Sentenza n. 50 del 1967
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SENTENZA N. 50

ANNO 1967

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 40 del testo unico sulla caccia, approvato con R.D. 5 giugno 1939, n. 1016, promosso con ordinanza emessa il 29 settembre 1965 dal Pretore di Verona nel procedimento penale a carico di Corso Marcello, iscritta al n. 212 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 326 del 31 dicembre 1965.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri:

udita nell'udienza pubblica del 15 febbraio 1967 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza pronunciata, presente l'imputato, all'udienza del 29 settembre 1965, in un procedimento di opposizione a un decreto penale emesso nei confronti di Corso Marcello, accusato di contravvenzione all'art. 40 del T.U. delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia approvato con R.D. 5 giugno 1939, n. 1016, per aver detenuto presso la propria abitazione quattro fagiani e quattordici fagianini senza aver ottenuto il prescritto permesso scritto dal Comitato provinciale per la caccia né avere regolarmente denunciato la selvaggina, il Pretore di Verona, su richiesta della difesa, ha disposto la rimessione a questa Corte di una questione di legittimità costituzionale nei confronti della disposizione del citato art. 40 che esige, per la detenzione di capi vivi di talune specie di selvaggina, il permesso dell'anzidetto Comitato.

L'ordinanza si richiama all'atto di opposizione presentato dall'imputato. Questi aveva affermato l'esistenza di un principio costituzionale - "risultante da più espressioni e massimamente in particolare dall'art. 76 della Costituzione" - secondo il quale non può esser conferito all'autorità amministrativa "il potere di emanazione di atti limitativi dell'agire umano (in particolare della attività economica e della proprietà privata come agli artt. 41 e 42 della Costituzione)" se non con l'indicazione di "criteri idonei per il raggiungimento di fini espressi" e con la delimitazione della "discrezionalità dell'organo deliberante". Da tale principio aveva poi ricavato la conseguenza della incostituzionalità del riferito precetto dell'art. 40 T.U. sulla caccia, il quale attribuisce il ricordato potere al Comitato della caccia "senza alcuna indicazione dei fini e dei limiti nei quali deve svolgersi".

Il Pretore, richiamati gli anzidetti motivi, ma menzionando soltanto l'art. 76 della Costituzione, ha rimesso la questione a questa Corte.

L'ordinanza é stata notificata il 22 ottobre 1965 al Presidente del Consiglio dei Ministri, mentre già ne era stata data comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 18 ottobre. É stata poi pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 326 del 31 dicembre dello stesso anno.

Davanti a questa Corte si é costituito soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento depositato l'11 dicembre 1965.

In quest'ultimo si sostiene in via principale l'inammissibilità della questione per inosservanza del precetto dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale l'ordinanza che solleva una questione di legittimità costituzionale deve indicare "le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate".

A parte l'inammissibilità di una motivazione per relationem, "nella fattispecie l'evidente erroneità ed irrilevanza del richiamo all'art. 76 della Costituzione" renderebbe "del tutto impossibile l'individuazione della norma costituzionale", dato che, mentre l'art. 76 riguarda l'esercizio della funzione di legislazione delegata, nel caso in esame viene in questione "una funzione tipicamente ed esclusivamente amministrativa, quale l'autorizzazione alla detenzione di capi di selvaggina indicati nell'art. 40 del T.U.". Di qui l'inammissibilità, "in applicazione del principio della evidenza prima facie della erroneità di valutazione della questione da parte del giudice a quo".

Subordinatamente l'Avvocatura sostiene l'infondatezza della questione. A tal proposito si richiama particolarmente alla sentenza n. 134 del 1963 di questa Corte, la quale ha escluso che la materia della caccia formi oggetto di riserva di legge; ed aggiunge che, del resto, nel caso ora in esame é la legge stessa a imporre il divieto di detenzione di selvaggina viva. L'autorità amministrativa può soltanto mitigare, attraverso provvedimenti autorizzativi, l'assolutezza del divieto, "allorché possa ritenere che la detenzione della selvaggina non sia incompatibile con la tutela delle specie pregiate". La possibilità dell'autorizzazione rappresenta perciò "una valvola di sicurezza" volta a far fronte alla "varietà delle molteplici situazioni". E l'eventuale cattivo uso del relativo potere "potrà trovare adeguata tutela in sede giurisdizionale, ma non inficia di illegittimità costituzionale la norma che astrattamente lo prevede".

In una memoria depositata il 13 gennaio 1967 l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle riferite tesi, e in particolare in quella dell'inammissibilità della questione sottoposta alla Corte. Nel merito si richiama al precedente rappresentato dalla sentenza di questa Corte n. 54 del 1964.

All'udienza di trattazione della causa l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle riferite conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato non appare fondata.

Dall'ordinanza di rimessione risulta con sufficiente evidenza l'oggetto della questione che il Pretore di Verona ha voluto sottoporre alla Corte. Essa denuncia l'art. 40 del vigente T.U. sulla caccia, il quale attribuisce al Comitato provinciale della caccia il potere di concedere permessi in deroga al generale divieto legislativo di detenzione di capi vivi di certe specie di selvaggina; e la denuncia pel fatto che la disposizione non fissa né limiti, né criteri direttivi al potere così conferito a una autorità amministrativa.

Nonostante che faccia richiamo, poco appropriatamente, all'art. 76 della Costituzione (il quale riguarda il diverso caso della delega di poteri legislativi), risulta poi abbastanza chiaro che l'ordinanza, facendo proprio l'assunto della difesa dell'imputato (la quale aveva invocato al riguardo anche gli artt. 41 e 42 della Costituzione), é partita dal concetto che, per principio costituzionale, nella materia in esame una legge non possa conferire alla autorità amministrativa un potere del genere di quello previsto dalla ricordata disposizione senza fissarne i limiti o i fondamentali criteri di applicazione, e ha inteso denunciare alla Corte appunto l'inosservanza di tale principio. Che essa abbia voluto deferirle una violazione di tal fatta risulta, del resto, anche dalle sentenze di questa Corte alle quali ha fatto richiamo (sentenze nn. 103 del 1957, 26 del 1961 e 134 del 1963).

Alla stregua dei propri precedenti giurisprudenziali (p. es., sentenze nn. 6 del 1962; 87, 105 e 149 del 1963; 40 del 1964) questa Corte ritiene che in tal modo il precetto costituzionale del quale si denuncia la violazione sia sufficientemente individuato, e che perciò l'eccezione sollevata dall'Avvocatura dello Stato sia da disattendere.

2. - La questione proposta dal Pretore di Verona é però infondata.

In base alla disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 40 del T.U. sulla caccia, contro cui si appuntano sostanzialmente le critiche dell'ordinanza di rimessione, "salvo che nelle bandite, nelle riserve e nelle zone di popolamento e cattura, é fatto divieto di detenere lepri, starne, pernici rosse, pernici sarde, coturnici e fagiani vivi a chi non ne abbia ottenuto il permesso scritto dal Comitato provinciale della caccia". La disposizione (la cui ratio é alquanto controversa) si inserisce nel sistema della tutela del patrimonio faunistico nazionale ed é volta, unitamente ad altro (art. 42 del T.U.), a favorire il rispetto delle specie animali in essa indicate, appartenenti alla categoria della selvaggina stanziale protetta (art. 3 del T.U.).

Coordinata col secondo comma dello stesso art. 40 - in base al quale chi, in qualsiasi tempo, venga in possesso di esemplari vivi delle specie indicate, non destinati a scopo di ripopolamento, deve (sotto comminatoria delle sanzioni penali previste dal terzo comma e del sequestro degli animali) darne avviso, entro 48 ore, agli organi locali degli enti preposti alla tutela della caccia, cui é demandato di provvedere alla loro destinazione - essa comporta che, fuori delle eccezioni contemplate nello stesso primo comma, e di quelle contemplate nel quinto comma (riguardanti gli esemplari tenuti nei giardini o istituti zoologici, nelle stazioni zootecniche sperimentali, negli osservatori ornitologici o in istituzioni similari), a nessuno é consentito né di far propri, a titolo originario, attraverso l'esercizio della caccia o altrimenti, né di acquistare a titolo derivativo per detenerli, esemplari vivi delle indicate specie animali, se non col permesso del Comitato provinciale della caccia, da rilasciare in funzione della destinazione.

É evidente che, da un lato il carattere derogatorio che é proprio del potere conferito al Comitato, dall'altro le finalità che la norma la quale lo prevede si propone di tutelare, comportano che il potere in questione sia tutt'altro che illimitatamente discrezionale, e che i permessi in cui esso si estrinseca debbano esser motivati; onde questi ultimi non sfuggono, anche nella sostanza, al sindacato di legittimità. Ma ben più decisive considerazioni militano per l'esclusione della fondatezza della questione proposta.

Innanzi tutto l'esercizio della caccia (sul quale questa Corte già ha avuto occasione di pronunciarsi con la sentenza n. 134 del 1963), e perciò l'acquisto della selvaggina attraverso la caccia, non rappresentano nel nostro ordinamento estrinsecazione di diritti garantiti dalla Costituzione. L'art. 42, secondo comma, di questa, demanda alla legge il compito di stabilire il regime di appartenenza dei beni e i modi di acquisto. E non urta contro tale precetto la legislazione sulla caccia allorché, come nel caso in esame, disciplina in quali situazioni e a quali condizioni la selvaggina - che prima della cattura é res nullius, e perciò non forma oggetto di proprietà (art. 934 del Codice civile e art. 2 del T.U. sulla caccia) - possa esser fatta propria dai singoli.

Né potrebbe dirsi che la riferita normativa dell'art. 40 del T.U. sulla caccia sia in contrasto con l'art. 41 della Costituzione. Questo infatti, se assicura la libertà dell'iniziativa economica privata, dispone che essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale. E nessuno potrebbe negare che la normativa in esame sia destinata a far fronte a interessi della comunità nazionale.

Il divieto ai proprietari, che dovesse considerarsi inerente alla normativa stessa, di trasferire a persone non autorizzate i capi di selvaggina vivi legittimamente posseduti, sarebbe poi (a parte ogni considerazione che potrebbe ricavarsi dall'istituzionale origine di res nullius della selvaggina) da ritenere, date le finalità della normazione, in piena armonia con quel disposto del secondo comma dell'art. 42 della Costituzione, in base al quale é consentito alla legge di imporre limiti alla proprietà privata al fine di assicurarne la funzione sociale.

Da quanto precede risulta che la Costituzione non esclude affatto la possibilità di un divieto legislativo del contenuto di quello enunciato nel primo comma dell'art. 40 del T.U. sulla caccia. E siccome nessuno può accampare un diritto ad agire o comportarsi in un modo legittimamente vietato dalla legge, é palese che il divieto stesso non incide nel campo dei diritti soggettivi, o - come si esprime l'ordinanza di rimessione - nel campo aperto alla libera espansione dell'"agire umano".

Poiché il divieto in esame é enunciato, delimitato e specificato direttamente dalla legge, é fuori luogo poi appellarsi, con riferimento ad esso, a quel principio costituzionale, invocato nell'ordinanza, secondo il quale un "potere di emanazione di atti limitativi dell'agire umano" non potrebbe esser conferito ad una autorità amministrativa "se non quando tale potere sia attribuito alla pubblica Amministrazione, indicandosi i criteri idonei per il raggiungimento di fini espressi e così delimitata la discrezionalità dell'organo deliberante"; ed é egualmente fuori luogo assumere che tale principio sarebbe stato violato nella specie.

3. - Risulta però dall'ordinanza che, nell'addurre una siffatta violazione, questa ha avuto piuttosto riguardo al potere dei Comitati provinciali (esso stesso tutt'altro che illimitatamente discrezionale, come si é detto) di concedere, per singoli casi, permessi in deroga al generale divieto. Sennonché, a parte il problema se, lì dove esista, il principio della riserva di legge, oltre alla esclusione della possibilità che una legge conferisca all'autorità amministrativa poteri di incidenza non sufficientemente delimitati nel campo dei diritti dei singoli, comporti altresì l'esclusione della possibilità di conferire poteri amministrativi discrezionali ordinati a dispensare i singoli dal sottostare ad incidenze operate direttamente dalla legge nella sfera dei loro diritti, un'altra considerazione é decisiva a tal proposito. Ed é che - come questa Corte ha avuto già occasione di affermare ad altro proposito con le sentenze n. 12 del 1963 e n. 54 del 1964 - , nei campi istituzionalmente non aperti alle libere determinazioni dei singoli, e cioè nei campi nei quali questi non hanno da vantare diritti soggettivi, non può esser considerata incostituzionale una legge, la quale, nell'ammettere la espansione dell'agire privato con l'assenso dell'autorità amministrativa, conferisca a questa poteri discrezionali, tanto per allargare, come per restringere, la sfera d'azione dei singoli.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, proposta con l'ordinanza indicata in epigrafe, nei confronti dell'art. 40 del T.U. delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, approvato con R.D. 5 giugno 1939, n. 1016.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 1967.

 

Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI  - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI

Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI  

 

 

Depositata in cancelleria il 24 aprile 1967.