Sentenza n. 113 del 1972

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 SENTENZA N. 113

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 723 del codice penale e 110 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773, promosso con ordinanza emessa il 27 novembre 1969 dal pretore di Livorno nel procedimento penale a carico di Paci Cesare ed altri, iscritta al n. 158 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 143 del 10 giugno 1970.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1972 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento penale contro Gianfranco Franconi per aver agevolato, quale gestore di un pubblico esercizio, un gioco d'azzardo (artt. 718, 719, n. 2, e 721 cod. pen.), e contro Amerigo Bertini, Sirio Chiarugi, Gino Mazzoni, Cesare Paci, Raffaello Potenza e Delio Tomei per averlo esercitato (artt. 720, n. 1, e 721 cod. pen.), il pretore di Livorno, ritenendo di dovere derubricare i reati, rispettivamente, in agevolazione ed esercizio di gioco non d'azzardo vietato dal questore, con ordinanza del 27 novembre 1969, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale degli artt. 723 del codice penale e 110 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione.

Il pretore rileva, anzitutto, la diversità della questione da quella, concernente l'omessa esposizione della tabella di cui al medesimo art. 110 del citato t.u., decisa da questa Corte con sentenza n. 88 del 1968.

Sull'assunta violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione osserva, poi, che per i giochi vietati (a differenza di quelli d'azzardo: art. 721 cod. pen.) mancherebbe nella legge qualsiasi criterio indicativo, dato che la loro qualificazione é rimessa all'autorità amministrativa, sia centrale (direzione generale di pubblica sicurezza), mediante l’elaborazione di un elenco valido per tutta la Repubblica, sia periferica, col conferimento ad ogni questore della potestà di aggiungere quei giochi che, per situazioni locali, egli ritenga di dover vietare nel pubblico interesse (art. 195 regolamento t.u. leggi p.s. 6 maggio 1940, n. 635).

Per altro, essendo tali provvedimenti di carattere discrezionale, il controllo del giudice, limitato alla mera legittimità, non sarebbe sufficiente. Di qui la violazione del principio della riserva di legge, che consentirebbe di attribuire ad altre fonti solo la competenza di precisarne quegli elementi che richiedano una particolare valutazione di natura esclusivamente tecnica, mai quella di creare figure d’illecito penale.

Ché in una valutazione del genere non potrebbe farsi rientrare il giudizio di pericolosità dei giochi.

Sull'assunta violazione dell'art. 3 della Costituzione, per il potere attribuito al questore di proibire un gioco limitatamente alla sua provincia, il pretore, dopo essersi richiamato alla giurisprudenza di questa Corte sulla necessità di una logica e adeguata giustificazione, per una disciplina differenziata, nelle speciali situazioni e condizioni locali, afferma che, in contrasto con tale principio, la valutazione della particolarità delle situazioni sarebbe, nella specie, affidata all'insindacabile discrezionalità del questore.

Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione delle parti private.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é ritualmente intervenuto, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Nel richiamarsi alla giurisprudenza di questa Corte sulla legittimità di manifestazioni normative dell'amministrazione, che restano fuori del precetto, il quale é di per sé integralmente costituito con la generica imposizione d’obbedienza agli atti e provvedimenti amministrativi penalmente presidiati, l'Avvocatura deduce che nelle norme denunziate la fattispecie criminosa sarebbe perfettamente delineata nei suoi elementi essenziali.

In particolare, l'art. 723 cod. pen. individuerebbe l'attività materiale ed i soggetti attivi del reato. All'autorità amministrativa sarebbe rimessa soltanto la determinazione dei giochi da proibire, nell'interesse pubblico, su di un piano tecnico non valutabile in astratto, perché contingente, in rapporto, cioé, a mutevoli fattori di carattere cronologico, topografico ed ambientale in ciascuna provincia.

D'altro canto, essendo lo svolgimento del gioco in apposite sale subordinato a licenza di polizia, pienamente legittima sarebbe l'imposizione, nel pubblico interesse, della prescrizione di cui all'art. 110 del t.u., anche per la garanzia giurisdizionale attribuita allo stesso giudice penale (sent. n. 88 del 1968 cit.).

Dato che la proibizione dei giochi avviene alla stregua di situazioni obiettive differenziate da luogo a luogo, l'Avvocatura esclude, infine, anche la violazione del principio d’uguaglianza.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il pretore di Livorno ha sottoposto alla Corte la questione se gli artt. 723 del codice penale e 110 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza - concernenti, rispettivamente, l'esercizio abusivo dei giochi non d'azzardo, proibiti dall'autorità amministrativa, ed il potere di quest'ultima di stabilire quali giochi siano da vietare - violino l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto la valutazione della pubblica amministrazione sulla pericolosità dei giochi sfuggirebbe, non essendo strettamente tecnica, al controllo di mera legittimità del giudice ordinario e attribuirebbe all'amministrazione la potestà a creare autonomamente nuove figure d’illecito; e l'art. 3 della Costituzione, per ingiustificata disparità di trattamento tra i cittadini delle varie provincie, a causa del differenziato apprezzamento dei questori circa la proibizione dei giochi, nell'ambito della loro competenza territoriale.

2. - Non é violato il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

É da premettere che l'elencazione dei giochi non d'azzardo da parte della pubblica amministrazione risponde - come ha esattamente osservato l'Avvocatura dello Stato - ad una valutazione da cui non esula il carattere tecnico, ove si attribuisca a tale espressione un significato non meramente meccanico; e che gli atti e i provvedimenti amministrativi di siffatto carattere, connessi a precetti penali posti a garanzia della loro osservanza, sono da ritenere legittime manifestazioni dell'attività normativa dell'amministrazione: per cui il precetto penale risulta costituito dalla generica imposizione d’obbedienza a quegli atti e provvedimenti (si vedano, fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 103 del 1957; n. 4 del 1958; nn. 36 e 96 del 1964).

La Corte, inoltre, - senza prendere posizione sul controverso problema se, inosservato che sia l'atto o provvedimento dell'autorità amministrativa, cui sia collegata la sanzione penale comminata da una norma, il precetto penalmente sanzionato vada identificato in questa norma o in quell'atto o provvedimento - ha avuto già occasione di affermare che non é violato il principio della riserva di legge in materia penale "quando sia una legge (o un atto equiparato) dello Stato - non importa se proprio la medesima legge che prevede la sanzione penale o un'altra legge - a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena" (sentenza n. 26 del 1966; vedasi anche la sentenza n. 168 del 1971).

Condizioni, queste, che si realizzano nel caso che ne occupa, dappoiché sono, sia pure concisamente, soddisfatti i requisiti sopra enunciati, essendo indicati la competenza a provvedere e i destinatari, l'oggetto e i motivi del divieto.

Del resto, é tutt'altro che pacifica la tesi che la descrizione integrale del fatto tipico debba essere esaurita dalla legge, cioé che alla legge debba essere attribuito il monopolio della determinazione delle fattispecie penalmente sanzionate: con la citata sentenza n. 36 del 1964 di questa Corte si é precisato, a proposito della specificazione del contenuto di definiti elementi del fatto di reato (elencazione degli stupefacenti da parte dell'autorità amministrativa), che "il precetto penale, ai fini della riserva di legge, riceve intera la sua enunciazione con l’imposizione del divieto, il quale contiene un’idonea indicazione della condotta vietata e dell'oggetto materiale del delitto".

3. - D'altro canto, le attività previste nelle norme denunziate non sono liberamente consentite ai singoli in un pubblico esercizio, bensì sono subordinate al rilascio al gestore di un’autorizzazione (art. 194 r.d. 6 maggio 1940, n. 635), la quale rientra, appunto, nei compiti di istituto e nella sfera discrezionale dell'autorità di polizia: autorizzazione che, se può essere negata, può a maggior ragione essere limitata per motivi di "pubblico interesse" (art. 110, primo comma, t.u. n. 773 del 1931), il cui concetto (come si desume dall'art. 100, primo comma, dello stesso t.u.) sinteticamente comprende l'ordine pubblico, la moralità pubblica, il buon costume e la sicurezza dei cittadini.

4. - É da aggiungere che spettano pur sempre all'interessato, oltre alla garanzia del reclamo, del ricorso e degli altri rimedi di giurisdizione amministrativa (sentenza n. 88 del 1968), quella del sindacato del giudice ordinario sulla conformità del divieto all'ordinamento giuridico (citata sentenza n. 168 del 1971).

5. - Parimenti infondata é l'assunta violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. E, invero, l'oggetto del provvedimento dell'autorità di pubblica sicurezza concerne situazioni differenziate, tanto per le particolarità delle varie zone in cui i giochi possono essere svolti, quanto per la diversa localizzazione geografica in cui i giochi - anche con nome diverso nelle singole zone - sogliono essere praticati.

A giusta ragione, l'Avvocatura dello Stato deduce che non vanno trascurati dall'autorità amministrativa il fattore cronologico (esigenze nascenti da ricorrenze festive, religiose, civili, di fiere, di mercati, ecc.), il fattore topografico (pubblici esercizi siti in prossimità di chiese, scuole, ospedali, ecc.), il fattore ambientale (diffusione del vizio del gioco, ecc.).

Di qui la razionalità della competenza attribuita al questore, nell'ambito della sua provincia, di rilasciare, nella sfera dei suoi poteri discrezionali, l'autorizzazione all'esercizio dei giochi non d'azzardo (ché quelli d'azzardo, al pari delle scommesse, sono incondizionatamente proibiti: artt. 718,721 cod. pen.; 108, secondo comma, e 110, secondo comma, t.u. delle leggi di pubblica sicurezza), nonché di statuire quali di essi siano da vietare nel pubblico interesse.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 723 del codice penale e 110 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), sollevata, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, dal pretore di Livorno con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Enzo CAPALOZZA

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1972.