienza dell'inferiore in grado al superiore, restringono il potere di sindacato degli ordini attinenti al servizio, puniscono il rifiuto, l'omissione e il ritardo nella loro esecuzione. Ciò risulta testualmente dagli artt. 40 e 173 del codice penale militare di pace, che costituiscono, rispettivamente, adattamenti specifici della situazione normativa generale di cui agli artt. 51, ultimo comma, e 329 del codice penale.

Ne consegue che l'art. 51, ultimo comma, c.p., in luogo d'essere in contraddizione con l'art. 28 della Costituzione, viceversa fa parte di un sistema che vi si adegua, in quanto entrambi gli articoli contengono un richiamo alla "legge" come regolatrice di determinati rapporti e non come espressione di un principio uniforme e livellatore.

Il dubbio, prospettato nell'ordinanza, secondo cui il riconoscimento della legittimità dell'art. 51, ultimo comma, c.p. condurrebbe all'inammissibile conseguenza di ritenere legittima la compressione di fondamentali diritti di libertà individuale, non é fondato.

Va considerato che l'esenzione da pena accordata dall'articolo 51 agli esecutori di ordini illegittimi (sempre subordinatamente al verificarsi di determinate condizioni, il cui accertamento spetta al giudice di merito) non discrimina il fatto in sé. Invero, mentre, da un lato, il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine, risponde "sempre" del reato, dall'altro lato la responsabilità dell'esecutore é affermata in via di principio (terzo comma) salvo esclusione per errore di fatto dell'agente (stesso comma) o per situazione speciale prevista da legge (ultimo comma).

3. - Quanto si é osservato al punto precedente, vale ad escludere la fondatezza della questione, anche sotto il profilo di cui all'art. 3 della Costituzione. La denunciata disparità di trattamento non esiste, sia se considerata in rapporto a categorie affini, ma non uguali nel loro ordinamento (agenti di p.s.) sia, tanto più, se considerata in rapporto a categorie diverse (dipendenti civili, funzionari di p.s.): il tutto in difetto di quei criteri di omogeneità di situazione, che caratterizzano l'ambito di applicazione dell'art. 3 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, ultimo comma, del codice penale, sollevata, con l'ordinanza di cui in epigrafe, dal pretore di Castelnuovo di Garfagnana, in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Luigi OGGIONI

Depositata in cancelleria il 6 luglio 1972.