Sentenza n. 177 del 2022

SENTENZA N. 177

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 269, primo comma, del codice civile promosso dalla Corte d’appello di Salerno, sezione civile, nel procedimento vertente tra D. D.A. e G. S. e altri, con ordinanza dell’11 marzo 2021, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio dell’8 giugno 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio dell’8 giugno 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza dell’11 marzo 2021, iscritta al n. 205 del registro ordinanze dell’anno 2021, la Corte di appello di Salerno, sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 269, primo comma, del codice civile, nella parte in cui consente la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità soltanto alle condizioni richieste per il riconoscimento, che non è ammesso «in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova» (art. 253 cod. civ.).

In via subordinata, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui non permette di pronunciare una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità con efficacia condizionata alla rimozione giudiziale del precedente status.

Secondo il giudice a quo, la norma violerebbe gli artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, nonché all’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.– La Corte rimettente riferisce che, con atto di citazione notificato in data 14 ottobre 2015, D. D.A. ha convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, P. S., G. S. e A. S., nella loro qualità di eredi di G. S., per ottenere l’accertamento della paternità di quest’ultimo nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 269 cod. civ. e seguenti.

2.1.– Nel giudizio si sono costituiti gli eredi del presunto padre che, dopo aver contestato la propria legittimazione passiva, hanno eccepito l’inammissibilità della domanda per mancato previo esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità. In risposta a tale eccezione, l’attore ha chiesto al giudice di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 253 cod. civ.

Con sentenza depositata il 12 luglio 2018, il Tribunale di Nocera Inferiore ha dichiarato la domanda inammissibile, rilevando che, in ragione del coordinamento sistematico dell’art. 269 cod. civ. con l’art. 253 cod. civ., la dichiarazione giudiziale di paternità presuppone la previa rimozione giudiziale del preesistente stato di figlio. Per converso, D. D.A., attore nel giudizio di cui all’art. 269 cod. civ., benché figlio nato nel matrimonio di F. D., non aveva neppure promosso l’azione di disconoscimento di paternità.

2.2.– La Corte rimettente riporta, di seguito, che D. D.A. ha proposto appello, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e riproponendo l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 253 cod. civ.

Il giudice a quo riferisce di non averla accolta, ma di aver ritenuto di dover sollevare d’ufficio differenti questioni di legittimità costituzionale, concernenti l’art. 269, primo comma, cod. civ.

3.– In particolare, nell’ordinanza si rileva che, «[s]tante il combinato disposto degli articoli 269, comma 1 e 253 del codice civile, la dichiarazione di filiazione fuori del matrimonio presuppone l’assenza di uno stato di figlio il quale, se presente, andrà previamente rimosso – a seconda dei casi – per mezzo delle azioni di disconoscimento di paternità (art. 243-bis del codice civile), di impugnazione del riconoscimento (articoli 263 e seguenti del codice civile) ovvero di contestazione dello stato di figlio (art. 248 del codice civile)».

Secondo la Corte rimettente la citata disciplina impedirebbe, nel caso di specie, di pervenire a una decisione sulla domanda di accertamento della paternità.

Osserva, infatti, che sia in base al tradizionale orientamento, il quale ravvisa l’improponibilità della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ove sussista uno status pregresso, sia in forza di un più recente indirizzo (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 3 luglio 2018, n. 17392), il quale reputa la domanda ammissibile, salva la necessaria sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello demolitivo, non si potrebbe comunque dichiarare in via giudiziale la filiazione fuori dal matrimonio, senza una sentenza passata in giudicato che accolga la domanda di demolizione del precedente status.

Inoltre, nella fattispecie sottoposta al suo esame, la domanda non sarebbe ammissibile, anche adottando la seconda interpretazione, non essendo stata promossa l’azione demolitiva, il che non consentirebbe la sospensione per pregiudizialità, ai sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile.

Il giudice a quo ne inferisce la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate, tanto più che il tenore letterale dell’art. 269, primo comma, cod. civ., nonché quello della disposizione ad esso coordinata (l’art. 253 cod. civ.) non si presterebbero a interpretazioni adeguatrici alla Costituzione.

4.– Nel sistema così delineato la Corte rimettente ravvisa la lesione di molteplici parametri costituzionali.

4.1.– Ritiene, innanzitutto, che la legge, «imponendo al figlio la preliminare e definitiva caducazione del proprio precedente stato al fine di procedere all’accertamento della vicenda procreativa, non contempla l’eventualità che il secondo di tali giudizi veda discordanti la verità biologica attesa dalla parte e quella in concreto acclarata dal giudice».

Si determinerebbe, pertanto, una lesione del diritto alla identità personale «nel duplice profilo della impossibilità di accertare la genitura in presenza di uno status contrastante e della perdita irreversibile di una qualsiasi identità filiale nell’ipotesi in cui alla eliminazione di quella precedentemente acquisita non segua il vittorioso esperimento dell’azione per la dichiarazione di quella “naturale”».

L’art. 269, primo comma, cod. civ. contrasterebbe, dunque, con gli artt. 2, 29, 30 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, nonché all’art. 24, paragrafo 2, CDFUE.

4.2.– Il giudice a quo rileva poi che subordinare la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) al previo esperimento di altri rimedi processuali, negli stessi termini previsti per il riconoscimento (art. 253 cod. civ.), finirebbe per equiparare, in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), fattispecie che andrebbero, viceversa, distinte. Mentre, infatti, il riconoscimento «consiste in un atto privato volto ad attestare in modo volontario il fatto della generazione», per converso, l’azione giudiziale di cui all’art. 269 cod. civ. conduce ad «un provvedimento pubblico, avente efficacia certativa retroattiva».

La Corte rimettente ravvisa il contrasto con l’art. 3 Cost. anche nella discriminazione fra «la persona cui sia stato attribuito uno status non veritiero rispetto a quella cui non sia stato attribuito alcuno status».

4.3.– Al contempo, il giudice a quo sostiene che la necessità di celebrare due giudizi per giungere all’accertamento dell’identità personale determinerebbe – in riferimento a un diritto ascrivibile all’art. 2 Cost. – un «limite ingiustificato per ottenere, tramite azione in giudizio, tutela dei propri diritti (art. 24 [Cost.])», nonché una violazione del «principio del giusto processo e di parità delle parti in esso (art. 111)», unitamente al rischio di una irragionevole durata dell’iter processuale.

5.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili o, in subordine, non fondate.

5.1.– L’inammissibilità deriverebbe – secondo l’argomentazione dell’Avvocatura – dalla circostanza che le questioni, e in specie quella sollevata in via subordinata, si risolverebbero nella richiesta di una pronuncia additiva, per di più in un ambito di natura processuale, riservato alla esclusiva discrezionalità del legislatore.

5.2.– Ad avviso dell’Avvocatura, le questioni sarebbero, inoltre, non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.

5.2.1.– Quanto agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo e all’art. 24 CDFUE, si rammenta che essi sarebbero riferibili ai diritti del fanciullo o del minore, ciò che li renderebbe non pertinenti nel caso in esame, atteso che l’attore nel giudizio a quo ha ampiamente superato la maggiore età.

Con riferimento, poi, all’art. 8 CEDU, viene ritenuto improprio il richiamo al diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Inoltre, l’Avvocatura sottolinea che il legislatore avrebbe operato un ragionevole bilanciamento tra il favor veritatis e il pubblico interesse alla certezza degli status, dando prevalenza al secondo dei due principi, senza che ciò possa ritenersi in contrasto con la Costituzione, avendo questa stessa Corte rilevato che l’esigenza di verità della filiazione non si impone in modo automatico su ogni altro interesse (è richiamata la sentenza n. 267 [recte: 272] del 2017).

5.2.2.– In ordine alla asserita violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura esclude la sussistenza del vulnus sotto entrambi i profili evidenziati dal giudice a quo.

Rispetto alla equiparazione tra il negozio di riconoscimento e l’azione giudiziale prevista dall’art. 269 cod. civ., rileva come le due ipotesi, pur strutturalmente diverse, sarebbero comunque equiparate dalla legge quanto agli effetti, il che giustificherebbe la loro soggezione ai medesimi limiti.

Del tutto incomparabili sono poi reputate le ulteriori situazioni messe a confronto, ossia quella di chi – come nella fattispecie in esame – sia già titolare di uno status, ancorché in ipotesi non veritiero, e quella di chi non abbia alcuno status. Mancherebbe, infatti, nel secondo caso, qualsivoglia esigenza di bilanciamento tra l’interesse all’identità e il pubblico interesse alla certezza degli status.

5.2.3.– Infine, con riguardo alla denunciata violazione degli artt. 2 e 24 Cost., sotto il profilo del “rischio dell’azione”, ritenuto tale da poter inibire la stessa domanda giudiziale vòlta ad accertare l’identità personale, l’Avvocatura rileva come esso sia insito in ogni iniziativa giudiziaria.

La possibilità che la domanda non abbia l’esito auspicato atterrebbe alle valutazioni sulla convenienza operate dalla parte e non si risolverebbe in un ostacolo alla sua stessa proposizione. Piuttosto, la pregiudizialità dell’azione di contestazione costituirebbe «una efficace remora all’esperimento indiscriminato e potenzialmente “deviato” dell’azione di dichiarazione giudiziale».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza dell’11 marzo 2021, iscritta al n. 205 del registro ordinanze dell’anno 2021, la Corte di appello di Salerno, sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 269, primo comma, del codice civile, nella parte in cui consente la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità soltanto alle condizioni richieste per il riconoscimento, che non è ammesso «in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova» (art. 253 cod. civ.).

In via subordinata, dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui non permette di pronunciare una sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità con efficacia condizionata alla rimozione giudiziale del precedente status.

2.– Secondo il giudice a quo, la norma censurata violerebbe gli artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, nonché all’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.1.– In primo luogo, la norma censurata, nell’imporre «al figlio la preliminare e definitiva caducazione del proprio precedente stato al fine di procedere all’accertamento della vicenda procreativa, non contempl[erebbe] l’eventualità che il secondo di tali giudizi veda discordanti la verità biologica attesa dalla parte e quella in concreto acclarata dal giudice». Ne deriverebbe una lesione del diritto alla identità personale «nel duplice profilo della impossibilità di accertare la genitura in presenza di uno status contrastante e della perdita irreversibile di una qualsiasi identità filiale nell’ipotesi in cui alla eliminazione di quella precedentemente acquisita non segua il vittorioso esperimento dell’azione per la dichiarazione di quella “naturale”». Ciò contrasterebbe con gli artt. 2, 29, 30 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, nonché all’art. 24, paragrafo 2, CDFUE.

2.2.– In secondo luogo, il giudice a quo ravvisa, sotto due diverse prospettive, un vulnus al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

La disposizione censurata porterebbe a equiparare il trattamento di situazioni distinte, quali il riconoscimento, che «consiste in un atto privato volto ad attestare in modo volontario il fatto della generazione», e l’azione giudiziale di cui all’art. 269 cod. civ., che conduce, invece, ad «un provvedimento pubblico, avente efficacia certativa retroattiva».

Al contempo, la norma discriminerebbe «la persona cui sia stato attribuito uno status non veritiero rispetto a quella cui non sia stato attribuito alcuno status».

2.3.– Infine, la Corte rimettente osserva che la necessità di celebrare due giudizi per giungere all’accertamento del diritto all’identità personale e familiare determinerebbe – in riferimento a un diritto ascrivibile all’art. 2 Cost. – un «limite ingiustificato per ottenere, tramite azione in giudizio, tutela dei propri diritti (art. 24 [Cost.])», nonché una violazione del «principio del giusto processo e di parità delle parti in esso (art. 111)», unitamente al rischio di una irragionevole durata dell’iter processuale.

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.

L’inammissibilità deriverebbe, in particolare, dalla circostanza che le questioni, e in specie quella sollevata in via subordinata, si risolverebbero nella richiesta di una pronuncia additiva di carattere eccessivamente manipolativo, per di più in un ambito – qual è quello processuale – riservato alla discrezionalità del legislatore.

4.– L’eccezione è fondata. Le questioni di legittimità costituzionale, che l’ordinanza pone in via principale e in via subordinata, sono inammissibili per plurime ragioni.

5.– Preliminarmente è opportuno delineare il quadro normativo nel quale si colloca la disposizione censurata.

5.1.– L’art. 269, primo comma, cod. civ. prevede che la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate «nei casi in cui il riconoscimento è ammesso», e tale atto – secondo l’art. 253 cod. civ. – non è ammesso «in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova».

Da ciò si desume che presupposto dell’accertamento giudiziale della filiazione fuori del matrimonio, così come del riconoscimento negoziale, è la demolizione dello stato di figlio preesistente. E poiché quest’ultimo è comprovato da un titolo, dotato di funzione certativa erga omnes, il sistema vigente richiede il passaggio in giudicato della sentenza che conclude il giudizio demolitivo dello status (in tal senso, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 25 giugno 2013, n. 15990): a seconda dei casi, può trattarsi del giudicato sul disconoscimento di paternità (art. 243-bis cod. civ. e seguenti) o sulla contestazione dello stato di figlio (art. 240 cod. civ.) o sull’impugnazione del riconoscimento (artt. 263 cod. civ. e seguenti).

Specularmente, con riferimento all’altra azione di accertamento positivo dello status – quella di reclamo dello stato di figlio nato nel matrimonio – l’art. 239 cod. civ. prevede il suo possibile esercizio o quando lo stato di figlio non sussiste (secondo comma) o in ulteriori ipotesi che richiedono, come poi specificato al quarto comma, che il precedente status risulti «comunque rimosso».

5.2.– Il quadro legislativo, così delineato, tende a preservare sul terreno giuridico il carattere unico e indivisibile dello status, che è proprio della dimensione biologica, sicché la paternità, intesa come legame genetico, e la maternità, derivante dal parto, non possono che riferirsi a una e a una sola persona.

La scelta di garantire tale esigenza prevedendo la previa demolizione in via giudiziale dello status, anziché una sua rimozione automatica per effetto del successivo accertamento di una identità contrastante, ha una duplice spiegazione.

5.2.1.– Lo status è comprovato da un titolo, dotato di funzione certativa erga omnes, in quanto fondato su presunzioni legali o sull’atto di riconoscimento. Quando non erano ancora disponibili le cosiddette prove scientifiche (in specie, i test genetici), non si sarebbe giustificata una sua caducazione solo in quanto contraddetto dall’accertamento di un diverso e confliggente status, all’esito di un giudizio che si avvaleva di mezzi di prova connotati da un tasso di affidabilità limitato (di regola, presunzioni e testimonianze).

L’esigenza di evitare un’instabilità e un’incertezza dello status, dal quale si diramano plurimi effetti, in campo pubblicistico e privatistico, offre, dunque, una prima spiegazione della necessità di un giudizio demolitivo per poter chiedere l’accertamento giudiziale di un diverso legame di filiazione.

Nondimeno, tale motivazione risulta oggi fortemente incrinata dall’evoluzione della scienza, che ha reso disponibili prove capaci di offrire un grado elevatissimo di affidabilità nel dimostrare la sussistenza o insussistenza di un vincolo biologico (in proposito, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 6 ottobre 2021, n. 27140).

Anche questa Corte ha già tratto importanti conseguenze – sotto il profilo della illegittimità costituzionale di norme dettate in materia di disconoscimento della paternità e di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità – dalla constatazione del rilievo assunto dalle prove ematologiche e genetiche (sentenze n. 266 e n. 50 del 2006).

Mentre, dunque, in passato si giustificavano la notevole resistenza dello status, comprovato dal relativo titolo, e, di riflesso, l’onere di un duplice processo, prima demolitivo e poi costitutivo, attualmente i nuovi accertamenti disponibili potrebbero suggerire soluzioni differenti, come, per l’appunto, la caducazione dello status antecedente, con il relativo titolo, quale effetto di un nuovo accertamento con esso incompatibile.

5.2.2.– Ciò premesso, occorre, tuttavia, considerare anche una seconda ragione sottesa all’esigenza della previa azione demolitiva: quella di assicurare a chi è già titolare dello status di genitore di essere parte, e dunque di avere una congrua tutela sostanziale e processuale, nel giudizio che può incidere sul suo legame familiare.

È, allora, evidente che l’ipotesi di rendere il titolo cedevole a un accertamento con esso contrastante non può privare di tutela chi, sulla base della funzione certativa del titolo, ha conseguito lo status e su quel fondamento ha costruito relazioni familiari.

Un intervento sulla norma censurata (o sulle altre di analogo tenore) che escludesse la necessità dell’azione demolitiva dovrebbe, in altro modo, garantire un’adeguata protezione a chi è titolare del precedente status.

6.– La ricostruzione del quadro normativo, sopra delineata, consente ora di trarre le dovute conseguenze in merito all’ammissibilità delle questioni sollevate con il petitum principale.

6.1.– Innanzitutto, pur a fronte di una disposizione non priva di criticità sotto il profilo costituzionale (punto 7), questa Corte prende atto che, per rimuovere il vulnus lamentato dal giudice a quo, eliminando la condizione del giudizio demolitivo del precedente status, sarebbe necessaria una riforma di sistema idonea a farsi carico di molteplici profili.

L’esigenza di coniugare la tutela dei diritti di chi vuol far accertare una nuova identità, con la protezione di chi, sulla base della efficacia certativa del titolo, vanta il precedente status, rende, infatti, necessario un intervento di competenza del legislatore.

In particolare, l’effetto caducatorio dello status pregresso andrebbe esplicitato per consentire al giudice di tenere conto degli interessi coinvolti da tale effetto demolitivo.

Da un lato, in un eventuale giudizio promosso nell’interesse del figlio minore, il giudice dovrebbe poter ponderare che dall’accertamento del nuovo status discende anche la rimozione del legame antecedente.

Da un altro lato, andrebbe disposto (o almeno reso desumibile dalla previsione esplicita della caducazione del pregresso status) l’intervento necessario nel giudizio del genitore esposto al citato meccanismo.

Senza una riforma di sistema, l’attuale disciplina della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità farebbe residuare una tutela debolissima al genitore, benché dotato di un titolo di stato. Questi avrebbe, infatti, una semplice facoltà di intervenire nel giudizio, come «chiunque vi abbia interesse» (art. 276, secondo comma, cod. civ.), o potrebbe proporre, avverso la sentenza che accerta il nuovo status, un’opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 404, primo comma, del codice di procedura civile.

Da ultimo, andrebbe, altresì, effettuato un intervento organico, che valuti le ricadute su altre disposizioni (a partire dall’art. 239 cod. civ.) e provveda agli opportuni coordinamenti.

6.2.– A fronte della riforma di sistema che si renderebbe necessaria per rimuovere la condizione del giudizio demolitivo, come prospettato dal petitum principale, la stessa formulazione di quest’ultimo si dimostra generica e ambigua.

In particolare, l’ordinanza non chiarisce, una volta superata la necessità del giudizio demolitivo, in conseguenza dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, quale effetto avrebbe una sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità sul preesistente stato di filiazione, comprovato dal relativo titolo.

L’esito potrebbe essere quello della coesistenza di due titoli di stato formalmente confliggenti, cui sembra alludere l’ordinanza, là dove afferma che il giudicato sulla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità «escludere[bbe] la veridicità (solo formale) del rapporto filiale contrastante con quello accertato». O, in alternativa, potrebbe essere quello – evocato sempre dall’ordinanza, in un diverso passaggio – di ritenere che il nuovo accertamento travolga automaticamente il precedente status, e il relativo titolo, in ragione della «efficacia certativa retroattiva» della sentenza di accoglimento della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.

Una simile alternativa, che ha differenti implicazioni, collegate al problema della tutela del titolare del pregresso status, prova l’ambiguità e la genericità del petitum principale.

6.3.– In definitiva, tanto l’esigenza che sia il legislatore a procedere a una «revisione organica della materia in esame» (sentenza n. 101 del 2022 e, in senso analogo, di recente, sentenze n. 143, n. 100 e n. 22 del 2022, n. 151, n. 32 e n. 33 del 2021; n. 80 e n. 47 del 2020, n. 23 del 2013), facendosi carico della complessità degli interessi coinvolti, onde prevedere «cautele» (sentenza n. 143 del 2022) ed evitare «disarmonie» (sentenza n. 32 del 2021), quanto il carattere generico e ambiguo del petitum formulato in via principale (sentenze n. 239 e n. 237 del 2019) inducono questa Corte a dichiararne l’inammissibilità.

7.– Spetterà, dunque, al legislatore, nella sua discrezionalità, valutare, alla luce dell’evoluzione delle tecniche di accertamento della filiazione, come un intervento di sistema possa tenere conto di tutti gli interessi coinvolti, senza comprimere in maniera sproporzionata diritti di rango costituzionale.

La necessità di un giudizio articolato in più gradi, che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), in un ostacolo «all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica» (sentenza n. 50 del 2006).

Inoltre, l’onere di un duplice processo comporta il rischio per il figlio di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio; rischio particolarmente grave quando riguardasse un minore, il cui interesse ai legami familiari merita – com’è noto – particolare tutela (si vedano le sentenze di questa Corte n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017 e, in una prospettiva analoga, le pronunce della Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza n. 27140 del 2021 e sentenza 22 dicembre 2016, n. 26767).

8.– Passando ora alle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata, esse prospettano la possibilità di addivenire a una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata all’esito del giudizio demolitivo, che, dunque, non viene, in questo caso, messo in discussione.

8.1.– Le questioni, così formulate, coinvolgono le implicazioni processuali che derivano dal collegamento fra l’art. 269 cod. civ. e l’art. 253 cod. civ.

Quest’ultima norma, in particolare, si avvale, a partire dalla rubrica, di una espressione – l’«inammissibilità» – che, riferita a un atto negoziale, qual è il riconoscimento, si è dimostrata atecnica e non idonea a evocare uno specifico rimedio. Ha, pertanto, alimentato un contrasto nell’alternativa fra invalidità e inefficacia, che ha visto, alfine, prevalere la seconda ipotesi ricostruttiva, associata alla configurazione della demolizione giudiziale del pregresso status quale condizione legale sospensiva di efficacia dell’atto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 5 novembre 1997, n. 10838; sezione seconda civile, sentenza 3 giugno 1978, n. 2782).

Il medesimo lemma, proiettato sull’art. 269 cod. civ. che riguarda un procedimento giudiziario, ha, invece, favorito il ricorso alla nozione tecnica di inammissibilità o improponibilità della domanda, sull’assunto che la rimozione del pregresso status si configurerebbe quale presupposto processuale dell’azione, che andrebbe a inibire lo stesso avvio del giudizio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 19 agosto 1998, n. 8190).

In contrasto con tale prevalente orientamento, una recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 3 luglio 2018, n. 17392) ha offerto una differente interpretazione del citato impedimento, ravvisando tra le due cause (quella vòlta alla rimozione dello stato preesistente e quella finalizzata alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità) un rapporto di «pregiudizialità in senso tecnico-giuridico», che non sarebbe ostativo alla proposizione della domanda, ma solo al suo accoglimento, il che renderebbe necessaria una sospensione del giudizio in attesa dell’esito di quello pregiudiziale.

8.2.– A fronte di tale pronuncia, la Corte rimettente ritiene che la citata soluzione ermeneutica, per un verso, non sarebbe applicabile al giudizio a quo, nel quale non era stato ancora avviato il processo relativo al disconoscimento di paternità, e, per un altro verso, non sarebbe comunque idonea a sanare l’asserito vulnus ai principi costituzionali.

Invero, la soluzione accolta dal giudice di legittimità, nel prospettare una sospensione – ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. – tempera le criticità segnalate dal giudice a quo, sebbene non sia risolutiva.

In particolare, se è vero che l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra i due giudizi consente la loro proposizione cumulativa (art. 103 cod. proc. civ.) o la loro riunione per connessione (art. 274 cod. proc. civ.), si tratta di facoltà non sempre esperibili: nello specifico, la riunione dipende dallo stadio di avanzamento dei due giudizi.

8.3.– Ciò premesso, i termini con cui il giudice a quo pone, in via subordinata, le questioni di legittimità costituzionale per risolvere il lamentato vulnus non consentono a questa Corte di accedere al giudizio di merito.

La prospettazione di un intervento additivo, di carattere manipolativo, vòlto a invertire radicalmente l’ordine di proposizione delle due azioni fissato dal codice e a introdurre nella materia processuale un istituto – qual è la sentenza condizionata – che non trova una esplicita base normativa e che avrebbe carattere inusuale e atipico persino rispetto a come è configurato nell’esperienza giurisprudenziale, determina l’inammissibilità delle questioni.

Esse, infatti, si pongono in evidente e frontale contrasto con il costante orientamento di questa Corte, che riserva alla discrezionalità del legislatore la disciplina della materia processuale, salvo che la stessa palesi una «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute» (sentenze n. 143 e 13 del 2022, n. 213, n. 148 e n. 87 del 2021, n. 58 del 2020).

9.– In conclusione, tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente sono inammissibili.

Solo un intervento di sistema, operato dal legislatore, potrebbe garantire tutela ai diritti fondamentali, invocati dalla Corte rimettente, evitando il sacrificio di altri diritti e assicurando una complessiva coerenza alla disciplina delle azioni di stato.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 269, primo comma, del codice civile sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, nonché all’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 –, dalla Corte di appello di Salerno, sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 giugno 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2022.