SENTENZA N. 133
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente:
Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), promosso dal Tribunale ordinario di Trento nel procedimento vertente tra B. Z., in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale di M. Z., e R. C., con ordinanza del 30 giugno 2020, iscritta al n. 156 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Udita nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;
deliberato nella camera di consiglio del 12 maggio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, il Tribunale ordinario di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), in riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il comma terzo del citato art. 263 cod. civ. viene ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente che, per l’autore del riconoscimento, il termine per proporre l’azione di impugnazione decorra dalla conoscenza della non paternità.
Il giudice, pertanto, censura la norma che, per l’autore del riconoscimento, fa decorrere il dies a quo, relativo al termine annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell’impotenza al tempo del concepimento o, in alternativa, dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l’azione non debba essere impedita dal decorso di un termine, come quello quinquennale, che trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternità.
2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che B. Z. impugnava, con atto di citazione notificato il 7 agosto 2019, il riconoscimento del minore M. Z., per difetto di veridicità, chiamando in giudizio la madre, R. C., che aderiva all’impugnazione. Veniva, inoltre, disposta la nomina di un curatore speciale del minore M. Z.
2.1.– Il giudice a quo riferisce che l’annotazione del riconoscimento era avvenuta il giorno stesso della nascita della bambina, in data 4 agosto 2010, e che solo nel novembre del 2018 la madre aveva confidato all’autore del riconoscimento di aver avuto, nel 2009, una breve relazione con una terza persona. Questo induceva B. Z. a sottoporsi a degli esami ematici, all’esito dei quali aveva scoperto che il dato scientifico smentiva la sua paternità biologica.
2.2.– Il Tribunale di Trento espone che nel giudizio a quo tutte le parti chiedevano concordemente la rimozione dell’atto di riconoscimento della paternità, effettuato in contrasto con la verità biologica.
Tuttavia, il giudice rileva che sia per l’autore del riconoscimento, sia per la madre erano decorsi i termini previsti dall’art. 263, terzo comma, cod. civ.
Il rimettente, d’altro canto, esclude che il curatore nominato dal giudice istruttore possa ritenersi legittimato ad impugnare l’atto nell’interesse del minore, ai sensi dell’art. 264 cod. civ.
3.– Sul piano della rilevanza, il giudice a quo osserva che l’impugnazione risulterebbe intempestiva, pur avendo la disposizione transitoria di cui all’art. 104, comma 10, del d.lgs. n. 154 del 2013, previsto, per i casi di annotazione del riconoscimento avvenuta prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, un differimento dei termini di cui all’art. 263 cod. civ. alla data dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo (il 7 febbraio 2014).
La notifica dell’atto di citazione era, infatti, avvenuta il 7 agosto 2019 e, a quella data, risultavano decorsi sia il termine annuale, sia – per pochi mesi – quello quinquennale, sicché solo sollevando la questione di legittimità costituzionale il giudice ritiene di poter passare all’esame nel merito della domanda.
3.1.– Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sostiene che le questioni non potrebbero essere superate in ragione dell’intervento adesivo di soggetti diversi dal padre.
Il pubblico ministero avrebbe legittimazione ad agire nell’azione di disconoscimento di paternità, ai sensi dell’art. 244 cod. civ., ma non nell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
Parimenti, l’intervento adesivo della madre non sarebbe risolutivo, essendo anche la sua azione decaduta.
Infine, sebbene l’azione da parte del figlio risulti imprescrittibile (art. 263, comma 2, cod. civ.), il favor per l’impugnazione espresso dal curatore speciale del minore non inciderebbe sulla rilevanza. Secondo il rimettente, infatti, la legittimazione all’esperimento dell’azione non spetterebbe al curatore nominato dal giudice istruttore, ma richiederebbe, nel rispetto dell’art. 264 cod. civ. (come modificato dall’art. 29 del d.lgs. n. 154 del 2013), una designazione effettuata a seguito di una procedura camerale, ai sensi dell’art. 737 del codice di procedura civile, assumendo sommarie informazioni ed acquisendo anche il parere del pubblico ministero, che deve verificare se l’impugnazione corrisponda all’interesse del minore.
4.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo ritiene che l’art. 263, terzo comma, cod. civ. sia contrario «non solo all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e quindi all’art. 117, primo comma, Cost., ma anche agli artt. 3 e 76 Cost.».
4.1.– In particolare, relativamente alla decorrenza, per l’autore del riconoscimento, del termine annuale di decadenza, il rimettente ravvisa un contrasto con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, reputa insussistente qualsivoglia «ragionevole motivo [per il quale] il termine decorra dalla conoscenza [della non paternità] solo in caso di impotenza».
Inoltre, denuncia l’irragionevole disparità di trattamento fra la disciplina che, ai sensi dell’art. 244, secondo comma, cod. civ., regola i termini per proporre l’azione di disconoscimento della paternità e la più rigida normativa contemplata dal comma censurato per l’impugnazione del riconoscimento. Il termine annuale di decadenza dall’azione nell’art. 244 cod. civ. decorre dalla prova di una pluralità di fatti, tra i quali la scoperta dell’adulterio della moglie al tempo del concepimento; viceversa, la disciplina censurata in tema di impugnazione del riconoscimento «nulla prevede in relazione alla specifica ipotesi di ignoranza – da parte del padre – della relazione della madre con altri uomini al tempo del concepimento».
4.2.– La medesima norma relativa al termine annuale si porrebbe, poi, in contrasto con l’art. 76 Cost., per eccesso di delega rispetto all’art. 2, comma 1, della legge del 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali). Secondo il rimettente «la differenziazione – per il padre “apparente”, rispetto al padre coniugato – del termine per contestare il rapporto biologico col figlio “apparente”, effettuata dal[l’]art. 28 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, che ha modificato l’art. 263 c.c., appare di dubbia costituzionalità».
4.3.– Infine, la disciplina sui termini di cui all’art. 263, terzo comma, cod. civ. contrasterebbe con l’art. 117, primo comma, Cost., relativamente al parametro interposto di cui all’art. 8 CEDU. Secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo della norma che regola il diritto al rispetto della vita privata e familiare, l’esigenza di bilanciare, in una maniera conforme al principio di proporzionalità, il citato interesse con altre istanze contrapposte verrebbe pregiudicata da regole che a priori limitassero eccessivamente la possibilità di contestare la paternità.
Tali sarebbero le ipotesi in cui si addebitasse il mancato rispetto di un termine «per motivi che non potevano essere imputati» al soggetto legittimato all’azione.
Simile censura riguarda ambo i termini previsti per l’autore del riconoscimento dall’art. 263, terzo comma, cod. civ.: sia quello annuale, che, salvo il caso della scoperta dell’impotenza, decorre dall’annotazione del riconoscimento, sia quello quinquennale, che si computa sempre a partire da quel medesimo momento.
5.– Da ultimo, il rimettente considera impraticabile una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., in quanto esclusa dalla «stringente dizione letterale» della disposizione.
Considerato in diritto
1.– Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, il Tribunale ordinario di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), in riferimento agli artt. 3, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 263, terzo comma, cod. civ. prevede, in particolare, che «[l]’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno, che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento».
Il comma citato viene ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente che, per l’autore del riconoscimento, il termine per proporre l’azione di impugnazione decorra dalla conoscenza della non paternità.
Il giudice, pertanto, censura la norma che, per l’autore del riconoscimento, fa decorrere il dies a quo, relativo al termine annuale di decadenza, dalla mera scoperta dell’impotenza al tempo del concepimento o, in alternativa, dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Ritiene, inoltre, che l’azione non debba essere impedita dal decorso di un termine, come quello quinquennale, che trascorre a prescindere dalla conoscenza della non paternità.
2.– Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente evidenzia che entrambi i termini disciplinati dal comma censurato – quello annuale e quello quinquennale – sono, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, scaduti e, per questo, solleva le questioni di legittimità costituzionale, chiedendo che l’autore del riconoscimento possa impugnare l’atto a partire dalla scoperta della non paternità.
3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza investe l’intero art. 263, terzo comma, cod. civ., rilevando il contrasto con una pluralità di parametri che variamente si riverberano su ambedue i termini ivi regolati.
Le motivazioni riferite agli artt. 3 e 76 Cost. riguardano il solo termine di decadenza annuale, che decorre o dalla prova dell’impotenza al tempo del concepimento o, in mancanza di questa, dall’annotazione del riconoscimento; viceversa, l’argomentazione incentrata sull’art. 117, primo comma, Cost., relativamente al parametro interposto di cui all’art. 8 CEDU, mette in discussione qualunque termine impeditivo dell’azione, quando decorra per ragioni che non consentono di ritenere imputabile al legittimato l’inerzia.
3.1.– Il rimettente ravvisa, in particolare, una violazione dell’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo.
L’autore del riconoscimento, onde giovarsi di un dies a quo relativo al termine annuale diverso dall’annotazione dell’atto, sarebbe irragionevolmente ammesso a dimostrare la mera conoscenza dell’impotenza, anziché la scoperta della non paternità per altre ragioni.
Inoltre, il medesimo termine comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina del disconoscimento di paternità. Ai fini della sua decorrenza, l’art. 244 cod. civ. consente al padre di provare una pluralità di fatti, tra i quali la scoperta dell’adulterio al tempo del concepimento; viceversa, l’art. 263, terzo comma, cod. civ. «nulla prevede in relazione alla specifica ipotesi di ignoranza – da parte del padre – della relazione della madre con altri uomini al tempo del concepimento».
3.2.– La diversità di previsioni, sopra richiamata, si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 76 Cost., per avere la norma ecceduto rispetto ai limiti tracciati dall’art. 2, comma 1, della legge delega 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali).
3.3.– Infine, la disciplina sui termini di cui all’art. 263, terzo comma, cod. civ. violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe ritenuto non conformi ad un bilanciamento proporzionato fra gli interessi in conflitto meccanismi impeditivi dell’azione legati alla decorrenza di termini, che non consentono di ritenere imputabile l’inerzia.
Tale parametro costituzionale chiama in causa sia il termine annuale sia quello quinquennale.
4.– Preliminarmente, si deve rilevare che il giudice a quo ha ricostruito in maniera completa il quadro normativo, dando conto della norma transitoria di cui all’art. 104, comma 10, del d.lgs. n. 154 del 2013, secondo la quale «[f]ermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, nel caso di riconoscimento di figlio annotato sull’atto di nascita prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo, i termini per proporre l’azione di impugnazione, previsti dall’art. 263 e dai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 267 del codice civile, decorrono dal giorno dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo». Il rimettente, in particolare, chiarisce che il meccanismo di differimento, previsto dalla citata norma, non ha, comunque, impedito la scadenza di entrambi i termini, rispetto ai quali solleva le questioni di legittimità costituzionale.
Deve, inoltre, precisarsi che il giudice a quo ha censurato il solo art. 263, terzo comma, cod. civ. e non anche l’art. 104, comma 10, del d.lgs. n. 154 del 2013, in quanto ha chiesto una integrazione della prima disposizione, che facesse decorrere il termine a partire da un momento – la scoperta della non paternità – che, nel caso oggetto del giudizio, si era verificato dopo l’entrata in vigore della legge n. 219 del 2012.
5.– Passando ora all’esame del merito, occorre premettere che la riforma dell’art. 263 cod. civ., introdotta con il d.lgs. n. 154 del 2013, ha profondamente innovato la precedente disciplina, nell’ambito di una novella legislativa che, pur avendo mantenuto distinte le azioni di stato, si è ispirata all’obiettivo di «eliminare ogni discriminazione tra i figli […] nel rispetto dell’articolo 30 della Costituzione» (art. 2, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
Al precedente regime in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, tutto improntato al favor veritatis, è subentrata una regolamentazione che ha notevolmente rafforzato l’esigenza di stabilità dello status filiationis e di tutela del figlio.
La modifica del dato normativo è stata, poi, accompagnata dagli interventi di questa Corte, che ha provveduto a precisare la necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. L’art. 263 cod. civ. sottende «l’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti», posto che «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso (sentenza n. 272 del 2017)» (sentenza n. 127 del 2020).
Sullo sfondo, dunque, di un’azione nella quale il giudice non procede ad un mero accertamento della verità biologica, ma opera un bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti, si collocano le questioni poste dal rimettente, il quale dubita della legittimità costituzionale della disciplina relativa al duplice termine con cui l’art. 263, terzo comma, cod. civ. filtra la possibilità, per l’autore del riconoscimento, di far valere in giudizio uno degli interessi che entrano nel bilanciamento, vale a dire l’identità biologica.
In particolare, ravvisa un contrasto con gli artt. 3, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, rispetto alla disposizione che regola il dies a quo relativo al termine di decadenza annuale, nonché una violazione sempre dell’art. 117, primo comma, Cost., coordinato con la citata norma interposta, relativamente al termine quinquennale, che decorre dall’annotazione del riconoscimento e, dunque, a prescindere dalla conoscenza della non paternità.
6.– In via prioritaria, è necessario esaminare la censura che ritiene violato l’art. 76 Cost.
Secondo il rimettente, l’art. 263, terzo comma, cod. civ. avrebbe ecceduto i limiti tracciati dalla legge di delega, differenziando la disciplina del dies a quo, relativo al termine annuale di decadenza per l’impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento, rispetto alla previsione che regola, per il “padre coniugato”, la decorrenza del termine annuale nell’azione di disconoscimento della paternità.
La norma censurata prevede, infatti, che il termine annuale decorra o dalla scoperta della impotenza al tempo del concepimento o, altrimenti, dall’annotazione del riconoscimento. Per converso, l’art. 244 cod. civ. stabilisce, nel secondo e nel terzo comma, che il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre «dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita, il termine, di cui al secondo comma, decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia».
6.1.– La questione non è fondata.
L’art. 2, comma 1, della legge delega n. 219 del 2012 ha stabilito, quale principio generale, l’esigenza di «eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto dell’articolo 30 della Costituzione», statuendo, poi, alla lettera a) del medesimo comma la «sostituzione, in tutta la legislazione vigente, dei riferimenti ai “figli legittimi” e “figli naturali” con riferimenti ai “figli”, salvo l’utilizzo delle denominazioni di “figli nati nel matrimonio” e di “figli nati fuori del matrimonio” quando si tratta di disposizioni a essi relative». Infine, con specifico riferimento all’impugnazione del riconoscimento, ha previsto, alla lettera g) del citato comma, la modifica della disciplina «con la limitazione dell’imprescrittibilità dell’azione solo per il figlio e con l’introduzione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione da parte degli altri legittimati».
Sulla base delle disposizioni richiamate, non si può sostenere che al legislatore delegato fosse preclusa la possibilità di mantenere distinte azioni demolitorie dello status filiationis, purché l’esito – in conformità con l’art. 30 Cost. – non conducesse ad una discriminazione in pregiudizio al figlio nato fuori dal matrimonio.
Un tale risultato deve certamente escludersi con riferimento alla disciplina censurata.
Il legislatore delegato non solo ha introdotto – come espressamente richiesto dalla delega – l’imprescrittibilità dell’azione a beneficio del solo figlio, nonché un termine impeditivo dell’azione per gli altri legittimati, ma ha anche contemplato – come nel disconoscimento della paternità – un ulteriore termine riferito al padre. Tale norma, d’altro canto, pur non priva – come si dirà – di criticità, non comporta in alcun modo una discriminazione in pregiudizio al figlio nato fuori dal matrimonio.
Tanto premesso, va precisato che la giurisprudenza costituzionale in tema di eccesso di delega è da tempo costante nell’affermare che «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse (sentenza n. 194 del 2015 e sentenze n. 182 e n. 50 del 2014)» (sentenza n. 212 del 2018).
Deve, dunque, ritenersi che la norma censurata non abbia, in alcun modo, travalicato i confini tracciati dal perimetro della legge delega.
7.– Sempre con riferimento alla disciplina sul dies a quo, per l’autore del riconoscimento, del termine annuale di decadenza dall’azione (art. 263, terzo comma, prima parte, cod. civ.), il rimettente solleva ulteriori dubbi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost.
7.1.– L’esame di tali censure richiede, preliminarmente, di ricostruire come si sia giunti ad una norma che fa decorrere, per l’autore del riconoscimento, il dies a quo del termine annuale dalla scoperta dell’impotenza al tempo del concepimento, quale unica alternativa alla sua decorrenza dall’annotazione dell’atto di riconoscimento.
La disciplina richiamata origina da una traslazione meramente parziale, nell’ambito dell’impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, delle regole dettate dal legislatore per il disconoscimento della paternità del figlio nato nel matrimonio. Queste, a loro volta, hanno subito un processo evolutivo non privo di increspature, che è opportuno brevemente ripercorrere.
7.1.1.– Quando, in materia di prova del disconoscimento della paternità, vigeva l’art. 235 cod. civ., ora abrogato, che ammetteva il padre coniugato a dimostrare la non paternità solo dopo aver provato una serie di fatti idonei a superare l’allora presunzione di concepimento (la non coabitazione in quel periodo, o, nel medesimo arco di tempo, l’impotenza o l’adulterio o la dissimulazione della gravidanza o della nascita), questa Corte aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 244 cod. civ., nella parte in cui, regolando il termine di decadenza annuale per l’esercizio dell’azione, non aveva previsto che esso potesse decorrere anche dalla scoperta dell’adulterio (sentenza n. 134 del 1985) nonché dalla conoscenza dell’impotenza (sentenza n. 170 del 1999). La giurisprudenza costituzionale aveva rilevato, in proposito: «l’irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell’adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poiché l’azione sarebbe inutiliter data» (sentenza n. 134 del 1985), così come aveva contestato la ragionevolezza di una previsione che negava l’azione a chi «non [era] stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima» (sentenza n. 170 del 1999).
Dopo che le richiamate pronunce avevano riallineato la disciplina della decorrenza dei termini alle prove allora richieste dall’art. 235 cod. civ., questa Corte dichiarava, di seguito, l’illegittimità costituzionale della norma appena citata, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento, condizionava l’esame delle prove tecniche sulla non paternità alla previa dimostrazione di fatti ulteriori: nello specifico, alla prova dell’adulterio. La sentenza n. 266 del 2006 rilevava, infatti, che «[i]l subordinare […] l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito, della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione».
Con la novella introdotta dal d.lgs. n. 154 del 2013, la disciplina relativa alla prova oggetto del disconoscimento di paternità è stata conformata alla sentenza n. 266 del 2006, con l’eliminazione del filtro di ammissibilità e con l’abrogazione dell’art. 235 cod. civ., sostituito dalla semplice previsione dell’art. 243-bis, secondo comma, cod. civ., secondo cui «chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre». Tuttavia, la nuova regolamentazione della prova non si è riverberata sulla disciplina del termine annuale di decadenza dall’azione, che è stata adeguata esclusivamente a quanto deciso dalle sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985. L’art. 244 cod. civ. prevede, infatti, che il termine annuale di decadenza decorra per il padre dal momento della nascita del figlio (o, in caso di lontananza in quel momento, dai fatti previsti dall’art. 244, terzo comma, cod. civ.), oppure dalla prova della conoscenza dell’adulterio o dell’impotenza a generare al tempo del concepimento. In sostanza, le precedenti ragioni, che integravano il filtro di ammissibilità, continuano a dover essere provate, sia pur al mero fine di impedire la decadenza dall’azione.
7.1.2.– Venendo, ora, alla disciplina dell’impugnazione del riconoscimento del figlio, emerge come l’art. 263, terzo comma, cod. civ. abbia preso a modello proprio le regole dettate dall’art. 244 cod. civ. e si sia, poi, limitato a considerare la sola scoperta dell’impotenza al tempo del concepimento, quale dies a quo alternativo a quello dell’annotazione del riconoscimento.
A fronte di tale disposizione, il rimettente censura la norma per non aver previsto la decorrenza del termine annuale dalla conoscenza tout court della non paternità, a prescindere dalla causa da cui essa dipenda, sollevando un duplice dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost.
Per un verso, rileva l’irragionevolezza del richiamo esclusivo alla scoperta dell’impotenza, posto che il padre può ben ignorare (e non avere ragioni per sospettare) la non paternità, anche in ipotesi diverse da quella citata. Tale censura reca con sé il dubbio di un’irragionevole disparità di trattamento fra chi possa dimostrare la propria impotenza, onde sottrarsi alla decadenza dall’azione, e chi non sia affetto da tale patologia.
Per un altro verso, contesta l’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina sul disconoscimento di paternità, che contempla, oltre alla scoperta dell’impotenza, un più ampio novero di fatti, la cui dimostrazione fa decorrere il dies a quo del termine annuale.
7.2.– Le questioni sono fondate.
7.2.1.– Sotto il primo profilo, occorre rilevare che l’art. 263 cod. civ. regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto di veridicità, abbracciando tanto casi di riconoscimento effettuato nella consapevolezza della non paternità (su cui si vedano le sentenze n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017), quanto ipotesi in cui il consenso all’atto personalissimo si fondi sull’erronea supposizione del legame biologico.
Sennonché, mentre può ritenersi non irragionevole che il termine annuale decorra dall’annotazione del riconoscimento per chi abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza della non paternità biologica, per converso, evidenzia una palese irragionevolezza far decorrere il medesimo termine dall’annotazione del riconoscimento, per chi ignorasse il difetto di veridicità, limitando la possibilità di far valere la decorrenza del termine dalla scoperta della non paternità alla sola ipotesi dell’impotenza. Ne discende una irragionevole disparità di trattamento fra autori del riconoscimento, che possano provare l’impotenza, e autori del riconoscimento non affetti da tale patologia, che siano parimenti venuti a conoscenza della non veridicità della paternità biologica, quando oramai sia decorso il termine annuale conteggiato a partire dall’annotazione del riconoscimento.
La disciplina censurata si pone, in tal modo, in contrasto con quanto affermato da questa Corte, che ha ritenuto irragionevole far decorrere il termine annuale di decadenza dall’azione volta ad impugnare lo status filiationis, quando il padre non era a conoscenza dei fatti oggetto della prova (sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985). E se, quando le sentenze richiamate venivano pronunciate, l’onere probatorio che vigeva nella disciplina sul disconoscimento della paternità riguardava fatti quali l’adulterio o l’impotenza al tempo del concepimento, viceversa, unico ed esclusivo oggetto della prova nell’impugnazione del riconoscimento ex art. 263, primo comma, cod. civ., è – ed è sempre stato anche prima della riforma del 2013 – la mera non paternità biologica. È, dunque, dalla scoperta della non paternità che deve decorrere il termine annuale di decadenza dall’azione per l’autore del riconoscimento, onde evitare l’irragionevolezza di negare l’azione a chi «non [era] stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima» (sentenza n. 170 del 1999).
7.3.– Quanto sopra premesso evidenzia che la norma censurata comporta una irragionevole disparità di trattamento anche nel confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità.
Il padre non coniugato può dimostrare solo l’impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato può, invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell’adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita.
Anche a fronte di tale diversità di trattamento, che finisce per rendere più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio, deve, dunque, ritenersi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede che il termine annuale di decadenza decorra per l’autore del riconoscimento dalla mera scoperta della non paternità, che in sé abbraccia qualsivoglia ragione l’abbia determinata.
In tal modo, si garantisce al padre non coniugato una disciplina sul termine di decadenza annuale dall’azione, che presenta una latitudine analoga a quella spettante al padre coniugato, pur se questi, per sottrarsi alla decadenza del termine, è onerato dalla prova delle singole ragioni di sospetto o di acquisita certezza della non paternità, individuate dall’art. 244, secondo e terzo comma, cod. civ.
D’altro canto, non può certo ritenersi costituzionalmente vincolata l’esatta riproduzione nella disciplina dell’impugnazione del riconoscimento di tali singole ragioni previste dall’art. 244 cod. civ. per il disconoscimento della paternità.
Per un verso, infatti, rispetto a quest’ultima azione, il legislatore ha ritenuto di mantenere, sia pure al mero fine di impedire la decadenza dall’azione, un onere probatorio che, invero, rispetto alla dimostrazione richiesta per il disconoscimento di paternità, la sentenza n. 266 del 2006 aveva reputato costituzionalmente illegittimo. Non a caso, la riforma del 2013 ha previsto come prova per l’azione di disconoscimento la mera dimostrazione della non paternità (art. 243-bis cod. civ).
Per un altro verso, il mantenimento del richiamo a fatti, che un tempo operavano da filtro di ammissibilità dell’azione, collegato con la precedente presunzione di concepimento, palesa una logica del tutto estranea all’impugnazione del riconoscimento.
Appare, invece, decisivo che il superamento dell’irragionevolezza insita nell’art. 263, terzo comma, cod. civ., avvenga, per l’autore del riconoscimento, nel segno di un coordinamento tra la disciplina del termine di decorrenza dell’azione e l’oggetto della prova che, nell’impugnazione del riconoscimento, è la mera dimostrazione della non paternità biologica.
7.4.– In conclusione, deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 263, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità.
In riferimento a tale oggetto resta assorbita l’ulteriore questione di legittimità costituzionale, posta con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente alla norma interposta di cui all’art. 8 CEDU.
8.– Il contrasto con il medesimo art. 117, primo comma, Cost., sempre in rapporto alla norma interposta di cui all’art. 8 CEDU, deve essere, invece, indagato rispetto al termine quinquennale, di cui all’art. 263, terzo comma, cod. civ.
Nella disciplina di tale termine il tempo decorre, inibendo l’azione, a prescindere dalla circostanza che il richiedente fosse consapevole della sua possibile non paternità. Questo sembrerebbe evocare gli orientamenti della Corte EDU che, in effetti, ha censurato alcuni meccanismi impeditivi di azioni di impugnazione dello status filiationis, ove al legittimato non fosse imputabile l’inerzia.
8.1.– La questione non è fondata.
Vero è che, nell’interpretazione del diritto al rispetto della vita personale e familiare, la Corte EDU, in vari precedenti (Corte EDU, sentenza 10 gennaio 2007, Paulìk contro Slovacchia; Corte EDU, sentenza 24 febbraio 2006, Shofman contro Russia), compreso il recente caso citato dal rimettente, Doktorov contro Bulgaria (Corte EDU, sentenza 10 settembre 2018), ha ritenuto che non realizzino un bilanciamento proporzionato, tra gli interessi rilevanti, discipline volte a far decorrere un termine di decadenza per l’impugnazione dello stato di filiazione dal momento costitutivo dello stesso, anziché da quello in cui il richiedente abbia maturato la consapevolezza della sua possibile non paternità: «rather than from the moment the applicant became aware that he might not be the father of the child» (Corte EDU, sentenza 10 settembre 2018, non tradotta in italiano). In particolare, con riguardo alla legislazione bulgara, la Corte contesta la rigidità di previsioni che non consentono di prendere in considerazione le circostanze individuali di persone che, come il ricorrente, risultassero decadute per motivi a loro non imputabili.
Tuttavia, l’interpretazione sopra richiamata è correlata in maniera inscindibile alle fattispecie normative oggetto dei giudizi sottoposti alla Corte EDU, che si riferiscono a termini (semestrali o annuali) decisamente più brevi rispetto a quello quinquennale previsto dall’art. 263, terzo comma, ultima parte, cod. civ.
Un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa.
Nessuna censura di non proporzionalità può, dunque, muoversi – anche nel coordinamento fra l’interpretazione dell’art. 8 CEDU, offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei principi costituzionali – alla scelta operata dal legislatore che, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di sacrificare l’interesse dell’autore del riconoscimento, a far valere in via giudiziale l’identità biologica, a beneficio dell’interesse allo status filiationis consolidatosi dopo cinque anni dal suo sorgere.
Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l’interesse a far valere la verità biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio, in quanto esso può essere fatto valere dallo stesso figlio, per il quale l’azione di impugnazione del riconoscimento risulta imprescrittibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione, decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui prevede che «l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento», sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 maggio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2021.