SENTENZA N. 61
ANNO 2006
Commenti alla decisione di
I. Ida Nicotra, L’attribuzione ai figli del cognome paterno è retaggio di una concezione patriarcale: le nuove Camere colgano il suggerimento della Corte per modificare la legge. negli “Studi e Commenti” di Consulta OnLine
II. Antonello Ciervo, Il diritto al doppio cognome del minore, (per gentile concessione del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
III. Giorgio Repetto, Famiglia e figli in tre recenti pronunce della Corte costituzionale, (per gentile concessione del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262 e 299, terzo comma, del codice civile e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), promosso con ordinanza del 17 luglio 2004 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da C.A. e F.L. c/ il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, iscritta al n. 752 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di costituzione di C.A. e di F.L.;
udito nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2006 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;
udito l’avvocato Luigi Fazzo per C.A. e F.L.
Ritenuto in fatto
1. – La Corte di cassazione, I Sez. civile, chiamata a decidere sul ricorso proposto nei confronti della sentenza della Corte d’appello di Milano con la quale si confermava la decisione del Tribunale di Milano di rigetto della domanda dei coniugi C.A. e F.L. diretta ad ottenere la rettificazione dell’atto di nascita della propria figlia minore nel senso che le fosse imposto il cognome materno in luogo di quello paterno, risultante dall’atto formato dall’ufficiale dello stato civile, in contrasto con la volontà espressa dal padre al momento della dichiarazione di nascita, con ordinanza del 17 luglio 2004, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, 299, terzo comma, del codice civile, 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata.
Il collegio rimettente premette che la Corte territoriale ha osservato che il silenzio del legislatore della riforma del diritto di famiglia in ordine al cognome dei figli legittimi, pur a fronte della modifica dell’art. 144 cod. civ. relativo al cognome della moglie, consente di desumere la persistente validità di una norma consuetudinaria saldamente radicata nella coscienza della collettività.
La norma relativa all’assunzione del cognome paterno da parte del figlio legittimo, ad avviso del predetto collegio, è chiaramente desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse.
Si richiamano, in proposito, l’art. 237, secondo comma, cod. civ, che pone tra gli elementi costitutivi del possesso di stato l’avere portato sempre il cognome del padre che si pretende di avere; l’art. 262 cod. civ., in materia di riconoscimento di figlio naturale, che, al primo comma, dispone che il contestuale riconoscimento da parte di entrambi i genitori comporta che il figlio assuma il cognome paterno, evidentemente nello spirito della equiparazione della prole naturale a quella legittima, e, al secondo comma, che, in caso di successivo riconoscimento del padre, o di successivo accertamento della paternità, il figlio può assumere il cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello materno, in tal modo sottintendendo, secondo il collegio a quo, una maggior rilevanza del cognome paterno; l’art. 299 cod. civ., in tema di adozione di maggiorenni, che, al terzo comma, prevede, ancora una volta in ragione della equiparazione della posizione del figlio adottivo a quello legittimo, che, compiuta l’adozione da coniugi, l’adottato assuma il cognome del marito.
Una norma attributiva al figlio legittimo del cognome paterno appare, secondo la Corte di cassazione, presupposta anche dalla disposizione dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), che vietava di imporre al bambino lo stesso prenome del padre vivente, all’evidente scopo di evitare omonimie per avere essi già lo stesso cognome, ed è sottintesa dal corrispondente art. 34, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, nonché dall’art. 33, comma 1, del citato d.P.R., che attribuisce al figlio legittimato – salva la opzione esercitabile dal soggetto maggiorenne – il cognome del padre.
Da tali previsioni si desume, secondo il collegio rimettente, l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è tuttavia presente nel sistema, configurandosi come traduzione in regola dello Stato di una usanza consolidata nel tempo, alla stregua della quale il cognome del figlio legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure dal primo al secondo.
Il collegio a quo dissente, perciò, dalla opinione della Corte d’appello di Milano che ravvisa il fondamento dell’attribuzione al figlio legittimo del cognome paterno in una consuetudine, la quale postula una reiterazione e continuità di comportamenti conformi ad una medesima regola da parte della generalità dei consociati nella convinzione della loro doverosità, elementi non riscontrabili nella vicenda dell’attribuzione del cognome paterno, segnata da un’attività vincolata dell’ufficiale dello stato civile, a fronte della quale la volontà ed il convincimento dei singoli dichiaranti non trovano spazio.
Del resto, si rileva nella ordinanza, una siffatta consuetudine sarebbe contra legem, in quanto contrastante con la legge di riforma del diritto di famiglia, che delinea su basi paritarie il nuovo modello della famiglia, oltre che con i principi costituzionali di riferimento, e, come tale, sarebbe suscettibile di disapplicazione da parte del giudice.
Ciò posto, il collegio rimettente, fattosi carico delle precedenti pronunce di inammissibilità di analoghe questioni di legittimità costituzionale (ordinanze n. 176 e n. 586 del 1988), ritiene che il lungo tempo trascorso, ed il maturarsi di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori di riferimento, nonché gli impegni imposti da convenzioni internazionali, e le sollecitazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie, richiedano una nuova valutazione della conformità della norma denunciata agli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione.
In particolare, con riguardo al denunciato contrasto con il citato art. 2 della Costituzione, si pone in evidenza il carattere di detto parametro quale norma a fattispecie aperta, diretta a recepire e garantire le nuove esigenze di tutela della persona, sottolineandosi il diritto alla identità personale, del quale il nome costituisce il primo, e più immediato, elemento caratterizzante, e rilevandosi che la tutela costituzionale offerta dall’invocato art. 2 ai diritti dell’uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» esige che il diritto di cui si tratta sia garantito, nell’ambito di quella formazione sociale primaria che è la famiglia, nella duplice direzione del diritto della madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna.
Quanto al sospetto di contrasto con l’art. 3 della Costituzione, esso si fonda sul rilievo che l’attribuzione, automatica ed indefettibile, ai figli del cognome paterno si risolve in una discriminazione ed in una violazione del principio fondamentale di uguaglianza e di pari dignità, che, nella legge di riforma del diritto di famiglia, trova espressione sia con riferimento ai rapporti tra coniugi – i quali, ai sensi dell’art. 143 cod. civ., acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri – sia con riguardo al rapporto con i figli, nei cui confronti l’art. 147 cod. civ. impone ai coniugi obblighi di identico contenuto.
La Corte di cassazione sospetta, poi, il contrasto con l’art. 29, secondo comma, della Costituzione, rilevando che il necessario bilanciamento tra l’esigenza di tutela della unità familiare, cui è riconosciuta copertura costituzionale, e la piena realizzazione del principio di uguaglianza non è correttamente perseguibile attraverso una norma così marcatamente discriminatoria, tenuto anche conto che l’unità familiare si rafforza nella misura in cui i rapporti tra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità.
Pertanto, il principio di uguaglianza tra i coniugi, che costituisce esplicazione del principio fondamentale di cui all’art. 3 della Costituzione, in quanto funzionale alla realizzazione della unità familiare, non può connotarsi solo in chiave negativa, come divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso, ma implica anche, sottolinea il Collegio rimettente, il riconoscimento di una uguale responsabilità dei coniugi nello svolgimento in concreto dei rapporti familiari, nel quadro di una reciproca solidarietà.
Si osserva, al riguardo, nella ordinanza di rimessione che il limite alla uguaglianza dei coniugi a tutela della unità della famiglia può trovare giustificazione solo in presenza di situazioni che rendano indispensabile una specifica previsione normativa, e che comunque, in siffatte ipotesi, la soluzione legislativa che privilegi uno dei coniugi rispetto all’altro non può essere ancorata al criterio del sesso del coniuge designato, non tollerando né il principio di cui all’art. 3 della Costituzione, né le varie convenzioni internazionali sui diritti umani, cui l’Italia ha aderito, discriminazioni basate sul sesso.
Del resto, il Collegio rimettente dubita che la soluzione adottata sia effettivamente indispensabile per assicurare l’unità familiare, escludendo che le altre soluzioni praticabili, ispirate, come nella fattispecie all’esame della Corte, al criterio della scelta preventiva dei coniugi, o a quello del doppio cognome, possano costituire attentato all’unità ed alla stabilità della famiglia, e richiamando le numerose esperienze di altri Paesi la cui legislazione si è già mossa nel senso auspicato.
Né vale in contrario, si legge nella ordinanza di rimessione, il rilievo che il superamento del principio di immediata ed automatica attribuzione di un unico e predeterminato cognome creerebbe problemi ed incertezze nel sistema: la esplicazione del fondamentale principio costituzionale di uguaglianza non può – osserva al riguardo il Collegio a quo – arrestarsi in presenza di inconvenienti, pur seri, ma suscettibili di essere risolti in via legislativa.
2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i coniugi C.A. e F.L. manifestando, preliminarmente, con riguardo alla questione della fonte della norma di cui si discute, l’avviso che essa si identifichi nella consuetudine. Al riguardo, si rileva che i dati testuali indicati nella ordinanza di rimessione non autorizzerebbero, per la loro eterogeneità e per il loro stesso contenuto, la deduzione della esistenza della regola non scritta individuata dal collegio rimettente.
Nel merito, la difesa della parte costituita condivide il sospetto di illegittimità costituzionale avanzato dalla Corte di cassazione, escludendo, in particolare, ogni correlazione tra la prevalenza maritale nella trasmissione del cognome e la tutela dell’unità familiare. In proposito, si osserva che non trova alcun conforto nella Costituzione una nozione di unità della famiglia come unitarietà della stirpe attraverso le generazioni, che teoricamente potrebbe essere tutelata attraverso la identificazione della stessa famiglia con il medesimo cognome per tutte le generazioni. E nemmeno potrebbe accogliersi una concezione autoritaria più o meno accentuata delle relazioni familiari, di cui la trasmissione del cognome paterno sarebbe espressione, e che è ormai da decenni completamente abbandonata. Al contrario, la tutela della unità familiare trova più adeguata e duratura garanzia proprio nel rafforzamento della parità tra coniugi.
Né il pur rilevante interesse dello Stato alla identificazione dei propri cittadini sarebbe messo in discussione dalla opzione dei genitori, da effettuarsi all’atto della registrazione anagrafica del neonato, in ordine al cognome da trasmettergli, se quello paterno o quello materno, come potrebbe, invece, ipotizzarsi se fosse introdotta la possibilità per gli individui di cambiare ad arbitrio il proprio nome (anche se gli attuali sistemi di registrazione anagrafica del figlio neonato, caratterizzati da rapidità di accesso, renderebbero gestibile pure una situazione di tal fatta).
3. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, i coniugi C.A. e F.L. hanno depositato memoria, con la quale rilevano che i dati testuali indicati nella ordinanza di rimessione non autorizzerebbero, per la loro eterogeneità e per il loro stesso contenuto, la deduzione della esistenza della norma individuata dal collegio rimettente. In particolare, quanto all’art. 237 cod. civ., che elenca una serie di fatti indicativi di una relazione di parentela, si osserva che il ritenere che la persona che abbia sempre portato il cognome del padre che pretende di avere sia indicativo del possesso di stato non presuppone una giuridica obbligatorietà della trasmissione del cognome paterno, ma, se mai, la constatazione che, secondo l’id quod plerumque accidit, le persone portano il cognome del padre. Analoga valenza sarebbe da attribuire all’art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, che vieta la imposizione del prenome paterno, all’evidente scopo di evitare omonimie, nella considerazione che generalmente le persone portano il cognome del padre. L’art. 262 cod. civ., poi, non consentirebbe di rinvenire, come suo necessario presupposto, la esistenza di una norma cogente che impedisca alla prole legittima l’adozione del cognome materno, essendo, anzi, espressione di una tendenziale libertà di scelta. Ed anche l’art. 33, n. 1, del citato d.P.R. n. 396 del 2000 delinea, con riguardo al figlio legittimato, una soluzione simile a quella dettata dall’art. 262 cod. civ. per il riconoscimento dei figli naturali. Solo l’art. 299, terzo comma, cod. civ., nell’attribuire il cognome del marito al maggiorenne adottato da due coniugi, sembra delineare – si rileva nella memoria – una soluzione che esprime una giuridica prevalenza del cognome paterno su quello materno.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione, I Sez. civile, dubita della legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, 299, terzo comma, del codice civile, e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata. Ad avviso del collegio rimettente, la predetta normativa si pone in contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione, in quanto la tutela costituzionale offerta dal primo degli invocati parametri ai diritti dell’uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» esige che il diritto di cui si tratta sia garantito, nell’ambito di quella formazione sociale primaria che è la famiglia, nella duplice direzione del diritto della madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna; ed ancora, in quanto l’attribuzione, automatica ed indefettibile, ai figli del cognome paterno si risolve in una discriminazione ed in una violazione del principio fondamentale di uguaglianza e di pari dignità che, nella legge di riforma del diritto di famiglia, trova espressione sia con riferimento ai rapporti tra coniugi – i quali, ai sensi dell’art. 143 cod. civ., acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri – sia con riguardo al rapporto con i figli, nei cui confronti l’art. 147 cod. civ. impone ai coniugi obblighi di identico contenuto; ed infine, perché il necessario bilanciamento tra l’esigenza di tutela della unità familiare, cui è riconosciuta copertura costituzionale, e la piena realizzazione del principio di uguaglianza non è correttamente perseguibile attraverso una norma così marcatamente discriminatoria, tenuto anche conto che l’unità familiare si rafforza nella misura in cui i rapporti tra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità.
2. – La questione è inammissibile.
2.1.– Questa Corte – come ricordato dal giudice rimettente – ha già avuto occasione di pronunciarsi in ordine a questioni pressoché identiche a quella attualmente in esame, dichiarando la manifesta inammissibilità delle stesse.
Con l’ordinanza n. 176 del 1988, fu dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 73 del regio decreto n. 1238 del 1939, sollevata sotto il profilo della mancata previsione della facoltà dei genitori di determinare il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo mediante la imposizione di entrambi i loro cognomi, e del diritto di quest’ultimo di assumere anche il cognome materno. Nell’occasione, la Corte osservò che oggetto del diritto dell’individuo alla identità personale, sotto il profilo del diritto al nome, non è la scelta del nome, ma il nome per legge attribuito, come si argomenta dall’art. 22 della Costituzione in relazione all’art. 6 cod. civ.; e che, quanto all’interesse alla conservazione dell’unità familiare, tutelato dall’art. 29, secondo comma, della Costituzione, questo sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia, mentre «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 della Costituzione, anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro». Concludeva la Corte che una tale innovazione «è una questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del conditor iuris».
Con la successiva ordinanza n. 586 del 1988, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione, degli artt. 6, 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevedono la facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, la Corte, nel concludere per la manifesta inammissibilità della questione, ribadì le argomentazioni contenute nella precedente ordinanza n. 176 del 1988. Nell’occasione si precisò che il denunciato limite derivante dall’ordinamento vigente alla uguaglianza dei coniugi non è in contrasto con l’art. 29 della Costituzione. in quanto utilizza una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela della unità della famiglia fondata sul matrimonio e che, oltre al sistema preferito dal giudice rimettente, si prospetta un’altra soluzione, che evita la «complicazione del doppio cognome», ponendosi pertanto un problema di scelta del sistema più opportuno e delle relative modalità tecniche, la cui decisione compete esclusivamente al legislatore.
2.2. – A distanza di diciotto anni dalle decisioni in precedenza richiamate, non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna.
Né può obliterarsi il vincolo – al quale i maggiori Stati europei si sono già adeguati – posto dalle fonti convenzionali, e, in particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome…».
In proposito, vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Teseli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse).
2.3. – Tuttavia, l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte. Ed infatti, nonostante l’attenzione prestata dal collegio rimettente a circoscrivere il petitum, limitato alla richiesta di esclusione dell’automatismo della attribuzione al figlio del cognome paterno nelle sole ipotesi in cui i coniugi abbiano manifestato una concorde diversa volontà, viene comunque lasciata aperta tutta una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente a detta volontà – con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo – ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi.
Del resto, la stessa eterogeneità delle soluzioni offerte dai diversi disegni di legge presentati in materia nel corso della XIV legislatura (v., tra gli altri, disegno di legge n. 1739-S., che prevede che ai figli legittimi nati in costanza di matrimonio sia attribuito il cognome di entrambi i genitori, e che sia riportato per primo quello del padre, ed inoltre che il figlio naturale assuma il doppio cognome di chi lo ha riconosciuto; disegno di legge n. 1454-S., secondo il quale, all’atto della registrazione del figlio, l’ufficiale di stato civile, sentiti i genitori, attribuisca al neonato il cognome del padre, ovvero quello della madre, ovvero entrambi nell’ordine determinato di comune accordo tra i genitori stessi, e, in caso di mancato accordo, i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico; disegno di legge n. 3133-S., che, dopo aver disposto che il cognome parentale è composto dal primo cognome di ciascuno dei genitori, prevede, quanto all’ordine dei cognomi stessi, che, nel corso della celebrazione del matrimonio, gli sposi, con dichiarazione resa davanti all’ufficiale dello stato civile, stabiliscono se il primo cognome della madre preceda quello del padre o viceversa, e che, in assenza di manifestazioni di volontà, il cognome parentale è composto dal primo cognome del padre e dal primo cognome della madre) testimonia la pluralità delle opzioni prospettabili, la scelta tra le quali non può che essere rimessa al legislatore.
3. – Per tali ragioni, e tenuto conto del vuoto di regole che determinerebbe una caducazione della disciplina denunciata, non è ipotizzabile, come adombrato nella ordinanza di rimessione, nemmeno una pronuncia che, accogliendo la questione di costituzionalità, demandi ad un futuro intervento del legislatore la successiva regolamentazione organica della materia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, 299, terzo comma, del codice civile, e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, I Sez. civile, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2006.