ORDINANZA N. 199
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Silvana SCIARRA;
Giudici: Daria de PRETIS, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, come sostituito dall’art. 3, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promossi dal Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 13 ottobre 2022, e dal Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, con due ordinanze del 16 febbraio 2023, iscritte, rispettivamente, ai numeri 29, 35 e 36 del registro ordinanze 2023, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 12 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e di A. R., in proprio e nella qualità di rappresentante di G. D. srl in liquidazione;
udito nell’udienza pubblica del 10 ottobre 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Aurora Maria Romerio per A. R., in proprio e nella qualità di rappresentante di G. D. srl in liquidazione e Antonino Sgroi per l’INPS;
deliberato nella camera di consiglio del 10 ottobre 2023.
Ritenuto che con ordinanza del 13 ottobre 2022 (reg. ord. n. 29 del 2023) il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 3, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui, sostituendo l’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, punisce l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000;
che il rimettente è investito dell’opposizione ad una ordinanza ingiunzione, emessa e notificata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), avente ad oggetto l’irrogazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 per la condotta di «omesso versamento delle ritenute» previdenziali ed assistenziali di importo inferiore alla soglia di euro 10.000, liquidata in euro 17.500, che conseguiva l’omesso pagamento, entro tre mesi dalla notifica di un precedente avviso di accertamento, dei contributi ritenuti e non versati in misura di euro 190,52, relativi all’anno 2014;
che, in termini di rilevanza, il giudice a quo osserva che l’avviso di accertamento era stato regolarmente notificato e l’omissione contributiva risultava documentata dalla comunicazione dei modelli DM10 da cui emergeva la retribuzione corrisposta ai lavoratori;
che, in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che nella fissazione di un minimo e di un massimo della sanzione amministrativa tra euro 10.000 ed euro 50.000, il legislatore avrebbe determinato un’irragionevole disparità di trattamento per i trasgressori per omessi versamenti contributivi sotto la soglia di rilevanza penale di euro 10.000 che, pur violando con diversa gravità il precetto normativo, non vedrebbero la determinazione della sanzione graduata in relazione alla diversa gravità;
che la norma censurata consentirebbe, infatti, in caso di violazione del precetto normativo nel suo massimo valore sottosoglia, l’applicazione di una sanzione amministrativa che, nella previsione massima pari ad euro 50.000, rappresenta il quintuplo della violazione, mentre al trasgressore, per una minima omissione, sarebbe irrogata una sanzione di importo che potrebbe essere anche il centuplo della violazione, ossia della ritenuta non versata;
che un minimo edittale così elevato non sarebbe, poi, superabile con l’applicazione dei criteri di commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), né la sproporzione risulta eliminata dalla nota n. 3516 del 27 settembre 2022 con cui il Direttore generale dell’INPS invitava le Articolazioni locali dell’Istituto a «rivedere» la sanzione irrogabile limitandola nella misura della metà per le omissioni relative al periodo antecedente all’entrata in vigore della depenalizzazione;
che l’INPS si è costituito in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per insufficiente motivazione sul parametro idoneo a garantire la proporzionalità, e comunque non fondata;
che, a giudizio della difesa dell’Istituto, la disciplina censurata sarebbe posta a tutela dell’art. 38, secondo comma, Cost., a garanzia che l’unico soggetto che ha la disponibilità delle somme di denaro necessarie al corretto pagamento della contribuzione non le sottragga a tale fine pubblico, sicché il minimo edittale elevato della pena pecuniaria avrebbe una evidente funzione di prevenzione generale;
che, in prossimità della data fissata per la camera di consiglio, l’INPS ha depositato una memoria integrativa nella quale ha concluso per il sopravvenuto difetto di rilevanza della questione, segnalando che, a far data dal 5 maggio 2023, l’art. 23, comma 1, del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 (Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro), convertito, con modificazioni, nella legge 3 luglio 2023, n. 85, ha ulteriormente modificato il comma censurato disponendo che le parole: «da euro 10.000 a euro 50.000» siano sostituite dalle parole: «da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso».
Ritenuto che, altresì, con due analoghe ordinanze del 16 febbraio 2023 (reg. ord. numeri 35 e 36 del 2023), il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, come convertito e come sostituito dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede «[s]e l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000»;
che il Tribunale rimettente si trova a giudicare, quanto all’ordinanza iscritta al n. 35 reg. ord. 2023, di una opposizione a tre ordinanze ingiunzione, emesse e notificate dall’INPS, aventi ad oggetto l’irrogazione delle sanzioni amministrative previste dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, per un totale di euro 73.000 complessivi, rispettivamente di euro 21.500 per il mancato versamento di ritenute pari ad euro 3.809,55 relative all’anno 2013, di euro 22.500 per il mancato versamento di ritenute pari ad euro 714,06 per l’anno 2014, e di euro 29.000 per il mancato versamento di ritenute pari ad euro 2.628,73 per il 2015, e, quanto all’ordinanza iscritta al n. 36 del r. o. 2023, di una opposizione ad un’ordinanza ingiunzione, emessa e notificata dall’INPS, avente ad oggetto l’identica sanzione per un importo complessivo di euro 17.500, a fronte del mancato versamento di ritenute pari ad euro 221, relative all’anno 2016;
che, premesso, in termini di rilevanza, che l’omissione contributiva risultava documentata dalla comunicazione dei modelli DM10 attestanti le retribuzioni corrisposte ai lavoratori e che la responsabilità del datore di lavoro per omesso versamento delle ritenute non poteva essere esclusa dalla situazione di crisi economica in cui versava l’impresa o dalla circostanza che le limitate risorse finanziarie fossero state destinate ai crediti retributivi vantati dai lavoratori o comunque da altri creditori privilegiati, il giudice a quo osserva che, pur rivestendo le sanzioni natura sostanzialmente penale, non sarebbe possibile procedere alla disapplicazione della norma interna per contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione europea, né ad una rimodulazione della sanzione alla gravità delle violazioni ed alle circostanze del caso concreto, in presenza di un minimo edittale così elevato;
che quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che il minimo edittale fissato ad euro 10.000, per la sanzione amministrativa sotto soglia penale, condurrebbe a risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alla gravità dell’illecito, determinando una irrimediabile disparità di trattamento in relazione alle condizioni economiche dell’autore del fatto, in violazione del disposto dell’art. 3 Cost.;
che, richiamati i principi in tema di proporzionalità della pena, applicabili anche alle sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice a quo rileva che la previsione di un così elevato minimo edittale vincolerebbe il giudice ad infliggere pene che sono chiaramente eccessive soprattutto per i casi in cui l’entità delle ritenute di cui è stato omesso il versamento risulti di modesta entità, con una sanzione che può raggiungere anche il centuplo della violazione, con una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai trasgressori per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale, che possono soffrire al massimo una sanzione pari al quintuplo della violazione, trasformando la depenalizzazione in un privilegio per coloro che pongono in essere le omissioni più rilevanti;
che la norma censurata renderebbe la sanzione amministrativa prevista per le fattispecie sotto soglia, e quindi meno gravi, maggiormente afflittiva di quella penale in quanto, applicando il tasso di conversione della pena della reclusione, la sanzione amministrativa minima “corrisponde” a 133 giorni di reclusione (euro 10.000/euro 75 giornalieri), ossia ad oltre quattro mesi, a fronte di un minimo della sanzione penale fissato a 15 giorni di reclusione, senza tener conto che, ai sensi dei nuovi e più favorevoli criteri fissati dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), il giudice penale, a differenza di quello civile, potrà procedere a sostituire la pena detentiva breve con una pena pecuniaria proporzionata anche alla situazione reddituale del suo autore;
che il giudice a quo ritiene, infine, che l’accoglimento della questione non determinerebbe un vuoto normativo, trovando applicazione, in virtù del richiamo operato dall’art. 6 del d.lgs. n. 8 del 2016, le Sezioni I e II del Capo I della legge n. 689 del 1981, e di conseguenza l’art. 10 che per la sanzione amministrativa pecuniaria fissa il minimo di 10 euro, fermo restando il potere di questa Corte di «reperire essa stessa soluzioni costituzionalmente adeguate, già esistenti nel sistema» (sentenza n. 28 del 2022);
che l’INPS si è costituito anche in tali giudizi, chiedendo che entrambe le questioni siano dichiarate inammissibili per insufficiente motivazione, ai fini della rilevanza, sulle circostanze del caso concreto che consentirebbero l’applicazione di una pena inferiore al limite minimo, e comunque non fondate;
che, a sostegno del rigetto nel merito, l’Istituto evidenzia che la norma censurata è posta a tutela del sistema di riscossione dei contributi che si fonda su un meccanismo di autoliquidazione degli importi da versare a seguito di dichiarazioni mensili del datore di lavoro, che comprendono anche la quota a carico del lavoratore, ex art. 19 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (Riordinamento delle pensioni dell’assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia e i superstiti), trattenuta dalla retribuzione dovuta, sicché, con il versamento dei contributi, il datore di lavoro, da un lato, assolve il proprio obbligo verso l’ente previdenziale e, dall’altro, implementa la posizione assicurativa del lavoratore, giustificando tale duplice funzione il disvalore maggiore che l’ordinamento attribuisce a quest’omissione, rispetto a quella che riguarda solo la quota a carico del datore di lavoro;
che, producendo l’illecito penale effetti distinti rispetto a quello amministrativo, non sarebbe possibile confrontare e/o paragonare, né in astratto né in concreto, le rispettive sanzioni, anche in considerazione del fatto che per gli illeciti penali il mancato pagamento della pena pecuniaria conduce alla reviviscenza della pena detentiva;
che per la difesa dell’ente, risultando comunque garantito il principio di proporzionalità della previsione di un minimo e un massimo entro i cui confini, con una scelta discrezionale, graduare la pena rispetto alla gravità della condotta e/o al comportamento dell’autore, il giudice a quo non avrebbe effettuato alcun giudizio di proporzionalità all’interno del sistema di depenalizzazione e di quello della previdenza obbligatoria, individuando arbitrariamente il nuovo minimo edittale – nel limite minimo a valenza generale fissato dall’art. 10 della legge n. 689 del 1981 – senza verificare la sua idoneità rispetto al bene tutelato, né la presenza di altri tipi di sanzioni pecuniarie già previste per fattispecie analoghe;
che, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 35 reg. ord. 2023, si è costituita la parte ricorrente, formulando argomentazioni a sostegno della illegittimità costituzionale della norma censurata sostanzialmente sovrapponibili a quelle formulate dal giudice rimettente;
che, in prossimità dell’udienza, l’INPS, in entrambi i giudizi, ha depositato una memoria con cui ha segnalato che la questione avrebbe perso di rilevanza alla luce dello ius superveniens di cui all’art. 23 del d.l. n. 48 del 2023, come convertito;
che la parte ricorrente del giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 35 reg. ord. 2023, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, si sofferma sull’applicabilità retroattiva della novella legislativa di cui all’art. 23 citato per il principio della retroattività della lex mitior, data per pacifica la natura sostanzialmente afflittiva della sanzione amministrativa oggetto di censura, ed insiste per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata anche nell’attuale formulazione, escludendo l’idoneità del nuovo regime normativo a sanare il vulnus costituzionale, avendo l’ordinanza di rimessione invocato la radicale abrogazione del minimo edittale in modo da consentire l’applicazione della lex generalis di cui all’art. 12 della legge n. 689 del 1981, e che, in ogni caso, tenuto conto del diminuito tasso di conversione tra la pena detentiva breve e la pena pecuniaria, permarrebbe quella sproporzione che rende la sanzione amministrativa di nuovo conio maggiormente afflittiva rispetto al corrispettivo penale previsto per le violazioni più gravi.
Considerato che, in via preliminare, deve disporsi la riunione dei predetti giudizi, atteso che le ordinanze di rimessione sollevano le stesse questioni e si fondano su argomentazioni sostanzialmente comuni;
che le questioni sono ammissibili, non presentando alcuna lacuna motivazionale né nell’individuazione del parametro idoneo a garantire la proporzionalità fra i plurimi astrattamente possibili (ex plurimis, sentenze n. 95 e n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020), essendo dirette a censurare la previsione del minimo della sanzione amministrativa, ritenuta eccessivamente elevata, né nell’indicazione degli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e alla situazione personale delle parti ricorrenti, che risultano sufficienti a suffragare l’applicabilità della norma censurata ed il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità rispetto ad una eventuale riduzione in senso favorevole della sanzione applicata dall’INPS (ex plurimis, sentenze n. 152 e n. 59 del 2021);
che la sanzione prevista dalla legislazione previdenziale, per la violazione del comma 1 dello stesso art. 2 del d.l. n. 463 del 1983, come convertito, ha subito diverse modifiche e nel testo vigente al momento del deposito delle ordinanze di rimessione, come modificato dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 a decorrere dal 6 febbraio 2016, prevedeva che: «L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione»;
che da ultimo il d.l. n. 48 del 2023, come convertito, entrato in vigore il 5 maggio 2023, ha ulteriormente modificato il comma censurato nella parte indubbiata, disponendo all’art. 23 che le parole «da euro 10.000 a euro 50.000» siano sostituite dalle parole: «da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso»;
che la sanzione pecuniaria amministrativa per le violazioni sotto la soglia dei 10.000 euro, prevista dal comma 1-bis dell’art. 2 del d.l. n. 463 del 1983, come convertito e successivamente modificato, condividendo la medesima portata afflittiva della sanzione penale pur all’esito della depenalizzazione, mantiene natura sostanzialmente penale ed è pertanto soggetta ai «principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior» (sentenza n. 63 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 68 del 2021 e, in senso contrario, sentenza n. 193 del 2016);
che nei giudizi a quibus, aventi tutti ad oggetto omissioni di lieve entità, l’art. 23 del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, può trovare applicazione retroattiva per l’effetto favorevole che da esso deriva rispetto al pregresso regime sanzionatorio;
che tale ius superveniens, ponendosi nella stessa direzione delle ordinanze di rimessione, ha inciso sulla disposizione censurata apportando una significativa modifica della dosimetria sanzionatoria in termini proporzionali;
che, quando le modifiche normative «incidono così “profondamente sull’ordito logico che sta alla base delle censure prospettate” (ordinanze n. 97 del 2022 e n. 60 del 2021), [questa Corte] “è costante nel ricavarne la necessità di restituire gli atti al giudice a quo, spettando a quest’ultimo sia verificare l’influenza della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate (ordinanza n. 243 del 2021), sia procedere alla rivalutazione della non manifesta infondatezza, tenendo conto delle intervenute modifiche normative (ordinanze n. 97 del 2022, n. 60 del 2021 e n. 185 del 2020)” (ordinanze n. 31 e n. 30 del 2023, n. 227 del 2022)» (ordinanza n. 72 del 2023; nello stesso senso, anche ordinanza n. 231 del 2022);
che la disciplina sopravvenuta comunque prevede ancora una misura minima della sanzione amministrativa, pur diversamente determinata;
che, alla luce del mutato quadro normativo, va, conclusivamente, disposta la restituzione degli atti ai Tribunali rimettenti per una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Verbania e al Tribunale ordinario di Brescia.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 3 novembre 2023