SENTENZA N. 105
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 12 aprile 1949, n. 149, modificato dall'art. 14 della legge 8 aprile 1952, n. 212, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 aprile 1962 dal Consiglio di Stato in s. g., Sezione IV, su ricorso di Arcamone Mario contro il Ministero del tesoro, iscritta al n. 173 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gaztetta Ufficiale della Repubblica n. 286 del 10 novembre 1962;
2) ordinanza emessa il 19 ottobre 1962 dal Consiglio di Stato in s. g., Sezione IV, su ricorso di Calandruccio Guido contro il Ministero del tesoro, iscritta al n. 52 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 67 del 9 marzo 1963.
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero del tesoro e di Arcamone Mario e Calandruccio Guido;
udita nell'udienza pubblica del 22 maggio 1963 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;
uditi l'avv. Franco Arcamone, per Arcamone Mario, l'avv. Nunzio Sciacca, per Calandruccio Guido, e il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Ministero del tesoro.
Ritenuto in fatto
1. - Nel giudizio promosso dal ten. col. della riserva Mario Arcamone, impiegato dell'Istituto poligrafico dello Stato, contro l'Amministrazione del tesoro, la quale, in applicazione dell'art. 14 della legge 12 aprile 1949, n. 149, modificato dall'art. 14 della legge 8 aprile 1952, n. 212, aveva disposto la riduzione della pensione dell'anzidetto ufficiale, in quanto fruente in atto di uno stipendio da parte di un ente pubblico, il Consiglio di Stato, Sezione IV, in accoglimento di eccezione sollevata dal ricorrente, ha deferito a questa Corte, con ordinanza 3 aprile - 27 luglio 1962, n. 490, la questione di legittimità costituzionale - ritenuta rilevante e non manifestamente infondata ai sensi degli artt. 4, 35, 36 e 37 della Costituzione - delle anzidette disposizioni, le quali non consentono il cumulo di una pensione ordinaria con uno stipendio se non entro il limite massimo di lire 60 mila. In particolare l'ordinanza si richiama all'art. 4 della Costituzione, che obbliga lo Stato a promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro, e all'art. 36, in base al quale la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e quantità di lavoro. Aggiunge l'ordinanza che anche l'evoluzione della legislazione a partire dalla legge 11 aprile 1938, n. 420, attraverso la legge 21 maggio 1940, n. 528, e il D.Lg. 21 novembre 1945, fino alle leggi impugnate - evoluzione che é venuta temperando l'originaria assoluta incumulabilità di pensioni e stipendi dei dipendenti statali - testimonierebbe dell'incompatibilità del divieto di cumulo coi principi accolti dalla Costituzione.
L'ordinanza é stata notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 25 settembre 1962, é stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 22 settembre 1962 ed é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 10 novembre 1962, n. 286.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti il ten. col. Arcamone, depositando mandato e deduzioni in data 10 novembre 1962 e il Ministero del tesoro, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, depositando deduzioni in data 22 novembre 1962.
L'Arcamone si riporta sostanzialmente agli argomenti esposti nell'ordinanza, richiamando, oltre agli artt. 4 e 36 della Costituzione, il principio costituzionale della tutela del lavoro, risultante dagli artt. 1 e 35 e quello del diritto dei lavoratori alla previdenza sociale, risultante dall'art. 38.
In una memoria depositata il 9 maggio 1963 egli, mentre si richiama a tutti i riferiti articoli della Costituzione, sottolinea in particolare che la pensione rappresenta una forma di corrispettivo per un lavoro già prestato, e, tanto più in quanto a costituire il relativo fondo contribuisce lo stesso impiegato, la decurtazione di essa viene a risolversi in una ingiustificata riduzione del corrispettivo rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Conclude, pertanto, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate.
L'Avvocatura dello Stato nelle sue deduzioni esclude che le norme impugnate contrastino con l'art. 4 della Costituzione, in quanto non limitano in alcun modo il diritto del pensionato di procurarsi una occupazione retribuita; esclude inoltre che esse contrastino con l'art. 36 della Costituzione, giacché operano sulla pensione del pubblico impiegato e non sulla retribuzione, alla quale soltanto si riferisce l'art. 36.
In una memoria depositata il 7 maggio 1963 l'Avvocatura, nel riaffermare i propri concetti, osserva, in particolare, che il tratta mento di quiescenza (il quale non rappresenta affatto una retribuzione differita) é estraneo alla materia disciplinata dall'art. 36 della Costituzione: presentando i caratteri dell'assistenza e della previdenza, esso ricade invece nell'art. 38, non evocato nella presente controversia. Pertanto conclude perché la questione sollevata dal Consiglio di Stato sia dichiarata infondata.
2. - Identica questione é stata sottoposta a questa Corte, con analoga motivazione, con ordinanza del Consiglio di Stato, Sezione IV, 19 ottobre 1962 - 9 gennaio 1963, n. 6, nel giudizio proposto dal col. della riserva Calandruccio Guido, ammesso, successivamente allo sfollamento, per un certo periodo, nei ruoli statali dei maestri elementari, avverso il provvedimento dell'Amministrazione del tesoro che disponeva il ricupero della parte di pensione di ufficiale da lui percepita, durante il servizio di maestro elementare, al di là dei limiti quantitativi fissati dalle ricordate leggi del 1949 e 1952.
L'ordinanza del Consiglio di Stato é stata notificata al Ministero del tesoro e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri 1'8 febbraio 1963 e al ricorrente 1'11 febbraio successivo; é stata comunicata al Presidente della Camera dei Deputati il 22 febbraio e a quello del Senato il 23 febbraio; é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 marzo 1963, n. 67.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti il Ministero del tesoro, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, depositando deduzioni in data 26 marzo 1963 e il Calandruccio, depositando mandato e deduzioni in data 27 marzo successivo. Entrambe le parti hanno presentato memorie in data 9 maggio.
La difesa del Calandruccio nelle deduzioni si riporta integralmente alle argomentazioni svolte in quest'ultima ordinanza; nella memoria invoca, a sostegno di tali argomentazioni, la tesi che ravvisa nella pensione una retribuzione differita del lavoro prestato. Conclude per la dichiarazione di illegittimità delle disposizioni impugnate.
L'Avvocatura dello Stato nei suoi scritti difensivi ripete le stesse argomentazioni e conclusioni del giudizio promosso con l'ordinanza del Consiglio di Stato nel ricorso Arcamone.
Considerato in diritto
1. - Le due ordinanze del Consiglio di Stato indicate in epigrafe sollevano le medesime questioni di legittimità costituzionale. Perciò i due giudizi vengono riuniti e decisi con unica sentenza.
2. - Le norme della Costituzione, alla stregua delle quali le due ordinanze chiedono che la Corte operi il riscontro di legittimità della limitazione - prevista dall'art. 14 della legge 12 aprile 1949, n. 149, modificato dall'art. 14 della legge 8 aprile 1952, n. 212 della cumulabilità, per i dipendenti dello Stato e di altri enti pubblici, di un trattamento ordinario di pensione a carico della finanza pubblica con un trattamento di attività pur esso a carico della finanza pubblica, sono quelle degli artt. 4, 35, 36 e 37. La Corte, quindi, non ha ragione di raffrontare le norme impugnate con l'art. 38 della Costituzione, invocato nelle difese delle parti private, del resto non a proposito, giacché esso riguarda solo i casi di inabilità al lavoro momentanea o definitiva e i casi di disoccupazione.
Tanto l'ordinanza, quanto la difesa delle parti private insistono, del resto, particolarmente su quel precetto dell'art. 36, secondo il quale "il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro". Osserva in proposito il Consiglio di Stato che "la decurtazione della quota del trattamento di quiescenza eccedente le lire 60 mila viene ad alterare la corrispondenza fra corrispettivo e prestazione che la Costituzione impone e che é un aspetto considerevole della tutela del lavoro, costituzionalmente fermata". Analogo ragionamento viene fatto dalle parti private, le quali esplicitamente argomentano dalla configurazione della pensione come forma e parte "differita" della retribuzione.
Le disposizioni impugnate - le quali rappresentano, per il personale statale, una mitigazione della regola generale della incumulabilità assoluta di pensioni ordinarie e stipendi, enunciata nell'art. 1 della legge 11 aprile 1938, n. 420 (v. anche l'art. 10, ultimo comma, del D. Lg. 21 novembre 1945, n. 722), mentre importano, a un tempo, l'estensione del limite di cumulabilità al personale degli enti pubblici (per il quale in precedenza mancava in tali sensi una regola di carattere generale) - si inseriscono in un più vasto quadro, nel quale rientrano anche le altre disposizioni limitative della cumulabilità dei trattamenti di attività e dei trattamenti di pensione. Basterà ricordare, in proposito, l'art. 99 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2960, modificato da ultimo dall'art. 16 del D.P.R. 11 gennaio 1956, n. 19 (e tenuto fermo dall'art. 65 del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3), riguardante i limiti di cumulabilità degli stipendi statali, l'art. 21 della legge 18 marzo 1958, n. 311, riguardante la riduzione degli stipendi dei professori universitari incaricati i quali prestino opera retribuita alle dipendenze dello Stato o di altri soggetti, l'art. 188 del T.U. 21 febbraio 1895, n. 70, il quale esclude in via generale "il cumulo di più pensioni di riposo a carico del bilancio generale dello Stato".
Particolarmente le parti private hanno insistito sul fatto che l'imposizione del limite di cumulabilità contenuto nelle disposizioni di cui é causa crea notevoli disparità. In effetti esse riducono in modo indifferenziato a lire 60 mila le pensioni eccedenti tale somma, di cui sono beneficiari i soggetti in attività di servizio presso un ente pubblico, tanto se abbiano diritto a una pensione più elevata o meno elevata, quanto se godano in atto di uno stipendio più importante o meno importante; sottopongono a tale decurtazione indifferenziatamente anche coloro i quali abbiano concorso ad assicurarsi il conseguimento di una pensione mediante il versamento di contributi volontari, nonché coloro nei confronti dei quali non si produca un cumulo di anzianità tra il vecchio e il nuovo rapporto d'impiego ai fini di una liquidazione unitaria della pensione alla cessazione del secondo rapporto d'impiego; fanno salvi da ogni decurtazione, sia quei pubblici impiegati i quali anziché un trattamento di pensione abbiano conseguito, alla cessazione del precedente rapporto di lavoro presso un ente pubblico, una diversa forma di trattamento di quiescenza, sia coloro i quali alla cessazione del rapporto di impiego pubblico si siano procurato un lavoro retribuito presso soggetti privati (magari anche a partecipazione pubblica parziale o addirittura totale) o si siano dedicati ad altre forme di attività produttiva. E sarebbe certamente opportuno che il legislatore portasse la propria attenzione su tali sperequazioni.
Nondimeno la Corte non ravvisa nelle disposizioni impugnate i vizi di legittimità denunciati con le ordinanze di rimessione.
3. - Con riferimento all'art. 36 della Costituzione, é da osservare che, qualsiasi concezione voglia accogliersi circa la natura della pensione (e cioé, non solo se la si raffiguri come una forma assicurativa, e la si consideri come partecipe, a un tempo, dei caratteri dell'assistenza e della previdenza , ma anche se la si concepisca come una retribuzione differita), non può negarsi che essa assolva un ruolo previdenziale. Se così é - se cioé la pensione, pur quando la si voglia considerare come parte differita della retribuzione, é destinata essenzialmente a garantire, a chi se ne sia assicurato il diritto (o ai suoi familiari, in caso di sua morte), una entrata periodica idonea a fronteggiare, avuto riguardo alla situazione personale e familiare dei beneficiari, i bisogni della vita nel periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro cui essa accede, essenzialmente in considerazione del fatto che in tale periodo viene a mancare (all'interessato o ai suoi familiari) quella importante fonte di reddito che é rappresentata dal posto di lavoro di cui trattasi -, non può ritenersi contraddire con l'art. 36 della Costituzione, e più precisamente col principio della proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, il fatto che il trattamento pensionistico venga ridotto quando con esso concorra il godimento di un qualche trattamento di attività. Il godimento di quest'ultimo viene infatti, quanto meno, a ridurre l'esigenza previdenziale (per natura variabile da situazione a situazione), in funzione della quale la provvidenza pensionistica fu predisposta.
Non può dunque dirsi che la decurtazione prevista dalle disposizioni impugnate incida sulla retribuzione. Pur ammettendo che il diritto alla pensione nel concorso delle condizioni volute dalle norme in vigore rappresenti un elemento integrativo del trattamento economico del prestatore d'opera, non si può affermare, infatti, che a tale diritto corrisponda un invariato e invariabile obbligo di prestazione patrimoniale dell'ente datore di lavoro. Anzi é proprio della natura della pensione, in correlazione alla funzione cui essa assolve, di collegarsi, nell'an e nel quantum, alla particolare situazione personale e familiare degli aventi diritto al momento del verificarsi dell'evento generatore della situazione pensionistica, tanto che, per esempio, indipendentemente dalla quantità e qualità del lavoro prestato, da un lato, alla morte del lavoratore in attività di servizio che abbia maturato il diritto alla pensione, non viene liquidata una pensione se non nel caso di sopravvivenza di familiari aventi titolo a conseguirla, mentre negli altri casi nessun diritto viene riconosciuto agli eredi; e, dall'altro, le prestazioni dell'ente tenuto al pagamento della pensione sono diverse a seconda del numero e della posizione giuridica dei familiari sopravvissuti. Onde non può dirsi che in simili casi vi sia lesione del ricordato precetto dell'art. 36 della Costituzione: é da escludere, infatti, che il diritto proclamato da tale precetto sia in alcun modo sacrificato quando l'evento idoneo a far scattare il meccanismo pensionistico (secondo una previsione normativa di carattere generale) non si sia affatto verificato o si sia verificato in modo diverso da quello che avrebbe dato diritto a un trattamento più vantaggioso.
Allo stesso modo non può considerarsi in contrasto col riferito precetto costituzionale che l'ordinamento venga a un certo punto modificato - purché in maniera non arbitraria - nel senso di configurare in modo meno favorevole per i beneficiari l'evento idoneo a far scattare l'attribuzione della pensione.
4. - Stabilito in tal modo che non urtano contro il ricordato precetto dell'art. 36, é facile dimostrare che le disposizioni impugnate non urtano neanche col precetto dell'art. 35 della Costituzione, secondo il quale "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", o con quello dell'art. 37, nel quale risulta consacrato il principio della parità di retribuzione a parità di prestazioni lavorative da parte di qualsiasi soggetto. Se la correlazione della pensione alla situazione particolare dell'avente diritto inerisce alla natura stessa dell'istituto pensionistico, é da escludere, infatti, che i riferiti precetti costituzionali risultino in alcun modo lesi da disposizioni, le quali, senza essere arbitrarie, limitino, in presenza di redditi di lavoro in atto, il diritto alla pensione.
5. - Con riferimento poi al precetto dell'art. 4 della Costituzione, secondo il quale "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto", la Corte osserva che neanche ad esso può derivare alcuna lesione dalle disposizioni impugnate.
A parte i dubbi avanzati circa l'inerenza a tale precetto di un dovere del legislatore di non escludere dall'accesso all'impiego presso enti pubblici i soggetti i quali - volontariamente, o per ragioni di salute, di età e di altro genere - siano cessati da un precedente rapporto di pubblico impiego, fruendo, in atto, di un trattamento pensionistico, é da osservare infatti che l'imposizione di un limite alla cumulabilità di una pensione con uno stipendio, entrambi a carico della finanza pubblica, non importa né una incidenza sul diritto al lavoro - inteso dall'art. 4 della Costituzione nel senso generico di possibilità giuridica di avere accesso, quando se ne posseggano i requisiti legittimamente prefissati, ai posti di lavoro disponibili -, né una compressione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto - condizioni Consistenti nella determinazione e nel mantenimento ad opera dello Stato di una situazione di fatto tale da aprire concretamente alla generalità dei cittadini la possibilità di procurarsi un posto di lavoro.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunisce i giudizi di legittimità costituzionale proposti con le due ordinanze del Consiglio di Stato indicate in epigrafe;
dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale del l'art. 14 della legge 12 aprile 1949, n. 149, modificato dall'art. 14 della legge 8 aprile 1952, n. 212, in riferimento agli artt. 4, 35, 36 e 37 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 1963.
GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE
ALDO SANDULLI, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 22 giugno 1963.