SENTENZA N. 190
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA
Giudici Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 339 (Passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato), promosso dal Consiglio di Stato, seconda sezione, nel procedimento vertente tra M. S. e Ministero dell’interno, con ordinanza del 10 maggio 2024, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 29 ottobre 2024.
Udito nella camera di consiglio del 30 ottobre 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti;
deliberato nella camera di consiglio del 30 ottobre 2024.
Ritenuto in fatto
1.‒ Con ordinanza del 10 maggio 2024, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2024, il Consiglio di Stato, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 27, 35, 36, 51, 76 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 339 (Passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato), ove si prevede che «[i]l personale dei ruoli della Polizia di Stato, che espleta funzioni di polizia, giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all’assolvimento dei compiti d’istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l’infermità accertata ne consenta l’ulteriore impiego».
La disposizione è censurata «nella parte in cui esclude o comunque non prevede la possibilità di disporre il transito nei ruoli civili dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza o di altra amministrazione pubblica per gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato che espletano funzioni di polizia, in caso di riscontrato difetto dei requisiti attitudinali».
2.‒ Il Collegio rimettente espone che dinanzi a esso pende il ricorso in appello contro la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia ha respinto il ricorso proposto da un agente scelto della Polizia di Stato avverso gli atti con i quali il Ministero dell’interno, nel 2013, dopo avere disposto la revoca della sospensione cautelare del ricorrente dal servizio e la verifica della permanenza dei requisiti psico-fisici ed attitudinali, ne ha disposto la cessazione dal servizio nell’amministrazione della pubblica sicurezza, in quanto non idoneo al servizio di polizia.
Il Consiglio di Stato riferisce che, a sostegno dell’impugnazione, l’appellante deduce fra l’altro che l’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982 ‒ ove interpretato nel senso di consentire il passaggio ad altri ruoli della stessa o di altra amministrazione soltanto in favore del dipendente dichiarato inidoneo al servizio per motivi di salute ‒ determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dei principi costituzionali posti a salvaguardia del lavoro (artt. 1, comma 1, 3, 4, 38 e 97 Cost.), rispetto alla situazione del dipendente inidoneo per motivi di salute, che potrebbe invece beneficiare del passaggio in altri ruoli.
3.‒ Con riferimento al requisito della rilevanza, il rimettente evidenzia che la questione oggetto dell’appello verte sulla facoltà per l’amministrazione della Polizia di Stato di verificare la permanenza dei requisiti attitudinali dei propri dipendenti anche dopo la presa di servizio, nonché sulla possibilità ‒ in caso di esito negativo di tale verifica ‒ di destinare tali dipendenti ad altri ruoli dell’amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni pubbliche.
Al riguardo, il giudice a quo ritiene di dover prestare adesione alla sentenza dell’Adunanza plenaria del 29 marzo 2023, n. 12, in cui si afferma che la perdita del requisito attitudinale non rientra nelle previsioni di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982 e di conseguenza non dà luogo al passaggio del dipendente della Polizia di Stato ad altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, ma è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato). Con la medesima decisione, l’Adunanza plenaria ha altresì ritenuto manifestamente non fondato il dubbio di legittimità costituzionale di tale disciplina, così come di eventuale contrarietà al diritto euro-unitario.
Ciò posto, il giudice rimettente ritiene non fondato il motivo di appello con il quale si assume che non sarebbe prevista la verifica circa la permanenza dei requisiti psico-attitudinali per gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato che già svolgono funzioni di polizia. Il rimettente ritiene infatti che l’accertamento circa il possesso dei requisiti attitudinali dell’appartenente alla Polizia di Stato possa essere effettuato anche nel corso del rapporto d’impiego, con possibili conseguenze esiziali sulla sua persistenza.
Peraltro, andrebbe esclusa la possibilità del passaggio nei ruoli civili per il personale appartenente alla Polizia di Stato. Infatti, proprio alla luce di quanto affermato dall’Adunanza plenaria nella pronuncia richiamata, la perdita dei requisiti attitudinali comporta non solo la cessazione dell’appartenenza alle Forze di polizia, ma, in senso drastico e definitivo, la cessazione del rapporto di impiego.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982 sarebbe dunque rilevante ai fini della definizione del giudizio in corso. Ad avviso del Consiglio di Stato, l’interpretazione di questa disposizione effettuata dall’Adunanza plenaria costituisce “diritto vivente”, inteso come interpretazione della norma nei casi di sua concreta applicazione. In considerazione della funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria, non residuerebbero margini per un’interpretazione diversa della disposizione in esame, tale da consentire il passaggio ai ruoli civili di un appartenente alla Polizia di Stato con funzioni di polizia.
4.‒ La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con gli artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.
L’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982, nel precludere qualsiasi utilizzazione degli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato, che siano risultati privi delle attitudini all’impiego nella Polizia di Stato, comporta la definitiva cessazione del rapporto di impiego pubblico, così ponendosi in stridente contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., con l’art. 4 Cost., che riconosce a tutti cittadini il diritto al lavoro, nonché con la «tutela del lavoro», di cui all’art. 35 Cost.
Invero, ad avviso del rimettente, far discendere dalla perdita del requisito attitudinale allo svolgimento di uno specifico impiego pubblico la radicale inutilizzabilità del lavoratore in qualsivoglia impiego presso la pubblica amministrazione costituirebbe una palese violazione dei principi costituzionali richiamati. La conseguenza della cessazione del rapporto di impiego pubblico (ai sensi dell’art. 58 del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, recante «Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia», e dell’art. 129 del d.P.R. n. 3 del 1957) non sarebbe coerente con il principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte.
Al fine di rendere effettivi i principi costituzionali, si dovrebbe al contrario ritenere che la pubblica amministrazione possa addivenire alla cessazione del rapporto di lavoro solo allorché si constati l’inutilizzabilità del lavoratore, per proprie condizioni soggettive o altre ragioni, con qualsivoglia impiego pubblico. Tuttavia, osserva il rimettente, non sarebbe questo il caso contemplato dalla disposizione censurata.
5.‒ Sotto un diverso profilo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 51 Cost.
Al riguardo, il giudice a quo sottolinea che la disciplina in esame divergerebbe da quanto previsto dall’art. 930 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) per il personale militare appartenente all’Arma dei carabinieri, nonché dall’art. 14 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), per gli appartenenti alla Guardia di finanza. A entrambe queste categorie di dipendenti pubblici sarebbe riconosciuta la possibilità di essere diversamente utilizzati dall’amministrazione pubblica.
Tali differenze di disciplina comporterebbero un trattamento ingiustificatamente deteriore dei dipendenti della Polizia di Stato risultati privi dei requisiti attitudinali, rispetto agli appartenenti all’Arma dei carabinieri ed alla Guardia di finanza, ai quali è riconosciuta la possibilità di essere diversamente utilizzati dall’amministrazione pubblica. Ciò costituirebbe un oggettivo impedimento all’esplicazione del diritto al lavoro, riconosciuto dagli artt. 4 e 35 Cost., nonché una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., inteso anche come uguaglianza nell’accesso e nella conservazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione (art. 51 Cost.).
6.‒ Sarebbero altresì violati i principi di imparzialità e buon andamento enunciati dall’art. 97 Cost., poiché l’amministrazione si priverebbe dell’attività lavorativa di un dipendente già formato, in assenza di alcuna plausibile ragione.
Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio di Stato, il contrasto con i richiamati principi di cui agli artt. 3, 4, 51, 76 e 97 Cost. sarebbe ancor più evidente alla luce delle circostanze fattuali che connotano la situazione dell’appellante, che ‒ dopo essere stato posto agli arresti domiciliari per concorso nel reato di favoreggiamento della prostituzione ‒ è stato successivamente assolto dai reati ascrittigli perché il fatto non sussiste.
L’accertamento del persistente possesso dei requisiti fisici e psico-attitudinali è stato dunque determinato dal lasso di tempo (durante il quale il dipendente è stato sospeso dal servizio) intercorso nelle more della definizione del giudizio che si è concluso con la assoluzione piena dell’imputato.
Pertanto, nel caso in esame, l’esclusione della possibilità di transito nei ruoli civili non risponderebbe a criteri di logica e di ragionevolezza, non potendosi imputare al dipendente, stante l’esito assolutorio del giudizio penale, l’assenza dal servizio per un lasso di tempo considerevole, dipeso dalla dinamica del processo penale cui è stato sottoposto.
D’altra parte, osserva il rimettente, la sopravvenuta mancanza dei requisiti attitudinali darebbe luogo alla cessazione dal rapporto di lavoro, sebbene questa non sia contemplata espressamente né dall’art. 58 del d.P.R. n. 335 del 1982 né dall’art. 129 del d.P.R. n. 3 del 1957, né da altra norma dell’ordinamento.
7.‒ Il giudice a quo accenna, infine, alla violazione dell’art. 76 Cost., per contrasto della disposizione censurata con quanto previsto dall’art. 36, punto XX, della legge delega 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), che ‒ tra i principi e criteri direttivi impartiti al Governo ‒ prevede la «determinazione delle modalità, in relazione a particolari infermità o al grado di idoneità all’assolvimento dei servizi di polizia, per il passaggio del personale, per esigenze di servizio o a domanda, ad equivalenti qualifiche di altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, salvaguardando i diritti e le posizioni del personale appartenente a questi ultimi ruoli».
Tale previsione della legge delega non escluderebbe il passaggio ad altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato per il personale che ‒ successivamente all’assunzione ‒ sia risultato non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia.
8.‒ Infine, il rimettente ravvisa il contrasto della disposizione censurata con l’esigenza, sottesa ai principi costituzionali di cui agli artt. 27, 35 e 36 Cost., di assicurare la continuità del rapporto di lavoro in presenza di un evento, quale la perdita dei requisiti attitudinali, non dipendente dalla volontà del lavoratore, tanto più là dove, come nel caso in esame, «la mancata continuità del servizio si deve al coinvolgimento in un giudizio penale conclusosi con sentenza assolutoria».
La disposizione censurata si risolverebbe dunque nell’applicazione di un trattamento deteriore e discriminatorio per un dipendente pubblico sottoposto a procedimento penale ed assolto con formula piena. Ad avviso del rimettente, ciò si tradurrebbe di fatto in una “pena”, inflitta in assenza di qualsivoglia violazione di legge.
Considerato in diritto
1.‒ Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Consiglio di Stato, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 27, 35, 36, 51, 76 e 97 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982, ove si prevede che «[i]l personale dei ruoli della Polizia di Stato, che espleta funzioni di polizia, giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all’assolvimento dei compiti d’istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l’infermità accertata ne consenta l’ulteriore impiego».
La disposizione è censurata «nella parte in cui esclude o comunque non prevede la possibilità di disporre il transito nei ruoli civili dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza o di altra amministrazione pubblica per gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato che espletano funzioni di polizia, in caso di riscontrato difetto dei requisiti attitudinali».
Con riferimento al requisito della rilevanza, il rimettente evidenzia che la questione oggetto dell’appello verte sulla facoltà per l’amministrazione della Polizia di Stato di verificare la permanenza dei requisiti attitudinali dei propri dipendenti anche dopo la presa di servizio, nonché sulla possibilità ‒ in caso di esito negativo di tale verifica ‒ di destinare tali dipendenti ad altri ruoli dell’amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni pubbliche.
Al riguardo, il giudice a quo ritiene di dover prestare adesione, in quanto espressione del “diritto vivente”, alla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 12 del 2023, in cui si afferma che la perdita del requisito attitudinale non rientra nelle previsioni di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982 e di conseguenza non dà luogo al passaggio del dipendente della Polizia di Stato ad altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, ma è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 del d.P.R. n. 3 del 1957.
La disposizione censurata, così interpretata, si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con gli artt. 1, 3, 4 e 35 Cost., avuto riguardo ai principi di ragionevolezza, di riconoscimento a tutti cittadini del diritto al lavoro, nonché di «tutela del lavoro», di cui all’art. 35 Cost.
Sotto un diverso profilo, il giudice a quo sottolinea la disparità di trattamento tra il personale della Polizia di Stato e il personale militare appartenente all’Arma dei Carabinieri e gli appartenenti alla Guardia di finanza, ai quali sarebbe riconosciuta la possibilità di essere diversamente utilizzati dall’amministrazione pubblica. Vi sarebbe, inoltre, un oggettivo impedimento all’esplicazione del diritto al lavoro, riconosciuto dagli artt. 4 e 35 Cost., nonché una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., inteso anche come uguaglianza nell’accesso e nella conservazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione (art. 51 Cost.).
Sarebbero altresì violati i principi di imparzialità e buon andamento enunciati dall’art. 97 Cost., poiché l’amministrazione si priverebbe dell’attività lavorativa di un dipendente già formato, in assenza di alcuna plausibile ragione.
Il rimettente accenna anche alla violazione dell’art. 76 Cost., per contrasto della disposizione censurata con quanto previsto dalla legge delega.
Infine, il giudice a quo ravvisa il contrasto di detta disposizione con l’esigenza, sottesa ai principi costituzionali di cui agli artt. 27, 35 e 36 Cost., di assicurare la continuità del rapporto di lavoro in presenza di un evento, quale la perdita dei requisiti attitudinali, non dipendente dalla volontà del lavoratore, tanto più là dove, come nel caso in esame, «la mancata continuità del servizio si deve al coinvolgimento in un giudizio penale conclusosi con sentenza assolutoria». Ad avviso del rimettente, ciò si tradurrebbe di fatto in una “pena”, inflitta in assenza di qualsivoglia violazione di legge.
2.– In via preliminare, deve essere rilevata l’inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 1 e 36 Cost., in quanto non sono provviste di alcuna motivazione in punto di non manifesta infondatezza. È inammissibile anche la questione relativa all’art. 76 Cost., poiché il rimettente si limita a sostenere, in termini generici, che non sarebbe da escludere il possibile contrasto della disposizione censurata «con un principio e con una norma della legge delega», senza ulteriormente chiarire le ragioni dell’asserito contrasto con il parametro evocato (in termini, tra le altre, sentenze n. 118 del 2022 e n. 213 del 2021). È altresì inammissibile la questione sottoposta in riferimento all’art. 27 Cost. Il rimettente fa presente che l’agente di polizia non ha superato la verifica attitudinale dopo essere stato sottoposto a un lungo periodo di sospensione dal servizio, a causa del perdurare di un procedimento penale conclusosi con l’assoluzione con formula piena. Sostiene, in proposito, che la disposizione censurata si risolverebbe «nella pratica, […] in una “pena” in assenza di qualsivoglia violazione di legge». La disciplina in esame, tuttavia, riguardando la materia della cessazione dal servizio dei dipendenti pubblici è totalmente estranea all’ambito di applicazione del principio di personalità della responsabilità penale (sentenza n. 363 del 1996).
3.– Prima di scrutinare il merito delle altre questioni sollevate, è utile una breve ricostruzione della cornice normativa di riferimento.
Ai sensi dell’art. 58 del d.P.R. n. 335 del 1982, le cause di cessazione dal servizio del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia sono quelle previste dal d.P.R. n. 3 del 1957. Secondo l’art. 129 di tale ultimo d.P.R., è dispensato dal servizio l’impiegato divenuto inabile per motivi di salute, salvo che non sia diversamente utilizzato in altri compiti, nonché quello che abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento.
Dunque, l’art. 129 del d.P.R. n. 3 del 1957 impone la cessazione dal servizio in tre distinte ipotesi: l’inabilità per motivi di salute, l’incapacità e l’insufficiente rendimento. Tale disposizione, tuttavia, consente al solo dipendente divenuto inabile per motivi di salute di evitare la dispensa attraverso l’assegnazione ad altri compiti. Tale assegnazione è disciplinata, per le Forze di polizia, dal censurato art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982, che prevede il passaggio – su richiesta – del personale non idoneo per motivi di salute all’espletamento dei servizi di polizia ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato.
4.– Tanto premesso, passando all’esame delle questioni sollevate in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente ritiene che l’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982, interpretato nel senso che l’agente della Polizia di Stato privo dei requisiti attitudinali subisce la cessazione del rapporto di impiego pubblico, non sarebbe coerente con il principio di ragionevolezza.
In proposito, deve rilevarsi che non sussiste – tanto per i datori di lavoro del settore pubblico che per quelli del settore privato – un obbligo generalizzato di assegnare a un altro ambito mansionistico il lavoratore che si dimostra non capace a rendere la prestazione lavorativa richiesta, tranne che nell’ipotesi di inidoneità parziale all’impiego causata da un sopravvenuto deficit di salute.
Solo nel caso di una menomazione fisica o psichica i principi costituzionali di solidarietà sociale e quelli eurounitari di non discriminazione di cui alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, impongono siffatto obbligo. In tale ipotesi, si è individuato un peculiare punto di equilibrio tra le esigenze del datore di lavoro a un ottimale uso delle proprie risorse e quelle del lavoratore, che tiene conto dell’obiettiva difficoltà che può incontrare colui che subisce una infermità a trovare una nuova collocazione nel mondo del lavoro. La stessa direttiva 2000/78/CE, inoltre, al suo considerando 17, «non prescrive [...] il mantenimento dell’occupazione [...] di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili».
Pertanto, non risulta irragionevole, e costituisce una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore, non consentire il transito in altri ruoli dell’amministrazione dell’agente della Polizia di Stato che, risultando privo dei requisiti attitudinali, non è più in possesso della specifica capacità lavorativa richiesta per l’espletamento delle funzioni per le quali è stato assunto.
La disposizione censurata, inoltre, nella misura in cui non prevede il transito in altri ruoli nel caso di perdita del requisito attitudinale, risulta coerente con quanto previsto per altre categorie lavorative del settore pubblico cui è richiesto il possesso di specifiche attitudini, quali gli insegnanti, che sono soggetti alla dispensa dal servizio per “incapacità didattica” (si veda l’art. 512 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado»).
5.– La scelta del legislatore non determina neppure, come ipotizzato nell’ordinanza di rimessione, una violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento rispetto al personale dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza.
Infatti, le disposizioni richiamate dal giudice a quo, che consentono il transito in altri ruoli di tale personale (per l’Arma dei carabinieri, l’art. 930, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010 e per la Guardia di finanza l’art. 14, comma 5, della legge n. 266 del 1999), fanno riferimento all’ipotesi di inidoneità al servizio «per lesioni dipendenti o meno da causa di servizio» e, quindi, non trovano applicazione nel caso di perdita del requisito delle attitudini.
6.– Non sono, poi, fondate le questioni sollevate in riferimento agli artt. 4 e 35 Cost. e riguardanti il diritto al lavoro e la sua tutela. Il riconoscimento di tale diritto non comporta il generalizzato obbligo di garantire la conservazione del posto di lavoro al lavoratore che non possegga i requisiti necessari per adempiere in maniera adeguata alle prestazioni richieste. Come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, «la garanzia del diritto al lavoro non comporta una generale ed indistinta libertà di svolgere qualsiasi attività professionale, spettando pur sempre al legislatore di fissare condizioni e limiti in vista della tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione e, più in particolare, di valutare, nell’interesse della collettività e dei committenti […] i requisiti di adeguata preparazione occorrenti per l’esercizio dell’attività professionale medesima» (sentenza n. 441 del 2000).
7.– Per le medesime ragioni, non sussiste neppure la violazione dell’art. 51 Cost., riguardante l’accesso agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, non essendo ravvisabile, nell’ipotesi di perdita delle attitudini, un diritto alla conservazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione.
8.– Quanto al contrasto con l’art. 97 Cost., secondo il rimettente l’amministrazione, disponendo la cessazione dal servizio, si priverebbe «dell’attività lavorativa di un dipendente già formato, senza che vi sia una plausibile ragione ovvero un impedimento psico-fisico ad utilizzarlo in mansioni diverse». Tuttavia, l’accesso all’impiego del personale di polizia avviene tramite un concorso pubblico in cui è specificamente richiesto il possesso di particolari requisiti attitudinali, che devono permanere durante tutto il rapporto di lavoro. La questione, pertanto, non è fondata, in quanto il rispetto del principio di buon andamento non comporta l’obbligo per l’amministrazione di verificare se un agente della Polizia di Stato, dimostratosi non più capace di rendere la prestazione per la quale era stato assunto, possa essere comunque utilizzato per espletare funzioni diverse da quelle di polizia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 339 (Passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato), sollevate, in riferimento agli artt. 1, 27, 36 e 76 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, seconda sezione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982 sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 51 e 97 Cost., dal Consiglio di Stato, seconda sezione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 ottobre 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Marco D'ALBERTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2024