SENTENZA N. 177
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale ordinario di Trento, sezione per le controversie di lavoro, nel procedimento vertente tra G. M. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 21 giugno 2018, iscritta al n. 162 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 giugno 2019 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;
uditi l’avvocato Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 21 giugno 2018, il Tribunale ordinario di Trento, sezione per le controversie di lavoro, solleva, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui comporta l’individuazione delle 520 settimane di cui all’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e delle 780 settimane di cui all’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), coperte da contribuzione – cui si riferiscono i redditi da computare per la determinazione del reddito medio annuo costituente la base di calcolo del trattamento pensionistico – in quelle anteriori alla data di insorgenza del diritto alla decorrenza della pensione, anziché in quelle anteriori alla data di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento.
La disposizione censurata stabilisce che – con riguardo ai soggetti che maturano i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2011 per l’accesso al pensionamento ai sensi dell’art. 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), e successive modificazioni e integrazioni, con età inferiori a quelle indicate al comma 1 del medesimo art. 12 – il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico, per coloro i quali conseguono il trattamento di pensione a carico delle gestioni per gli artigiani, i commercianti e i coltivatori diretti nonché della gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995, si consegua trascorsi diciotto mesi dalla data di maturazione dei previsti requisiti.
1.1.– Il giudice rimettente rappresenta che il giudizio principale è stato istaurato a seguito del ricorso, depositato in data 29 aprile 2014, da G. M. nei confronti dell’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), per l’accertamento del diritto alla pensione di anzianità nella gestione artigiani, a decorrere dal 1° giugno 2013, avendo maturato, alla data del 31 dicembre 2011, un numero di contributi settimanali (n. 2086) superiore a quello (n. 2080) richiesto, per conseguire il diritto al trattamento pensionistico, dall’art. 1, comma 6, lettera b), numero 1), della legge n. 243 del 2004 e dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.
Pur concordando le parti del giudizio a quo sulla decorrenza del trattamento pensionistico (1° giugno 2013), il giudice rimettente riferisce che vi è disaccordo in ordine all’entità del trattamento: per il ricorrente, il rateo mensile di pensione di anzianità alla data del 1° giugno 2013, data di insorgenza del diritto alla decorrenza della pensione, ammonterebbe ad euro 2.703,62; secondo l’INPS, invece, il trattamento corrisponderebbe ad euro 2.462,85.
Tale difformità è determinata dalla diversa individuazione ad opera delle parti della data rispetto alla quale devono computarsi le ultime 520 settimane coperte da contribuzione, ai fini del computo della cosiddetta quota A del trattamento (inerente, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990, alla contribuzione versata dall’interessato alla gestione speciale per gli artigiani fino al 31 dicembre 1992), e le ultime 780 settimane coperte da contribuzione, ai fini del computo della cosiddetta quota B (afferente, ai sensi dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, alla contribuzione versata alla medesima gestione previdenziale dal 1° gennaio 1993): secondo il ricorrente, tali settimane devono essere individuate in quelle antecedenti al 30 novembre 2011, data di maturazione dei requisiti per il pensionamento; per l’INPS, le predette settimane vanno invece individuate in quelle antecedenti al 1º giugno 2013, data di insorgenza del diritto alla decorrenza della pensione per effetto della disposizione censurata.
La questione è se, ai fini dell’individuazione delle 520 e 780 settimane coperte da contribuzione (alle quali si riferiscono i redditi da computare per la determinazione del reddito medio annuo costituente la base di calcolo del trattamento pensionistico), debba essere considerato o no l’intervallo di tempo tra la data di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento e la data di insorgenza del diritto alla decorrenza della pensione (cosiddetta finestra mobile), introdotto dall’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010.
Il rimettente ritiene che il tenore letterale della disposizione denunciata, in coordinato disposto con le ricordate disposizioni dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, nel fare espresso riferimento alla «decorrenza del trattamento pensionistico», impone di accogliere la tesi dell’INPS, ovvero di computare le predette settimane in riferimento a quelle anteriori a tale data di decorrenza.
Tuttavia, secondo il giudice tridentino, ciò determinerebbe conseguenze irragionevoli nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il lavoratore una volta maturati i requisiti di accesso al pensionamento, anziché cessare l’attività lavorativa, la prosegua nei diciotto mesi previsti dalla disposizione censurata per conseguire il diritto alla decorrenza della pensione, ma produca un reddito che incide negativamente sull’importo del trattamento altrimenti determinabile alla data di perfezionamento dei requisiti.
1.2.– Il rimettente, pertanto, solleva d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui determinerebbe tale irragionevole effetto, ledendo il principio di razionalità posto dall’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, pur in presenza di una ulteriore contribuzione connessa all’attività lavorativa prestata nel periodo intercorrente tra la data della maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi per la pensione di anzianità e la data della sua decorrenza, il trattamento pensionistico verrebbe a risultare inferiore a quello che sarebbe stato attribuito in mancanza della predetta contribuzione, sulla base dei requisiti anagrafici e contributivi maturati.
Il giudice a quo rappresenta di aver già sollevato nel medesimo giudizio principale, con ordinanza del 6 ottobre 2015, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. l, comma 18, della legge n. 335 del 1995, dichiarata «inammissibile» da questa Corte con la sentenza n. 23 del 2018, «per non corretta individuazione della norma denunciata». Ciò perché l’effetto lamentato dal rimettente non era determinato dalle disposizioni allora censurate, bensì dall’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, poiché è tale disposizione a porre il reale thema decidendum «costituito dal rilievo e dalla qualificazione giuridica del periodo di attesa della cosiddetta “finestra”, allorché l’assicurato prosegua l’attività lavorativa e quindi la contribuzione, ai fini della determinazione dell’entità del trattamento pensionistico».
Pertanto, il rimettente evidenzia di aver proposto una nuova questione in riferimento all’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010 e, dunque, su una norma diversa da quelle indicate nella precedente ordinanza di rimessione. In proposito richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 189 del 2001, n. 433 del 1995, n. 451 del 1989, n. 930 del 1988 e le ordinanze n. 399 del 2002 e n. 164 del 1987), secondo cui l’art. 24, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), preclude la riproponibilità della medesima questione di legittimità costituzionale, da parte dello stesso giudice, soltanto se la precedente pronuncia abbia natura decisoria, di talché non osta all’esame nel merito della questione la declaratoria di inammissibilità basata su una mera lacuna della prima ordinanza di rimessione.
Riguardo alla rilevanza della questione, il giudice a quo afferma che il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla sua soluzione poiché, dato il ricordato tenore letterale della disposizione censurata, la domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere parzialmente rigettata.
In ordine alla non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che, qualora nei diciotto mesi tra la data di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento e quella di decorrenza del diritto al trattamento l’interessato non avesse svolto alcuna attività lavorativa, l’INPS gli avrebbe attribuito, alla data di decorrenza del diritto alla pensione, un rateo mensile di euro 2.703,62, anziché quello inferiore concretamente riconosciutogli, in quanto, nell’ipotesi in cui in detto periodo non fossero stati versati contributi, esso sarebbe stato considerato neutro.
Alla stregua delle considerazioni svolte, il Tribunale ordinario di Trento ritiene «contraria al principio di razionalità, insito nel precetto ex art. 3 comma 1 Costituzione, sia nel senso di razionalità pratica, sia nel senso di razionalità formale, cioè del principio logico di non contraddizione (in questo senso Corte costituzionale n. 113 del 2015 e n. 172 del 1996), una norma che determini in presenza di ulteriore contribuzione un trattamento pensionistico inferiore a quello che sarebbe stato attribuito in mancanza di quella stessa contribuzione».
Secondo il rimettente, il lavoratore una volta conseguiti i requisiti per l’accesso al pensionamento non può subire una riduzione del trattamento maturato a tale data se prosegue l’attività lavorativa, essendo illogico che il versamento di un’ulteriore contribuzione determini una diminuzione della prestazione.
Aggiunge il giudice a quo che la norma censurata «comporta che la contribuzione conseguita successivamente al momento di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento produce un duplice e contrastante effetto sul trattamento pensionistico». Ciò in quanto «i redditi prodotti nel periodo dei diciotto mesi vengono considerati sotto un duplice aspetto: quale contribuzione ai fini del computo della pensione secondo il sistema retributivo, sia ai fini del computo della quota D secondo il sistema contributivo». Ad avviso del giudice a quo, «appare contraddittorio che una stessa contribuzione venga considerata due volte ai fini della determinazione del trattamento pensionistico e, per di più, nel contempo, diminuisca una quota (nel caso in esame due) e ne incrementi un’altra (senza peraltro compensare la prima perdita)».
2.– L’INPS, nel costituirsi nel giudizio incidentale, ha chiesto di dichiarare inammissibile o infondata la questione di legittimità costituzionale.
2.1.– In ordine alla inammissibilità, l’Istituto deduce che il giudice rimettente ha «omesso di interpretare la norma scrutinata nel quadro del diritto vivente, laddove, al contrario di quanto dal medesimo reputato, il ridetto articolo 12 del decreto legge n. 78 del 2010 si palesa immune da ogni dubbio di illegittimità ove letto in coerenza con i principi affermati da codesta Corte e dalla Corte suprema di cassazione sia in punto di neutralizzazione dei periodi contributivi sfavorevoli, sia in punto di identificazione del momento perfezionativo del diritto a pensione quando la decorrenza venga fissata in regime di posticipazione normativa dell’accesso» (cosiddetto regime delle “finestre”).
In particolare, l’Istituto afferma che il Tribunale rimettente «non ha valutato se il calcolo della pensione del lavoratore autonomo che acceda alla pensione in base al regime delle finestre di cui all’art. 12 del decreto-legge n. 78 del 2010 debba essere effettuato applicando la “neutralizzazione” o “sterilizzazione” dei contributi sfavorevoli versati successivamente al raggiungimento del requisito anagrafico».
Ciò in riferimento alla sopravvenuta sentenza n. 173 del 2018 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote del trattamento pensionistico, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, non prevedono l’esclusione dal computo della contribuzione successiva ove comporti un trattamento pensionistico meno favorevole.
Secondo l’Istituto, l’applicazione di tale decisione rende irrilevante la questione posta dal giudice rimettente, poiché «il periodo corrispondente all’attesa della finestra di uscita, in quanto accreditato successivamente al raggiungimento del requisito contributivo, dovrebbe essere neutralizzato, se sfavorevole». Ad avviso dell’INPS, «non appare pertanto rilevante che nella fattispecie si applichi lo slittamento previsto dall’art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge n. 78 del 2010».
2.2.– Sotto altro profilo, l’INPS deduce la infondatezza della ricostruzione operata dal Tribunale rimettente del regime delle “finestre” e della sua incisività nel procedimento di perfezionamento del diritto alla pensione.
L’Istituto previdenziale ritiene che le argomentazioni svolte in proposito dal rimettente muovono dal presupposto che il diritto a pensione sia maturato al momento del raggiungimento dei requisiti stabiliti dall’art. 6 (recte: art. 1, comma 6) della legge n. 243 del 2004, con la conseguenza che il periodo di slittamento derivante dal sistema delle “finestre” diventerebbe ultroneo rispetto alla maturazione del diritto a pensione, e che la decorrenza della pensione non rappresenterebbe il momento che fissa la data fino alla quale la contribuzione versata deve essere considerata per ricavare il reddito base utile ai fini del calcolo della pensione.
Tuttavia tale assunto del giudice rimettente contrasterebbe, ad avviso dell’INPS, con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità (viene citata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 24 agosto 2007, n. 18041) sugli effetti dello slittamento temporale determinato dal sistema delle “finestre”, introdotto per le pensioni di anzianità dall’art. 1, comma 2-bis, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, e dall’art. 1, comma 29, della legge n. 335 del 1995.
In particolare, l’INPS evidenzia che la Corte di cassazione ha chiarito che il momento di perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico diviene il momento in cui è decorso il periodo previsto dalla normativa, ovvero va identificato nella data di apertura della “finestra” indicata caso per caso dalla legge. In tal modo, il tempo diventa elemento costitutivo del diritto alla pensione, poiché la decorrenza del periodo stabilito dal legislatore perfeziona il relativo diritto. Ne consegue che le ultime settimane contributive da prendere in considerazione ai fini della determinazione del trattamento sono quelle corrispondenti «agli ultimi versamenti contributivi prima della cessazione dell’attività lavorativa». Fermo restando che «nel computo delle ultime settimane contributive utili, pur assunta come data di riferimento quella di decorrenza della pensione, debbano essere neutralizzate le settimane sfavorevoli successive al raggiungimento del requisito contributivo».
2.3.– Da ultimo, l’Istituto rileva che «non appare conferente, né rilevante al fine del vaglio della questione posta, il dubbio espresso dal Giudice remittente secondo cui “appare contraddittorio che una stessa contribuzione venga considerata due volte ai fini della determinazione del trattamento pensionistico e, per di più, nel contempo, diminuisca una quota (nel caso in esame due) e ne incrementi un’altra (senza peraltro compensare la prima perdita)”».
Premesso che, in base al sistema pensionistico, le ultime settimane contributive sono, generalmente, le più favorevoli perché corrispondenti ai redditi più alti percepiti dal lavoratore, in quanto, normalmente, il reddito viene incrementato nel tempo rispetto al livello iniziale, l’Istituto evidenzia che «una medesima settimana collocata nell’ultimo periodo lavorativo viene inclusa nel computo del reddito o retribuzione medi ai fini della liquidazione del trattamento in regime retributivo, sia della quota A sia della quota B. La medesima settimana dovrà poi essere valorizzata anche per commisurare la quota finale liquidata in regime contributivo. Si tratta, all’evidenza, di criteri di calcolo, stabiliti dal legislatore in coerenza con la necessità di tener conto che nel tempo, durante il periodo assicurativo, vengono talvolta mutati i criteri di liquidazione».
Precisa l’INPS che il periodo contributivo dal 2012 in poi, poiché viene valorizzato col sistema contributivo, non incrementa una quota, né ne diminuisce altre, in quanto il reddito percepito in quel periodo costituisce un elemento di calcolo che viene utilizzato nel computo di ciascuna quota, secondo le regole particolari che regolano ognuna di esse.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto chiedendo di dichiarare inammissibile e comunque infondata la questione.
3.1.– In punto di inammissibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che il giudice rimettente si è limitato a censurare il solo art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, mentre, secondo la sentenza di questa Corte n. 23 del 2018, «l’effetto censurato» dal giudice a quo non scaturisce dalle «sole disposizioni censurate» nella precedente ordinanza di rimessione, vale a dire gli artt. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995. Pertanto il giudice a quo non avrebbe, ancora una volta, individuato correttamente le norme di riferimento che costituiscono il sistema complessivamente considerato e vigente in relazione alla sollevata questione di legittimità costituzionale.
3.2.– In ordine alla infondatezza, il Presidente del Consiglio dei ministri assume che la censura di illegittimità costituzionale prospettata dal giudice rimettente non avrebbe pregio.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il sistema della “finestra” costituirebbe un contemperamento fra interessi del lavoratore e contenimento della spesa pubblica, sorretto dall’art. 81 Cost. e dalla necessità di assolvere gli obblighi scaturenti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Inoltre la legittimità della norma censurata sarebbe confermata dalla circostanza che essa «non è innovativa, dal momento che all’atto dell’adozione della stessa già risultava vigente un regime delle decorrenze dei trattamenti, determinato anche ai sensi della legge n. 335/1995 citata, con posticipo delle medesime rispetto alla data di maturazione dei requisiti». Sempre secondo l’Avvocatura, la disposizione in esame «ha, dunque, rimodulato la determinazione dei preesistenti periodi di posticipo della decorrenza con lo scopo di migliorare la sostenibilità economico-finanziaria del sistema pensionistico e della finanza pubblica».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale ordinario di Trento, sezione per le controversie di lavoro, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dell’art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui comporterebbe che il trattamento pensionistico sia determinato facendo riferimento agli ultimi dieci anni, ovvero le 520 settimane di cui all’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e agli ultimi quindici anni – ovvero le 780 settimane di cui all’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), di redditi coperti da contribuzione che precedono la data di insorgenza del diritto alla decorrenza della pensione, anziché quella di maturazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento.
In punto di fatto, il giudice riferisce che il giudizio principale riguarda la determinazione del trattamento pensionistico di anzianità di un lavoratore autonomo che ha maturato i requisiti anagrafici e contributivi il 30 novembre 2011, ma ha acquisito il diritto alla decorrenza della pensione diciotto mesi dopo, cioè dal 1° giugno 2013, per effetto della cosiddetta finestra mobile, introdotta dall’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.
Pur avendo proseguito l’attività lavorativa e la correlata contribuzione nel predetto periodo di diciotto mesi, a seguito del reddito prodotto, che ha inciso negativamente sulla base di computo del trattamento come determinato ai sensi delle ricordate disposizioni della legge n. 233 del 1990 e della legge n. 335 del 1995, il lavoratore ricorrente si è visto calcolato dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS) un rateo mensile di euro 2.462,85, invece che di euro 2.703,62, quale “virtualmente” risultante alla data di maturazione del requisito contributivo.
Il giudice a quo ritiene irragionevole, e dunque contraria all’art. 3 Cost., una normativa in base alla quale il trattamento pensionistico determinabile alla data del conseguimento del requisito contributivo venga a essere ridotto, nonostante la maggiore contribuzione versata successivamente a tale data. L’irragionevolezza sarebbe tanto più evidente in quanto, se il lavoratore non avesse lavorato durante il periodo della “finestra”, si sarebbe visto liquidare un trattamento maggiore di quello attribuibile alla data di accesso al trattamento pensionistico, pur avendo versato una minore contribuzione.
Il rimettente rappresenta di aver già sollevato nel medesimo giudizio principale, con ordinanza del 6 ottobre 2015, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. l, comma 18, della legge n. 335 del 1995, ma tale questione con sentenza n. 23 del 2018 era stata dichiarata «inammissibile» «per non corretta individuazione della norma denunciata». Ciò in quanto questa Corte aveva rilevato che l’effetto lamentato dal rimettente non era prodotto dalle disposizioni allora censurate, bensì dall’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010 e che era, dunque, tale disposizione a porre il reale thema decidendum della questione sollevata, «costituito dal rilievo e dalla qualificazione giuridica del periodo di attesa della cosiddetta “finestra”, allorché l’assicurato prosegua l’attività lavorativa e quindi la contribuzione, ai fini della determinazione dell’entità del trattamento pensionistico».
Pertanto, il rimettente evidenzia di aver proposto una nuova questione in riferimento all’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010 e, dunque, su una norma diversa da quelle indicate nella precedente ordinanza di rimessione.
1.1.– L’INPS e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata la questione.
2.– Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri.
2.1.– L’INPS ha eccepito che il giudice rimettente avrebbe omesso di interpretare la disposizione censurata nel quadro del diritto vivente, ovvero alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione sulla “finestra”, secondo cui il decorso del relativo periodo temporale è elemento costitutivo del diritto a pensione, nonché dell’insegnamento della stessa Cassazione e di questa Corte in ordine al principio di “neutralizzazione” dei periodi contributivi sfavorevoli successivi alla maturazione del requisito contributivo e anagrafico previsto per il trattamento pensionistico.
A tale ultimo riguardo l’Istituto richiama la sopravvenuta sentenza n. 173 del 2018 di questa Corte che ha riconosciuto applicabile anche ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’INPS il predetto principio. Ad avviso dell’INPS, tale decisione renderebbe, difatti, irrilevante l’odierna questione, comportando la neutralizzazione delle settimane di contribuzione sfavorevoli conseguite dal lavoratore interessato durante il periodo della “finestra” e, dunque, successivamente al raggiungimento del requisito contributivo per il trattamento pensionistico.
2.2.– L’eccezione va disattesa.
In disparte dalla valutazione nel merito di quanto argomentato dall’Istituto, la dedotta omissione interpretativa non è comunque ravvisabile. Difatti, l’ordinanza di rimessione è antecedente alla sentenza n. 173 del 2018, e dunque al momento della sua proposizione la questione in oggetto era prospettabile, stante l’ambito applicativo del principio di neutralizzazione come all’epoca risultava dalla giurisprudenza costituzionale che lo riconosceva applicabile in riferimento, in via generale, alle sole gestioni pensionistiche dei lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria (a partire dalla sentenza n. 428 del 1992), oltre che a specifiche gestioni previdenziali (sentenza n. 433 del 1999, relativa al trattamento pensionistico degli agenti di commercio iscritti all’ENASARCO), e dunque non al trattamento previdenziale dei lavoratori autonomi iscritti alle gestioni INPS.
2.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito la inammissibilità della questione per non avere il giudice rimettente individuato correttamente le norme che assumono rilievo ai fini dell’odierna questione, essendosi limitato a censurare l’art. 12, comma 2, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, là dove l’effetto lamentato scaturisce, secondo quanto evidenziato dalla sentenza di questa Corte n. 23 del 2018, anche da altre disposizioni: in particolare, da quelle di cui all’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e all’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, relative alla individuazione delle settimane contributive utili a determinare la base pensionabile per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’INPS.
2.4.– L’eccezione non è fondata.
Pur nella stringatezza dell’esposizione sul punto, dal complessivo tenore dell’ordinanza comunque si evince che il giudice rimettente fa derivare l’effetto lamentato dal coordinato disposto della disposizione oggi censurata con quelle richiamate dall’Avvocatura generale dello Stato e oggetto della questione già sollevata con la precedente ordinanza dallo stesso giudice, dichiarata inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 23 del 2018.
3.– Nel merito la questione non è fondata.
3.1.– Il giudice rimettente denuncia la illegittimità della norma censurata, là dove a suo avviso determinerebbe l’irragionevole effetto, come tale lesivo del principio posto dall’art. 3 Cost., che l’ulteriore contribuzione versata dal lavoratore durante il periodo di attesa per la decorrenza del trattamento (“finestra”), invece di incrementare il trattamento calcolabile alla data di maturazione del requisito contributivo, ne possa comportare una riduzione.
Tale effetto risulterebbe ancor più paradossale ove si consideri che, se il lavoratore non avesse proseguito l’attività lavorativa, l’importo del trattamento pensionistico sarebbe stato più elevato, in quanto la base di calcolo sarebbe rimasta “cristallizzata” in quella più elevata determinabile al momento del conseguimento del requisito contributivo e anagrafico.
3.2.– La questione nei termini così prospettati dal giudice a quo avrebbe avuto una sua consistenza.
Con riferimento al sistema pensionistico dei lavoratori subordinati, la giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 82 del 2017) ha ripetutamente evidenziato l’irragionevolezza di un meccanismo di determinazione della retribuzione pensionabile, che, pur preordinato a garantire al lavoratore una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione, conduceva a risultati antitetici, in quanto correlata all’ultimo scorcio della vita lavorativa, incidendo in senso riduttivo sulla pensione potenzialmente già maturata.
Sebbene l’ordinanza tralasci di illustrare gli indirizzi giurisprudenziali in materia e, in particolare, quelli in ordine all’ambito applicativo del principio di “neutralizzazione”, a ben vedere il giudice rimettente ne invoca l’applicazione nella situazione oggetto del giudizio principale, concernente il trattamento pensionistico di un lavoratore autonomo iscritto alla competente gestione speciale INPS.
3.3.– Senonché, la questione così prospettata dal giudice rimettente risulta oramai superata dalla sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 173 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, «nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote di trattamento pensionistico, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, non prevedono l’esclusione dal computo della contribuzione successiva ove comporti un trattamento pensionistico meno favorevole».
L’intervenuto riconoscimento dell’operatività del principio di “neutralizzazione” anche per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’INPS ne consente dunque l’applicazione allo specifico caso in esame, così risolvendo i dubbi di legittimità prospettati dal rimettente.
Difatti, in conformità all’indirizzo espresso dalla Corte di cassazione (ex plurimis, sezione lavoro, sentenze 24 agosto 2007, n. 18041, e 26 giugno 2017, n. 15879), il momento di perfezionamento del diritto alla pensione è costituito dalla decorrenza del periodo di slittamento per l’accesso al trattamento pensionistico, come previsto dalla disposizione denunciata. Tuttavia, applicando il principio di “neutralizzazione”, non si dovrà tener conto della contribuzione successiva alla data di perfezionamento del prescritto requisito contributivo, ove essa determini, per effetto del reddito conseguito dall’interessato durante il periodo della “finestra”, una riduzione del trattamento calcolabile alla predetta data di perfezionamento del requisito.
3.4.– Sotto tale profilo risultano dunque corrette le ricordate considerazioni svolte dall’INPS circa l’effetto dirimente della sentenza di questa Corte n. 173 del 2018 sulla odierna questione: applicando il principio di “neutralizzazione”, la norma censurata, viene, difatti, a risultare immune dai dedotti profili di illegittimità, non comportando, in combinato disposto con gli artt. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, l’effetto pregiudizievole lamentato dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata dal Tribunale ordinario di Trento, sezione per le controversie di lavoro, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giulio PROSPERETTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2019.