SENTENZA N. 134
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 23 del R. D. 5 giugno 1939, n. 1016 (T. U. delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia), promosso con ordinanza emessa il 10 aprile 1962 dal Consiglio di Stato in s. g. - Sezione VI - su ricorso di Gentile Mauro ed altri contro il Ministero dell'agricoltura e foreste, iscritta al n. 194 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 320 del 15 dicembre 1962.
Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio dei Gentile e del Ministero dell'agricoltura;
udita nell'udienza pubblica dell'8 maggio 1963 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli;
uditi l'avv. Massimo Bisogni, per i Gentile, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Elio Vitucci, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministero dell'agricoltura.
Ritenuto in fatto
I signori Mauro, Pio, Guido e Roberto Gentile, con ricorso 10 ottobre 1960 al Consiglio di Stato in s. g., impugnavano il decreto del Ministro dell'agricoltura e foreste, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 6 settembre 1960, n. 3424, col quale, ai sensi dell'art. 23 del T.U. delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, si vietava la caccia nella zona della Provincia di Arezzo denominata Pieve a Maiano fino al 30 giugno 1966.
I ricorrenti, col primo motivo, sollevavano questione di legittimità costituzionale del detto art. 23 per contrasto con l'art. 76 della Costituzione e, col secondo, per contrasto con l'articolo 57 della Costituzione.
Il Consiglio di Stato, mentre disattendeva il secondo motivo, con ordinanza 10 aprile 1962 sospendeva di giudicare sul primo motivo, rimettendo gli atti a questa Corte.
Nell'ordinanza, ritenuta la rilevanza della questione, si osserva che essa non appare manifestamente infondata, in quanto il citato art. 23 attribuisce al Ministro un potere che equivale, quanto ai suoi effetti, al potere di rendere inoperanti norme legislative, dettate dalla stessa legge sulla caccia a garanzia dei cittadini, ossia, in sostanza, di derogare ad essi e quindi di esercitare una funzione legislativa al di fuori della ipotesi prevista dall'art. 76 della Costituzione.
L'ordinanza veniva notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, comunicata ai Presidenti delle due Camere e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 dicembre 1962, n. 320.
Si sono costituiti in giudizio i fratelli Gentile, rappresentati e difesi dall'avv. Massimo Bisogni, nonché il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell'agricoltura e delle foreste, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato.
Nelle loro deduzioni, depositate il 28 dicembre 1962, i fratelli Gentile sostengono l'incostituzionalità dell'art. 23 del T.U. sulla caccia, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, in quanto la delega in esso contenuta é data al Ministro invece che al Governo; faculta il Ministro a revocare o modificare le norme di legge e a utilizzare la delega per casi singoli; non contiene la determinazione dei principi e dei criteri direttivi; non é limitata nel tempo né definita quanto all'oggetto.
L'Avvocatura generale dello Stato, nelle deduzioni per il Ministero dell'agricoltura e nell'atto di intervento per il Presidente del Consiglio, esclude che nell'art. 23 possa ravvisarsi una delegazione legislativa, in quanto le norme che in base ad esso possono emanarsi non hanno valore di legge. Esse sono una manifestazione del potere di ordinanza e costituiscono una fonte primaria di secondo grado, prevista da una legge ordinaria e non dalla Costituzione, la quale, però, non ne esclude l'ammissibilità. Rientrando in quelle che un'autorevole dottrina qualifica ordinanze "libere", l'atto col quale vengono emanate ha natura meramente amministrativa, e non é assimilabile ad un provvedimento legislativo.
La difesa del Ministero osserva inoltre che non é contemplata dalla Costituzione una garanzia costituzionale del diritto di caccia; che l'attività venatoria é positivamente disciplinata come interesse legittimo; che la vigente disciplina legislativa di essa, mentre prevede una stagione venatoria ordinaria, attribuisce all'Amministrazione la possibilità di fronteggiare situazioni particolari mediante l'esercizio del potere di ordinanza, che istituzionalmente le appartiene.
In via gradata l'Avvocatura osserva che a non diverse conclusioni si giungerebbe considerando l'atto del Ministro come un regolamento delegato, in quanto si riconoscerebbe sempre ad esso la natura di atto amministrativo.
L'Avvocatura conclude perché sia dichiarata infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale.
In una memoria depositata il 24 aprile 1963 la difesa dei fratelli Gentile insiste sulla tesi che l'art. 23 del T.U. sulla caccia contiene una delega legislativa, mancante però dei requisiti prescritti dall'art. 76 della Costituzione. Si richiama, quindi, ad alcuni principi dell'ordinamento giuridico, tratti dalla Costituzione, dai Codici civile e penale e dalla stessa legge sulla caccia, sui quali si baserebbe il diritto soggettivo di caccia, che trova nella legge una diretta regolamentazione, la quale escluderebbe che l'art. 23 abbia potuto attribuire alla pubblica Amministrazione un potere di ordinanza libera; potere, peraltro, non previsto dalla Costituzione. Questa non consente neanche - si afferma infine nella memoria, a proposito della tesi subordinata dell'Avvocatura - l'esercizio della potestà regolamentare in materia interamente disciplinata dalla legge, non potendo il legislatore fare le norme e poi declassarle. Insiste quindi nella richiesta dichiarazione d'incostituzionalità dell'art. 23 della legge sulla caccia.
Nella discussione orale le difese della Presidenza del Consiglio e dei fratelli Gentile hanno ribadito le loro tesi.
Considerato in diritto
L'art. 23 del R.D. 5 giugno 1939, n. 1016, non contiene, a giudizio di questa Corte, una delegazione legislativa.
Esso prevede l'emanazione, da parte del Ministro dell'agricoltura, di un provvedimento che, in considerazione del verificarsi di determinati interessi pubblici concreti, ponga temporaneamente particolari restrizioni all'esercizio della caccia, disciplinato, in linea generale, dalla legge stessa.
É noto che, nel nostro sistema legislativo, l'esercizio della caccia é sottoposto ad autorizzazione amministrativa (licenza di caccia) ed é limitato ad alcuni periodi dell'anno, stabiliti dalla legge; la stessa legge però soggiunge, nell'articolo in discussione, che il Ministro per l'agricoltura e per le foreste, "nell'interesse della protezione di una o più specie di selvaggina, può restringere il periodo di caccia o di uccellagione o vietare le medesime, sia in modo generale e assoluto, sia per talune forme di caccia o specie di selvaggina o per determinate località".
Con tale disposizione viene attribuita al Ministro per l'agricoltura una competenza, la quale trova la sua ragione nella necessità che, ove si verifichino particolari circostanze che pongano in pericolo una o più specie di selvaggina, si possa tempestivamente provvedere ad assicurare la protezione di esse, mediante quelle misure limitatrici dell'esercizio della caccia che siano richieste dalle predette circostanze, debitamente accertate e valutate dalla pubblica Amministrazione.
Il potere in tal modo conferito al Ministro si manifesta in atti soggetti al regime degli atti amministrativi quanto alla causa, alla forma, all'efficacia, al sindacato di legittimità. Restando così escluso che l'art. 23 contenga una delegazione a emanare atti "che abbiano valore di legge ordinaria" (art. 77, primo comma, della Costituzione), la disposizione in esso contenuta non cade sotto la norma dell'art. 76 della Costituzione.
Né l'attribuzione della sopra indicata competenza alla pubblica Amministrazione trova ostacolo nella riserva legislativa, giacché la materia della caccia non forma oggetto, nel nostro ordinamento, di tale riserva, ed il fatto che la legge ordinaria abbia regolato la materia con maggiore o minore ampiezza non significa che abbia con ciò costituito una riserva di legge.
Dalle esposte considerazioni tuttavia non deriva che dei poteri conferitigli il Ministro possa fare un uso illimitato e insindacabile.
Questa Corte ha già avuto occasione di rilevare come sia ammissibile che la legge ordinaria attribuisca all'autorità amministrativa l'emanazione di atti anche normativa, purché indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell'organo a cui il potere viene attribuito (
sentenza n. 26 del 1961 e, precedentemente, sentenza n. 103 del 1957).Nel caso presente, i limiti del potere attribuito al Ministro risultano dal complesso della legge sulla caccia, la quale per ipotesi e fini diversi da quelli considerati nell'art. 23 prevede altre forme di pubblici interventi (come la costituzione di zone di ripopolamento), e risultano dalla stessa formulazione del detto articolo. Infatti, l'ampia enunciazione del possibile contenuto del provvedimento ministeriale ("può restringere il periodo di caccia " o vietarla; "in modo generale e assoluto", o "per talune forme di caccia, e specie di selvaggina, o per determinate località"), più che indicare la vastità del potere attribuito al Ministro, indica la necessità che il provvedimento da adottare corrisponda alla precisa individuazione delle esigenze da soddisfare sia conforme a queste il contenuto e l'estensione delle imposte limitazioni.
L'emanazione del provvedimento dovrà, pertanto, trovare il suo fondamento nel fatto che si siano verificate delle circostanze, non specificamente previste dal legislatore, le quali abbiano provocato l'insorgere di un interesse a una particolare protezione di una determinata specie, o di più determinate specie, di selvaggina, e, con tale interesse, abbiano determinato la necessità di un sollecito e adeguato intervento.
Palese sarebbe, invece, l'illegittimità dell'uso del potere previsto dall'art. 23, se fosse diretto alla tutela di un interesse diverso da quello innanzi indicato, come, ad es., l'interesse al ripopolamento di una zona o l'interesse turistico di una località.
Inoltre, la discrezionalità degli apprezzamenti della pubblica Amministrazione non é sottratta ai comuni mezzi di tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi. Da ciò consegue che dovrà risultare dal contesto del provvedimento ministeriale, perché sia reso possibile l'esperimento di tali mezzi, lo specifico interesse all'attuazione di particolari misure di protezione della selvaggina, debitamente e concretamente valutato dall'Amministrazione.
Discende, infine, dal carattere della competenza attribuita al Ministro e dalla funzione assegnata al suo intervento, la necessaria temporaneità del provvedimento, la cui durata dovrà congruamente corrispondere alle peculiarità delle condizioni che ne hanno provocato l'emanazione.
É indagine riservata al giudice della legittimità degli atti amministrativi stabilire se nei singoli casi il Ministro abbia fatto retto uso del potere attribuitogli e si é mantenuto entro i limiti sopra indicati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23 del T.U. delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, approvato con R.D. 5 giugno 1939, n. 1016, in riferimento all'art. 76 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1963.
GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE
GIUSEPPE CHIARELLI, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 13 luglio 1963.