Corte di Cassazione, Sezione prima, ordinanza 10 marzo
- 22 settembre 2008, n. 23934
Presidente Luccioli
- Relatore Salmè
Svolgimento
del processo
Con decreto del 25 ottobre 2006 il
tribunale di Milano ha respinto il ricorso proposto da A. C. e G. F., in
proprio e quali esercenti la potestà sul figlio G., nato a omissis il omissis,
diretto a ottenere la rettificazione dell'atto di nascita nella parte in cui ha
attribuito al figlio stesso il cognome paterno invece che quello materno, come
richiesto dal padre al momento della denuncia di nascita.
La corte d'appello di Milano, con decreto
del 19 febbraio
La corte territoriale ha inoltre affermato
che ogni ulteriore considerazione in diritto sarebbe stata superflua alla
stregua delle motivazioni espresse dalla sentenza della corte
costituzionale n. 61 del 2006, che ha dichiarato inammissibile la questione
di costituzionalità delle norme che prevedono che il figlio nato nel matrimonio
acquisti automaticamente il cognome paterno, in quanto la soluzione richiesta
avrebbe comportato un'operazione manipolativa esorbitante dai propri poteri. A
identica conclusione è giunta la sentenza di questa corte n. 16093 del 2006
che ha ritenuto insormontabile la norma di sistema che attribuisce al figlio
legittimo il cognome paterno, spettando al legislatore ridisegnare la materia
in senso costituzionalmente adeguato. D'altra parte la commissione giustizia
del Senato, dopo avere esaminato diversi disegni di legge, ha redatto un testo
unificato, comunicato alla presidenza il 22 gennaio 2007, che prevede la
possibilità per i genitori di scegliere se attribuire al figlio il cognome
paterno o quello materno e tale iniziativa legislativa, sollecitata dalla corte
costituzionale, conferma la persistente vigenza del sistema contestato dai
reclamanti, rispetto alla quale il giudice non ha spazio per adottare soluzioni
difformi.
Avverso il decreto della corte d'appello
di Milano C. A. e L. F. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in tre
motivi.
Motivi
della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo il vizio di violazione
di legge, nel senso di erronea affermazione dell'esistenza di una norma, i
ricorrenti censurano l'affermazione della corte territoriale secondo la quale
(conformemente a quanto ritenuto con la sentenza di questa corte n. 16093/2006)
esisterebbe una norma di sistema che attribuisce al figlio legittimo il cognome
paterno, dovendo invece ritenersi che la disciplina applicabile sia dettata da
una norma consuetudinaria.
A tal fine si afferma che i dati testuali
dai quali è stata desunta la norma implicita sarebbero quantitativamente e
qualitativamente insufficienti per giustificare la conclusione raggiunta, sia
perché le disposizioni di legge indicate (articoli 237, 262 e 299 c.c. e
articoli 33 e 34 d.p.r. n. 396/2000) sarebbero eterogenee, sia perché,
comunque, non sarebbero univoche nell'autorizzare l'opinione secondo la quale
le norme stesse presuppongono una norma implicita sull'automatica attribuzione
al figlio legittimo del cognome paterno, potendo intendersi come semplici prese
d'atto di una consuetudine sociale nel senso indicato.
Con il secondo motivo, prospettando un
altro profilo di violazione o in subordine di falsa applicazione di legge, i
ricorrenti affermano che, anche ad ammettere che la materia sia regolata non da
una consuetudine ma da una norma di legge implicita, la corte territoriale
avrebbe errato nell'attribuire a tale norma la portata di vietare
l'attribuzione del cognome materno anche in caso di concorde volontà dei
coniugi, non avendo tenuto presente che l'automatica attribuzione del cognome
paterno incontra il duplice limite del principio della libertà di scelta del
cognome dei figli, desumibile dagli articoli 262 c. c. e 33, n. 1 d.p.r. n.
396/2000 e dell'esigenza di garantire l'eguaglianza dei coniugi di cui agli
articoli 2, 3 e 29 Cost., 143 e 144 c.c., 8 e 14 della convenzione europea dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, 3, 137 e 141 del trattato istitutivo Ce e alla dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo adottata in sede ONU il 10 dicembre 1948 e alla
convenzione europea sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna, adottata nella stessa sede il 18 dicembre 1979.
Con il terzo motivo, per il caso di
mancato accoglimento dei precedenti motivi, i ricorrenti sollecitano una nuova
rimessione della questione alla corte costituzionale, prendendo atto che la
stessa corte con la sentenza n. 61 del
2. Con sentenza n. 16093 del 2006 questa corte,
decidendo su ricorso dei coniugi C.-F. proposto nei
confronti di provvedimento negativo della corte d'appello di Milano su
richiesta, analoga a quella di cui è causa, relativa ad altro figlio, preso
atto che, con sentenza n. 61 del 16 febbraio 2006, la corte costituzionale ha
dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 143 bis c.c.; artt. 236 c.c.; art.
237 c.c., comma 2, art. 262 c.c.; art. 299 c.c., comma 3, D.P.R. n. 396 del
2000, artt. 33
e 34, nella parte in cui prevedono che tale attribuzione debba avvenire
automaticamente anche quando vi sia una diversa volontà dei genitori, in
riferimento agli articoli 2, 3 e 29, 2° comma cost. - sollevata con ordinanza
n. 13298/2004 - sul rilievo che, anche
in relazione al circoscritto petitum della predetta ordinanza (limitato alla
richiesta di esclusione dell'automatismo della attribuzione al figlio del
cognome paterno nella sola ipotesi di manifesta concorde volontà dei coniugi in
tal senso) resterebbe aperta tutta una serie di opzioni e, quindi, che
“l'intervento che si invoca richiede un'operazione manipolativa esorbitante dai
poteri della Corte”, ha ritenuto che all'accoglimento del ricorso si oppone la
sussistenza della norma attributiva del cognome paterno al figlio legittimo -
sia pure “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” e sia pure non
in sintonia con le fonti sopranazionali (che impongono agli Stati membri
l'adozione di misure adeguiate ad eliminare discriminazioni di trattamento nei
confronti della donna) che spetta comunque al legislatore ridisegnare in senso
costituzionalmente adeguato -.
Ritiene il collegio che la soluzione alla
quale la corte è in precedenza pervenuta meriti di essere riesaminata alla luce
di alcune circostanze sopravvenute e a tal fine sia opportuno rimettere gli
atti al primo presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite.
3.1. Com'era stato già segnalato con l'ordinanza
17 luglio 2004, n. 13298 ed è stato ribadito con la sentenza della corte
costituzionale n. 61 del 2006, la norma sull'automatica attribuzione del
cognome paterno al figlio legittimo, anche in presenza di una diversa contraria
volontà dei genitori, desumibile dal sistema normativo, in quanto presupposta
dagli articoli 237, 262 e 299 c.c. nonché dall'art. 72, 1° comma del r.d. n.
1238/1939 e, ora, dagli articoli 33 e 34 d.p.r. n. 396 del 2000, oltre a non
essere più coerente con i principi dell'ordinamento, che ha abbandonato la
concezione patriarcale della famiglia, e con il valore costituzionale
dell'eguaglianza tra uomo e donna, si pone in contrasto con alcune norme di
origine sopranazionale.
A parte, infatti la risoluzione del
Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa 27 settembre 1978 n. 37 (che
invita gli Stati membri a eliminare ogni discriminazione fondata sul sesso
nella scelta del nome della famiglia e nella trasmissione dei nomi dai genitori
ai figli) e le raccomandazioni del Consiglio d'Europa del 28 aprile 1995 n.
1271 (che chiede agli Stati membri di adottare misure appropriate per garantire
una rigorosa eguaglianza tra i coniugi nella scelta del nome della famiglia) e
18 marzo 1998, n. 1362 (che, nel reiterare gli inviti precedentemente
formulati, chiede agli Stati membri di indicare entro quale termine adotteranno
le misure antidiscriminatorie), la norma di cui si discute appare contrastante
con l'art. 16, 1° comma lettera g) della convenzione sull'eliminazione di ogni
forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18
dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1958, n. 132, che
impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare
la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti
dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare “gli
stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del
cognome”.
Della violazione degli articoli 8 e 14
della convenzione europea sui diritti dell'uomo la Corte di Strasburgo ha
discusso in alcuni casi aventi ad oggetto vicende relative al nome patronimico.
In particolare nei casi Unal Teseli c. Turchia (sentenza 16 febbraio 2005, che
ha dichiarato priva di qualsiasi giustificazione oggettiva e ragionevole, in
quanto non necessaria per soddisfare esigenze di salvaguardia dell'unità
familiare, la norma che imponeva alla donna la perdita del cognome d'origine,
in caso di matrimonio, o che, a seguito di recenti modifiche della legislazione
turca, consente solo l'aggiunta di tale cognome a quello del marito), Stjerna c. Finlandia (sentenza 24 ottobre 1994, che,
pur ammettendo che decisioni degli Stati membri in ordine al nome possono
violare le disposizioni citate, ha in concreto negato la sussistenza di tale
violazione nel rifiuto di consentire il cambiamento del nome usato da oltre
duecento anni dalla famiglia del richiedente), Bourgertz c. Svizzera (sentenza 24 gennaio 1994, che ha
dichiarato costituire violazione degli articoli 8 e 14 il rifiuto dell'autorità
svizzera di consentire al marito di aggiungere al nome della moglie, scelto dai
coniugi come nome della famiglia, anche il proprio cognome d'origine). Non va
tralasciato, inoltre, che l'art. 5 del settimo protocollo addizionale della
convenzione, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 stabilisce che i coniugi
godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra
di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante
il matrimonio e in caso di suo scioglimento.
In una fattispecie particolare (si
trattava di figli di padre spagnolo e madre belga, con doppia cittadinanza
spagnola e belga, ai quali il Belgio, stato di residenza, aveva attribuito il
cognome paterno che il padre voleva correggere nel doppio cognome) anche la
Corte di giustizia CE (sentenza 2 ottobre 2003, n. C-148/02) è intervenuta ad
affermare che il comportamento dello Stato di residenza che rifiutava la
correzione costituisce discriminazione in base alla nazionalità vietata dagli
articoli 12 e 17 del Trattato.
Gli articoli 3 e 23, 4° comma del Patto
internazionale sui diritti civili e politici adottato dall'assemblea generale
dell'ONU il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del
25 ottobre 1977, prevedono, rispettivamente, l'impegno degli Stati a garantire
l'eguale diritto degli uomini e delle donne a godere dei diritti civili e
politici previsti dal Patto e ad adottare le misure per garantire ai coniugi
l'eguaglianza nel rapporto matrimoniale e al momento dello scioglimento di tale
rapporto.
3.2. Con le sentenze n. 348 e 349 del 24
ottobre 2007 la corte costituzionale ha affermato che il nuovo testo dell'art.
117, 1° comma cost., colmando la lacuna esistente nella disciplina previgente,
in conseguenza della quale “la violazione di obblighi internazionali derivanti
da norme di natura convenzionale non contemplate dall'art. 10 e dall'art. 11
cost. da parte di leggi interne comportava l'incostituzionalità delle medesime
solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali” (così la sent. n. 348/2007),
ha previsto l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme con
la conseguenza che la norma nazionale con le stesse incompatibile viola per ciò
stesso l'art. 117, 1° comma cost., perché la norma convenzionale, alla quale la
norma costituzionale fa rinvio “mobile”, dà vita e contenuto a quegli obblighi
internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere
comunemente qualificata “norma interposta” (sent. 348/07).
Ora, poiché nessuna delle norme
convenzionali indicate al precedente paragrafo rientra nella sfera di
applicazione degli articoli 10 e 11 cost. (che il Patto internazionale sui
diritti civili e politici, benché approvato dall'assemblea dell'ONU, non abbia
natura di norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, in quanto
di formazione convenzionale e non consuetudinaria, è stato affermato da corte
cost. n. 15 del 1996, con considerazioni immediatamente applicabili anche alla
convenzione di New York del 18 dicembre 1979, mentre, per l'esclusione delle
norme CEDU dalle fattispecie di cui agli articoli 10 e 11 cost., cfr. le citate
sentenze nn. 348
e 349/2007),
ne deriva che la possibilità di utilizzarle come norme interposte e quindi come
parametri del giudizio di costituzionalità delle norme interne (non presa in
considerazione dalla sentenza n. 61 del
2006) è sorta soltanto a seguito dell'approvazione del nuovo art. 117, 1° comma
cost., come interpretato con le sentenze nn. 348 e 349/2007.
Quindi solo attualmente il giudice ha la possibilità di percorrere la duplice
alternativa strada dell'interpretazione della norma sull'applicazione
automatica del cognome paterno al figlio legittimo, anche in caso di concorde
difforme volontà dei genitori, in senso costituzionalmente orientato al rispetto
dei parametri desumibili dalle norme convenzionali indicate al paragrafo
precedente ovvero, nel caso in cui ritenga che il testo della norma (nella
specie, come rilevato, si tratta tuttavia di norma implicita nel sistema) non
consenta questa operazione ermeneutica, di valutare se non sia manifestamente
infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma stessa.
4. Il 13 dicembre 2007 i capi di Stato e di governo dei
ventisette membri dell'Unione europea hanno sottoscritto a Lisbona il trattato
che modifica il trattato sull'Unione e quello istitutivo della Comunità
europea. Oltre a modifiche formali ai testi dei trattati indicati (la parità
tra donne e uomini è oggetto dell'art. 1 bis e la lotta alla discriminazione e
la promozione della parità è oggetto dell'art. 2, 3° comma, secondo periodo del
trattato sull'Unione), l'art. 6 del nuovo trattato riconosce i diritti, le
libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione,
sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000 dai presidenti del parlamento europeo,
del consiglio e della commissione e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007
(l'art. 7 afferma il diritto al rispetto della vita privata e familiare, l'art.
21 vieta ogni discriminazione fondata sul sesso, l'art. 23 assicura la parità
tra uomini e donne) e prevede l'adesione alla convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, stabilendo, comunque, che i diritti
fondamentali garantiti da detta convenzione e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri costituiscono principi generali del
diritto dell'Unione.
Con la ratifica del trattato di Lisbona di
cui alla L. 2 agosto 2008, n. 130, si dovrebbe quindi aprire la strada
all'applicazione diretta delle norme del trattato stesso e di quelle alle quali
il trattato fa rinvio e, comunque, al controllo di costituzionalità che, anche
nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, non può essere escluso:
a) quando la legge interna è diretta ad impedire o pregiudicare la perdurante
osservanza dei trattati della comunità in relazione al sistema o al nucleo
essenziale dei suoi principi, b) quando venga in rilievo il limite del rispetto
dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti
inalienabili della persona, c) quando si ravvisa un contrasto fra norma interna
e direttiva comunitaria non dotata di efficacia diretta (corte cost., 13 luglio
2007, n. 284).
5. Già con l'ordinanza n. 176
del 1988 la corte costituzionale ha affermato che “sarebbe possibile, e
probabilmente consentaneo all'evoluzione della coscienza sociale, sostituire la
regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri
della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più
rispettoso dell'autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti
dall'art. 29 cost., anziché avvalersi dell'autorizzazione a limitare l'uno in
funzione dell'altro”. Con la sentenza n. 61 del
2006, inoltre, la corte ha ribadito, ancora più nettamente, che “l'attuale
sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale
della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia
romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i
principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'eguaglianza tra
uomo e donna”. In entrambi i casi la corte ha implicitamente sollecitato un
intervento del legislatore che, pur avendo affrontato il tema da ormai quasi un
trentennio (proposta di legge n. 832 del 30 ottobre 1979), non è ancora
pervenuto a soluzioni concrete.
Nel panorama degli ordinamenti
contemporanei la soluzione al problema della attribuzione del cognome al figlio
legittimo data dalla normativa italiana appare quasi del tutto isolata, anche
se le opzioni alle quali sono ispirate le discipline straniere sono diverse tra
loro. Ma tale pluralità di opzioni relative alla complessiva problematica
dell'attribuzione del cognome al figlio legittimo, la cui scelta indubbiamente
compete al legislatore, non viene necessariamente in considerazione rispetto
alla fattispecie concreta, che riguarda la sola ipotesi in cui i genitori siano
concordi nell'attribuire al figlio il cognome materno. La soluzione in tal caso
appare “a rima obbligata”, perché si tratta non di scegliere tra una pluralità
di alternative, ma solo tra l'ammettere o escludere la possibilità di deroga
alla norma di sistema, in un contesto in cui le altre fattispecie non
resterebbero prive di regole dovendo alle stesse comunque applicarsi la
predetta norma implicita.
Peraltro una scelta conforme alle
richieste concordi dei genitori risulta compiuta da alcuni giudici del merito.
Il tribunale di Lucca, con sentenza del 1° ottobre
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, con decisione del 25 gennaio 1999, n. 63 (sez. IV), ha
ritenuto illegittimo il rifiuto dell'autorità amministrativa di consentire
l'aggiunta del cognome materno a quello paterno, in caso di consenso di
entrambi i genitori e di uso di tale cognome nel contesto familiare, scolastico
e sociale, anche tenendo conto dell'evoluzione della coscienza sociale e del
contesto europeo, e, con parere del
17 marzo 2004, n. 515 (sez. I), reso nell'ambito di un procedimento
iniziato con ricorso straordinario al Capo dello Stato, ha ritenuto fondata la
richiesta al Ministro dell'interno, concordemente formulata dai genitori, per
il cambiamento del cognome del figlio legittimo con l'attribuzione del cognome
materno, motivata con ragioni di riconoscenza nei confronti del nonno materno,
ritenendo non irrinunciabile il diritto al cognome paterno e non condivisibile
la motivazione secondo la quale la sostituzione del cognome comprometterebbe lo
status di figlio legittimo e i valori della famiglia fondata sul matrimonio.
Sulla base delle considerazioni svolte
appare opportuno trasmettere gli atti al Primo Presidente ai fini della
eventuale rimessione alle sezioni unite per valutare se ai fini della presente
controversia, alla luce della mutata situazione della giurisprudenza
costituzionale e del probabile mutamento delle norme comunitarie, possa essere
adottata un'interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata
ovvero, se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell'attività
interpretativa, la questione possa essere rimessa nuovamente alla corte
costituzionale.
P.Q.M.
La corte rimette gli atti al primo
presidente per l'eventuale rimessione alle sezioni unite.