SENTENZA N. 162
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia nel procedimento vertente tra G. C. e il Ministero dell’interno e altri con ordinanza del 2 marzo 2020, iscritta al n. 114 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 il Giudice relatore Angelo Buscema;
deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2021.
1.– Con ordinanza iscritta al n. 114 del registro ordinanze 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, nella parte in cui, per gli allievi agenti e gli agenti in prova, prevede l’espulsione dal corso a seguito del mero riscontro di mancanze punibili con sanzioni disciplinari più gravi della deplorazione.
Il giudice a quo premette di essere stato investito del ricorso per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento di espulsione dal corso di formazione per agenti della Polizia di Stato di un allievo agente che si sarebbe reso responsabile di una «mancanza punibile con sanzione disciplinare più grave della deplorazione» e, in particolare, della violazione di cui all’art. 6, comma quarto (recte: comma terzo), numero 8), del decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), che punisce con la sospensione (sanzione più grave della deplorazione) l’appartenente ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza che abbia fatto «uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope risultante da referto medico legale».
Evidenzia il rimettente che, ai sensi dell’art. 55 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), la domanda cautelare è stata respinta a causa dell’insufficiente specificazione dei profili di periculum in mora e di concreta utilità del provvedimento interinale richiesto. Contestualmente, il TAR ha sollevato le citate questioni di legittimità costituzionale.
1.1.– Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost. per la rigida automaticità del meccanismo espulsivo vigente per gli allievi e per gli agenti in prova (ragionevolezza intrinseca) e per la radicale diversità di regime rispetto agli agenti in servizio effettivo (disparità di trattamento).
Ciò in quanto, sotto il primo profilo, comminerebbe una sanzione rigida e predeterminata a fronte di una notevole varietà di comportamenti, senza consentire all’Amministrazione alcuna considerazione dei caratteri specifici dell’infrazione, della gravità del fatto e della colpevolezza dell’autore, né un procedimento di accertamento in contraddittorio della responsabilità.
La violazione dell’art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto il profilo della disparità di trattamento tra allievi e agenti in prova, da un lato, e gli agenti in servizio effettivo, dall’altro. A tale riguardo, vengono invocati quali tertia comparationis gli artt. 1, 6 e 7, nonché 12 e seguenti del d.P.R. n. 737 del 1981, che consentono una valutazione discrezionale dell’infrazione e l’opportuna gradazione dell’effetto giuridico della sanzione. L’art. l, comma secondo, del d.P.R. n. 737 del 1981, in particolare, dispone che le sanzioni disciplinari «devono essere graduate, nella misura, in relazione alla gravità delle infrazioni ed alle conseguenze che le stesse hanno prodotto per la Amministrazione o per il servizio». Inoltre, la sanzione della sospensione per gli agenti in servizio effettivo (art. 6, comma primo, del d.P.R. n. 737 del 1981), che consiste nell’allontanamento dal servizio «per un periodo da uno a sei mesi», consentirebbe elasticità nella commisurazione della risposta punitiva all’interno della cornice edittale. Tali disposizioni non sarebbero, però, applicabili all’allievo e all’agente in prova, per i quali l’espulsione conseguirebbe sempre alla commissione di «mancanze punibili con sanzioni disciplinari più gravi della deplorazione».
1.2.– La disposizione censurata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 97 Cost. e, in particolare, con il principio del «giusto procedimento», quale canone fondamentale dell’azione amministrativa direttamente desumibile dai principi di legalità, buon andamento e imparzialità. Nel caso di specie, a parere del rimettente, difetterebbero sia una idonea «distanza» tra ipotesi astratta e provvedimento – essendo quest’ultimo a «rime obbligate» sulla base del sommario riscontro di determinate condotte – sia un adeguato spazio valutativo dei fatti e degli interessi, non essendo prevista alcuna disciplina dell’iter procedimentale da seguire.
1.3.– Il Tribunale rimettente deduce, altresì, la violazione dell’art. 24 Cost., atteso che, con riguardo alla sanzione disciplinare – la cui irrogazione postula l’accertamento di responsabilità – il giusto procedimento dovrebbe assicurare il diritto di difesa dell’interessato.
1.4.– In punto di rilevanza, il rimettente ritiene che il giudizio a quo non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter, comma 3, del d.P.R n. 335 del 1982, che troverebbe diretta applicazione in quanto, riferendosi alle «mancanze punibili con sanzioni disciplinari più gravi della deplorazione», ricomprenderebbe il comportamento tenuto dall’allievo agente punibile con la sanzione della sospensione.
Il TAR evidenzia, poi, che la domanda cautelare è stata respinta per non essere stati adeguatamente circostanziati il periculum in mora e l’interesse ad agire in sede cautelare, in un contesto in cui appariva altamente verosimile l’inattuabilità pratica della misura richiesta, cioè l’ammissione con riserva agli esami. Sostiene, tuttavia, il rimettente che gli effetti del provvedimento di espulsione non sarebbero comunque irreversibili, in quanto alla declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata conseguirebbe una pronuncia di annullamento del provvedimento di espulsione, a seguito della quale il ricorrente ben potrebbe essere riammesso in sovrannumero ad un corso successivo, previo eventuale riesercizio del potere sanzionatorio in senso conforme a Costituzione.
1.6.– Il giudice a quo rappresenta, infine, di aver tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, esegesi tuttavia preclusa dal «rigido dettato» dell’art. 6-ter, comma 3, del d.P.R. n. 335 del 1982.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale della disposizione censurata.
2.1.– Dopo aver ripercorso il contenuto dell’ordinanza di rimessione, la difesa dello Stato eccepisce l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che, con ordinanza del 26 febbraio 2020, n. 36, il TAR rimettente ha respinto l’istanza cautelare «ed il relativo provvedimento è divenuto definitivo». Aggiunge che la situazione del ricorrente apparirebbe ormai cristallizzata e anche una sentenza favorevole non sarebbe idonea a reintegrare l’allievo agente nella stessa posizione ricoperta al momento dell’espulsione nell’ambito del corso di formazione che stava frequentando. Il tempo trascorso dall’espulsione all’eventuale riammissione non potrebbe, difatti, che incidere in senso negativo per il ricorrente, atteso che l’interruzione della frequenza del corso per un periodo superiore all’annualità eliderebbe il requisito della necessaria continuità formativa, elemento indispensabile per l’accesso ai ruoli della Polizia di Stato, nell’ambito della quale vigono rigide regole a presidio della regolare formazione degli aspiranti.
2.2.– La difesa dello Stato sostiene, altresì, che il TAR avrebbe omesso di verificare la possibilità di pervenire a una soluzione conforme a Costituzione, essendosi limitato ad affermare che la norma censurata costituisce il «presupposto giuridico» indefettibile per la sanzione espulsiva, senza tener conto che il ricorrente è stato espulso dal corso in quanto destinatario della sanzione della sospensione dal servizio, ai sensi dell’art. 6, comma terzo, numero 8), del d.P.R. n. 737 del 1981, alla luce del combinato disposto di tale ultima disposizione con quella censurata, e senza considerare che anche agli allievi e agli agenti in prova sarebbero applicabili le norme del d.P.R. n. 737 del 1981 che disciplinano le sanzioni e il procedimento per irrogarle.
2.3.– Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sollevate sarebbero altresì inammissibili per irrilevanza, atteso che, secondo quanto prospettato nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo potrebbe addivenire a una sentenza favorevole al ricorrente in ragione della mancata integrazione della condotta prevista dall’art. 6, comma terzo, del d.P.R. n. 737 del 1981.
2.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce, poi, l’inammissibilità delle questioni in ragione dell’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento. Le disposizioni in tema di procedimento disciplinare (artt. 12 e seguenti del d.P.R. n. 737 del 1981) sarebbero, difatti, applicabili, nei limiti della compatibilità, anche agli allievi e agli agenti in prova, in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 33, ultimo comma, del decreto del Ministro dell’interno del 9 marzo 1983 (Regolamento degli Istituti di Istruzione) – non oggetto di impugnativa nel giudizio a quo e nemmeno menzionato nell’ordinanza di rimessione – non rilevandosi alcun elemento, anche solo di natura analogica, che osti al riconoscimento delle garanzie minime di difesa all’allievo e all’agente in prova incolpato di una delle violazioni disciplinari sopra menzionate.
2.5.– Nel merito, sostiene la difesa dello Stato, non sussisterebbe il denunciato vizio di ragionevolezza intrinseca, sollecitandosi il sindacato di questa Corte su scelte riservate in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. Seppure la verifica di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione, ricollegata dall’art. 6-ter, comma 3, del d.P.R. n. 335 del 1982 alla fattispecie disciplinare dell’«uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope» (art. 6, comma terzo, numero 8, del d.P.R. n. 737 del 1981), fosse da intendersi circoscritta agli effetti immediati e diretti del provvedimento di espulsione, nella valutazione della sussistenza del vizio di ragionevolezza intrinseca “per sproporzione” di un trattamento sanzionatorio per sua natura non graduabile, come appunto l’espulsione, non sarebbe sufficiente limitarsi a rilevare che gli artt. 6 e 7 del d.P.R. n. 737 del 1981 «delineano una grande varietà di comportamenti, in astratto certo accomunati da una particolare gravità e riprovevolezza, ma che possono in concreto non esprimere un uniforme grado di offensività al prestigio della funzione e al suo regolare svolgimento e non ritenersi quindi meritevoli della massima sanzione».
L’affermazione del giudice rimettente circa l’impossibilità di presumere in maniera assoluta l’indegnità alla funzione di chi commetta mancanze punibili con sanzioni disciplinari più gravi della deplorazione, anche quando l’infrazione presenti in concreto una minima gravità e una trascurabile offensività ai valori e all’importanza del ruolo, sarebbe connotata da un così alto tasso di opinabilità da rivelarsi inidonea a fondare un giudizio di manifesta irragionevolezza della disposizione censurata, considerato che l’uso di sostanze stupefacenti costituisce di per sé circostanza ostativa alla partecipazione ai concorsi per l’arruolamento del personale della Polizia di Stato, per difetto dei requisiti di idoneità psico-fisica al servizio.
Con riferimento, poi, ai ripetuti richiami contenuti nell’ordinanza di rimessione alla giurisprudenza costituzionale in materia di «automatismi sanzionatori», l’Avvocatura dello Stato rileva come, nel caso di specie, sussistano specificità proprie della materia disciplinare, rispetto a quella penale in senso proprio, tali per cui non sarebbe attuabile una meccanica e indiscriminata applicazione alla prima di principi e schemi concettuali elaborati solo con riferimento alla seconda. Benché le sanzioni disciplinari attengano in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo – e proprio per tale ragione attraggano a sé alcune delle garanzie che la Costituzione e il diritto sovranazionale riservano alla pena – esse conserverebbero, tuttavia, una propria specificità anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale, potendo legittimamente rispondere, quanto meno nei casi concernenti pubblici funzionari cui sono affidati compiti essenziali a garanzia dello Stato di diritto, anche alla finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri.
1.– Con ordinanza iscritta al n. 114 del registro ordinanze 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, nella parte in cui, per gli allievi e gli agenti in prova, prevede l’espulsione dal corso al mero riscontro di mancanze punibili con sanzioni disciplinari più gravi della deplorazione, senza consentire una valutazione in concreto della gravità dell’infrazione e una conseguente graduazione della sanzione, né un procedimento di accertamento in contraddittorio della responsabilità.
Il giudice a quo è stato investito del ricorso per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento di espulsione dal corso di formazione per agenti della Polizia di Stato di un allievo agente che si sarebbe reso responsabile di una «mancanza punibile con sanzione disciplinare più grave della deplorazione» e, in particolare, della violazione di cui all’art. 6, comma quarto (recte: comma terzo), numero 8), del decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), che punisce con la sospensione (sanzione più grave della deplorazione) l’appartenente ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza che abbia fatto «uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope risultante da referto medico legale».
La domanda cautelare, proposta ai sensi dell’art. 55 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), è stata respinta. Contestualmente, il TAR ha sollevato le citate questioni di legittimità costituzionale.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso sul rilievo, tra l’altro, che, con ordinanza del 26 febbraio 2020, n. 36, il TAR ha definitivamente respinto l’istanza cautelare avanzata.
2.– L’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato è fondata.
Per come riferito dallo stesso rimettente, infatti, l’istanza cautelare avanzata nel giudizio a quo è stata rigettata a causa dell’insufficiente specificazione dei profili di periculum in mora e di concreta utilità del provvedimento interinale domandato, apparendo al TAR verosimile l’inattuabilità pratica della misura richiesta, cioè l’ammissione con riserva agli esami.
L’incidente di costituzionalità della norma censurata, dunque, non viene proposto per decidere l’istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato, bensì dopo il suo rigetto, al fine di dare soluzione al giudizio «sotto il profilo del merito», ma prima che si radichi la potestà decisoria a esso afferente.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «perché non si verifichi l’esaurimento del potere cautelare del rimettente, con conseguente inammissibilità della questione di costituzionalità per irrilevanza nel giudizio a quo (ordinanze n. 150 del 2012 e n. 307 del 2011) è necessario che il provvedimento sia “interinale” (ordinanza n. 128 del 2010), ovvero “ad tempus” (ordinanza n. 211 del 2011), o ancora “provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale” (ordinanza n. 236 del 2010). Calando tali principi nel giudizio amministrativo, come strutturato prima della riforma introdotta dal decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), si è poi affermato che “se il giudice amministrativo solleva la questione di legittimità costituzionale della norma relativa al merito del ricorso, contestualmente alla decisione, senza alcuna riserva, di accoglimento o di rigetto sulla domanda di sospensione del provvedimento impugnato, la questione risulta, per un verso, non rilevante nell’autonomo contenzioso sulla misura cautelare − esauritosi con la relativa pronuncia −, e per altro verso intempestiva in rapporto alla seconda ed eventuale sede contenziosa, posto che, prima del perfezionamento dei requisiti processuali prescritti (domanda di parte, assegnazione della causa per la sua trattazione), l’organo giurisdizionale è sprovvisto di potestà decisoria sul merito e sulle questioni di costituzionalità ad esso relative, ancorché questa delibazione sia limitata alla non manifesta infondatezza delle eccezioni e solo strumentale alla predetta seconda fase del giudizio” (sentenza n. 451 del 1993)» (sentenza n. 200 del 2014).
Tali considerazioni continuano a valere, anche nel processo amministrativo quale strutturato dopo la riforma, per l’ipotesi di rigetto della domanda cautelare, atteso che, ai sensi dell’art. 55, comma 11, del d.lgs. n. 104 del 2010, solo la concessione della misura cautelare comporta l’instaurazione del giudizio di merito senza necessità di ulteriori adempimenti, con la conseguenza che l’eventuale questione di legittimità costituzionale non sarebbe intempestiva rispetto a tale sede contenziosa, essendo (solo) in questo caso il giudice provvisto di piena potestà decisoria (ancora, sentenza n. 200 del 2014).
Alla luce di quanto precede, le questioni sollevate devono essere dichiarate inammissibili.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Angelo BUSCEMA, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2021.