Ordinanza n. 153 del 2016

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ORDINANZA N. 153

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo                       GROSSI                                                         Presidente

- Alessandro              CRISCUOLO                                                  Giudice

- Giorgio                    LATTANZI                                                           ”

- Aldo                        CAROSI                                                                ”

- Marta                      CARTABIA                                                          ”

- Mario Rosario         MORELLI                                                             ”

- Giancarlo                CORAGGIO                                                         ”

- Giuliano                  AMATO                                                                ”

- Silvana                    SCIARRA                                                             ”

- Daria                       de PRETIS                                                            ”

- Nicolò                     ZANON                                                                ”

- Franco                     MODUGNO                                                         ”

- Giulio                      PROSPERETTI                                                     ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli, con ordinanza del 16 ottobre 2014, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 1° giugno 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.

Ritenuto che con ordinanza del 16 ottobre 2014 (r.o. n. 50 del 2015), il Tribunale ordinario di Tivoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A);

che le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi, nel corso del quale entrambe le parti si sono regolarmente costituite;

che, secondo la ricostruzione in fatto operata dall’ordinanza di rimessione, all’udienza dell’8 ottobre 2014 il convenuto è comparso personalmente, rappresentando di aver perduto il posto di lavoro nel mese di marzo del 2014 – come comprovato dall’esibizione di documentazione attestante lo stato di disoccupazione – e di aver conseguito, nel precedente anno 2013, un reddito dichiarato ai fini IRPEF (dimostrato dal CUD 2014) pari ad euro 17.905,37, ossia un importo che non gli avrebbe consentito di beneficiare del patrocinio a spese dello Stato per l’anno 2014;

che, nonostante ciò, la parte convenuta ha chiesto di essere ammessa al patrocinio statale e, in subordine, di rinviare l’udienza ad una data dell’anno 2015, a partire dal quale avrebbe potuto godere del beneficio, evidenziando la mancata comparizione del proprio difensore a seguito di accordi specifici, per l’impossibilità di corrispondergli «la tariffa professionale prescritta per le attività giudiziali svolte, eventualmente, nell’anno in corso»;

che il giudice rimettente, in punto di rilevanza, premette che «allo stato attuale della legislazione, il convenuto non può essere ammesso a fruire del beneficio del patrocinio a spese dello Stato», poiché – con decreto del Ministero della giustizia 1° aprile 2014 (Adeguamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato) – l’importo reddituale massimo indicato dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, ai fini dell’ammissione al beneficio, è stato fissato in euro 11.369,24, importo di gran lunga inferiore a quello di euro 17.905,37 conseguito dal convenuto nell’anno 2013;

che, secondo il rimettente, l’attestazione dello stato di disoccupazione a far data dal 22 maggio 2014 proverebbe «il mancato raggiungimento del reddito per l’anno in corso»;

che sarebbe, altresì, soddisfatta, a giudizio del rimettente, la condizione prevista dall’art. 75 (rectius: 74) del d.P.R. n. 115 del 2002, che assicura il patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, per la difesa del cittadino non abbiente, «quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate», in quanto il giudizio avrebbe ad oggetto la «reciproca volontà di addivenire a cessazione del rapporto coniugale»;

che l’unica condizione ostativa sarebbe costituita dalla previsione di cui al comma 1 dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui «[p]uò essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro» 11.369,24 (importo così aggiornato dal ricordato d.m. 1° aprile 2014), dal momento che non potrebbe trovare applicazione il comma 2 del medesimo articolo – secondo cui «se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante» – stante la previsione del successivo comma 4, a tenore del quale «[s]i tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi», evidentemente applicabile alle cause di separazione coniugale;

che il giudice rimettente, esclusa qualsiasi possibilità di diversa interpretazione della norma – nel senso di estendere il beneficio «a situazioni reddituali non risultanti dall’ultima dichiarazione» – considera rilevanti le prospettate questioni di legittimità costituzionale, in presenza di «una situazione di documentata difficoltà economica che rende impossibile alla parte il ricorso “effettivo” all’ausilio di un avvocato difensore, pur formalmente nominato»;

che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente dubita, in primo luogo, della ragionevolezza delle disposizioni denunciate, perché «la differenza anche di soli pochi euro rispetto al reddito massimo previsto di 11.369,24 determina l’esclusione dal beneficio»;

che il giudice a quo dubita della compatibilità delle norme censurate anche con l’art. 24 Cost., con particolare riferimento al terzo comma, ove si sancisce che «[s]ono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione», in quanto taluni atti del processo sarebbero già stati compiuti dalla sola parte attrice, essendo stato il convenuto impedito a proporre le memorie ex art. 183, sesto comma, del codice di procedura civile, «per impossibilità di pagare tale attività difensiva»;

che, a parere del rimettente, non sarebbe possibile ricorrere «all’artifizio di rinviare gli atti processuali all’anno successivo in quanto sarebbe contrario al principio (di pari rilevanza) di ragionevole durata del processo»;

che anche per questa ragione le sollevate questioni sarebbero rilevanti, in quanto «di imprescindibile soluzione per la decisione», risultando altrimenti impedita la possibilità del convenuto di partecipare effettivamente, con un proprio difensore, al processo;

che, sulla scorta di tali premesse, il Tribunale ordinario di Tivoli solleva, dunque, questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 75 e 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui non dispongono che il giudice debba tenere conto, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, «del reddito degli ultimi 12 mesi (anziché di quello dell’anno precedente risultante dalla dichiarazione dei redditi)» oppure, in subordine, nella parte in cui non dispongono la possibilità di una ammissione graduata e parziale a tale beneficio «in ragione di fasce o scaglioni reddituali»;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate;

che, in punto di rilevanza, l’Avvocatura generale dello Stato prospetta l’inammissibilità delle questioni in relazione all’esigenza manifestata dal giudice a quo di rispettare il principio della ragionevole durata del processo, asseritamente soddisfatta negando il rinvio del giudizio ad altra data dell’anno 2015;

che la difesa statale, infatti, osserva che il convenuto ha semplicemente chiesto dì rinviare il giudizio (di meno di tre mesi), in modo da rientrare nel nuovo anno reddituale e soddisfare, così, il requisito previsto dalla legge per essere ammesso al beneficio, mentre il Tribunale ha ritenuto inopportuno questo «artifizio», per contrasto, appunto, col principio della ragionevole durata;

che tale principio, invece, lungi dall’essere violato da un differimento di tre mesi, sarebbe leso, a giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, dalla sollevazione di un incidente di costituzionalità che, di fatto, determina un ritardo certamente maggiore del rinvio richiesto;

che, quanto al merito, l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che la scelta legislativa di utilizzare il reddito risultante dalla dichiarazione a fini fiscali dell’anno precedente, come criterio di determinazione dello stato di «non abbienza», sarebbe da ritenersi non solo ragionevole, ma anche necessitata da esigenze di certezza, in base a parametri che il legislatore è chiamato a definire ogni qual volta sia necessario stabilire un importo limite, oltre il quale lo Stato non può concedere un beneficio;

che, a giudizio della difesa statale, una scelta di questo tipo sarebbe «completamente sottratta al sindacato giurisdizionale, costituendo un tipico esempio di discrezionalità politica del legislatore», come già statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 144 del 1992, avente ad oggetto gli artt. 3 e 4 della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), successivamente abrogata dal d.P.R. n. 115 del 2002, ma ispirata ad analoghi principi;

che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe errato il presupposto interpretativo dal quale parte il giudice rimettente, nel considerare necessario valutare solo i «redditi da lavoro», dovendo essere inclusi nel computo anche tutti gli altri proventi che possono essere considerati reddito in senso economico, tra i quali anche quelli provenienti da attività illecite;

che, in ogni caso, la mera «attestazione dello stato di disoccupazione» non potrebbe essere ritenuta prova sufficiente della condizione di «non abbienza»;

che il diritto al patrocinio a spese dello Stato, previsto per i non abbienti dall’art. 24 Cost., dovrebbe essere necessariamente bilanciato, a parere dell’Avvocatura erariale, con il principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione dettato dall’art. 97 Cost., il quale impedirebbe allo Stato di elargire risorse in modo incontrollato, e, al contrario, richiederebbe di allocarle secondo criteri che ne consentano l’uso più ragionevole possibile, secondo meccanismi di cui, appunto, le norme censurate offrirebbero coerente applicazione.

Considerato che il Tribunale ordinario di Tivoli solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A);

che le questioni di legittimità costituzionale sono proposte nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi, nel corso del quale il convenuto, pur regolarmente costituito con un proprio difensore, all’udienza dell’8 ottobre 2014 è comparso personalmente, rappresentando di aver perduto il posto di lavoro e di non essere più in grado di corrispondere al proprio avvocato le competenze professionali;

che, per questa ragione, il convenuto ha chiesto di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, pur avendo conseguito, nel precedente anno 2013, un reddito dichiarato ai fini IRPEF pari ad euro 17.905,37, somma superiore al limite fissato per l’ammissione al beneficio;

che il giudice rimettente solleva le indicate questioni di legittimità costituzionale, sulla premessa che l’attestazione dello stato di disoccupazione prodotto in giudizio proverebbe «il mancato raggiungimento del reddito per l’anno in corso» e che l’unica condizione ostativa all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sarebbe costituita dalla previsione di cui al comma 1 dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui «[p]uò essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro» 11.369,24 (importo così aggiornato dal decreto del Ministero della giustizia 1° aprile 2014, recante «Adeguamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato», applicabile ratione temporis);

che il giudice a quo, esclusa qualsiasi possibilità di una diversa interpretazione della disposizione – allo scopo di estendere il beneficio «a situazioni reddituali non risultanti dall’ultima dichiarazione» – considera rilevanti le prospettate questioni di legittimità costituzionale, in presenza di «una situazione di documentata difficoltà economica che rende impossibile alla parte il ricorso “effettivo” all’ausilio di un avvocato difensore, pur formalmente nominato»;

che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente dubita, in primo luogo, della ragionevolezza delle disposizioni denunciate, perché «la differenza anche di soli pochi euro rispetto al reddito massimo previsto di 11.369,24 determina l’esclusione dal beneficio»;

che il giudice a quo dubita della compatibilità delle disposizioni censurate anche con l’art. 24 Cost., con particolare riferimento al terzo comma, riferendo che il convenuto non ha potuto proporre le memorie ex art. 183, sesto comma, del codice di procedura civile, «per impossibilità di pagare tale attività difensiva»;

che, dunque, il Tribunale rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 75 e 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui non dispongono che il giudice debba tenere conto, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, «del reddito degli ultimi 12 mesi (anziché di quello dell’anno precedente risultante dalla dichiarazione dei redditi)» oppure, in subordine, nella parte in cui non dispongono la possibilità di una ammissione graduata e parziale al beneficio «in ragione di fasce o scaglioni reddituali»;

che, in via preliminare, va rilevato che il giudice a quo solleva questioni di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 75 e 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, ma svolge censure soltanto sul secondo dei due articoli, il quale contiene, del resto, l’unica disposizione regolatrice dei presupposti reddituali per l’ammissione al beneficio;

che l’art. 75 del d.P.R. n. 115 del 2002, limitandosi a definire l’ambito di applicabilità dell’istituto, ricomprende invece norme inconferenti rispetto alle censure del Tribunale rimettente;

che l’inesatta identificazione della disposizione oggetto di censura comporta la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate su tale articolo, come da costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 128 e n. 91 del 2015);

che, con riferimento alle censure di legittimità costituzionale relative all’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, l’ordinanza di rimessione esibisce plurimi difetti di motivazione sulla rilevanza, dai quali pure consegue la manifesta inammissibilità delle questioni;

che, in primo luogo, il giudice rimettente, a causa di una incompleta ricostruzione del quadro normativo, non chiarisce le ragioni che lo inducono ad applicare, nel giudizio a quo, l’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002;

che, infatti, nel disciplinare il procedimento di ammissione al beneficio nell’ambito del processo civile, l’art. 124 del d.P.R. n. 115 del 2002 (rubricato «Organo competente a ricevere l’istanza») dispone, al comma 1, che «[l]’istanza è presentata esclusivamente dall’interessato o dal difensore, ovvero inviata, a mezzo raccomandata, al consiglio dell’ordine degli avvocati», individuando il consiglio competente in «quello del luogo in cui ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo, ovvero, se il processo non pende, [in] quello del luogo in cui ha sede il magistrato competente a conoscere del merito», mentre il successivo art. 126 (rubricato «Ammissione anticipata da parte del consiglio dell’ordine degli avvocati»), prevede, al comma 3, che «[s]e il consiglio dell’ordine respinge o dichiara inammissibile l’istanza, questa può essere proposta al magistrato competente per il giudizio, che decide con decreto»;

che, dunque, nei giudizi civili, in base alla normativa illustrata, competente a decidere sull’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato – previa verifica della sussistenza delle condizioni formali e sostanziali dettate, rispettivamente, dagli artt. 79 e 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 – è in primo luogo il Consiglio dell’ordine degli avvocati, individuato secondo le regole ricordate, e non il giudice innanzi al quale già pende (oppure deve ancora essere introdotto) il giudizio;

che, invece, dalla ricostruzione in fatto offerta dall’ordinanza di rimessione, si deduce che la parte interessata all’ammissione al beneficio si sarebbe presentata personalmente all’udienza fissata per la trattazione della causa, chiedendo direttamente in tale sede l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato o, in subordine, il rinvio della causa a una data dell’anno 2015, a partire dal quale avrebbe potuto godere del beneficio;

che, se, come riferito dal rimettente, la richiesta di ammissione al beneficio – in assenza della preventiva e necessaria presentazione dell’istanza al competente Consiglio dell’ordine degli avvocati – è direttamente presentata al giudice, essa avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, con conseguente difetto di rilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate, non dovendo in tal caso – ed anzi non potendo – il giudice rimettente (ancora) fare applicazione dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002;

che il giudice rimettente non fornisce alcun chiarimento sul punto, derivandone, in definitiva, la manifesta inammissibilità delle questioni, per difetto di motivazione sulla rilevanza;

che, in secondo luogo, il rimettente non ha adeguatamente illustrato le ragioni per le quali l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate porterebbe, nel caso concreto, ad ammettere la parte istante al patrocinio a spese dello Stato;

che, infatti, egli erroneamente ritiene che, per l’ammissione al beneficio, sarebbe da valutare il solo reddito dichiarato ai fini IRPEF, trascurando il tenore testuale dell’art. 76, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui «[a]i fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva»;

che, proprio alla luce della norma dettata dall’art. 3, comma 3, della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) – che dell’art. 76, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002 costituisce l’antecedente di identica formulazione letterale – la giurisprudenza di questa Corte ha escluso una corrispondenza biunivoca tra reddito rilevante al fine dell’integrazione del presupposto per il beneficio del patrocinio a spese dello Stato e reddito dichiarato od accertato ai fini fiscali (sentenza n. 144 del 1992);

che, infatti, in base alla giurisprudenza costituzionale, risultano rilevanti anche redditi non assoggettati ad imposta, sia perché non rientranti nella base imponibile, sia perché esenti, sia perché non risultati di fatto soggetti ad alcuna imposizione, dovendosi perciò tenere conto anche dei redditi da attività illecite (ordinanza n. 386 del 1998), ovvero dei redditi per i quali è stata elusa l’imposizione fiscale (ordinanza n. 244 del 1998), nonché di risorse di qualsiasi natura di cui il richiedente disponga, tra le quali anche gli aiuti economici (significativi e non saltuari) in qualsiasi forma a lui prestati da familiari o terzi (sentenza n. 382 del 1995);

che l’omessa motivazione sull’insussistenza di redditi diversi da quelli derivanti da lavoro dipendente, e tuttavia concorrenti al raggiungimento della soglia fissata dall’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, aggrava l’insufficiente giustificazione sulla rilevanza delle questioni sollevate, derivandone, anche sotto questo profilo, la manifesta inammissibilità delle stesse;

che, in terzo luogo, il giudice rimettente non ha adeguatamente sperimentato la praticabilità di una lettura della disposizione censurata, tale da assicurarne la conformità ai parametri costituzionali evocati;

che, infatti, il giudice a quo non tiene alcun conto del costante orientamento della Corte di cassazione, maturato antecedentemente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, secondo il quale anche le diminuzioni di reddito avvenute dopo la presentazione della dichiarazione possono essere prese in esame ai fini dell’ammissione al beneficio, ancorché tale ipotesi non sia espressamente disciplinata;

che, ad avviso della Corte di cassazione, «né la lettera della legge né lo scopo da essa perseguito autorizzano a ritenere esclusa la possibilità per il richiedente di dimostrare l’intervenuta variazione di reddito a suo sfavore anche perché una diversa interpretazione inciderebbe negativamente sull’effettività della difesa dell’imputato» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenze 23 giugno-22 settembre 2011, n. 34456, 11 novembre 2010-26 gennaio 2011, n. 2620 e 16 novembre 2005-8 marzo 2006, n. 8103);

che, pertanto, l’ultima dichiarazione dei redditi può «essere integrata da altri elementi, sia per negare il beneficio nonostante il reddito dichiarato sia inferiore al limite legale, qualora emerga aliunde un tenore di vita tale da consentire all’istante di sostenere gli esborsi necessari per l’esercizio del diritto di difesa, sia per concederlo, qualora una dichiarazione reddituale di valore superiore al limite legale sia messa in discussione dalla prova di un decremento reddituale sopravvenuto» (da ultimo, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 19 gennaio-2 febbraio 2016, n. 4353; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenze 16 aprile-14 maggio 2015, n. 20053, 10 ottobre-17 novembre 2014, n. 47343 e 14 ottobre-10 novembre 2014, n. 46382);

che l’omissione di qualunque confronto con tale indirizzo interpretativo dimostra che il rimettente non ha adeguatamente assolto all’onere di operare un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata;

che, in definitiva, per tutte le ragioni illustrate, cui si aggiunge l’ulteriore considerazione che l’intervento richiesto sulla disposizione censurata – sostitutivo o, in subordine, additivo – non riveste i caratteri della soluzione costituzionalmente obbligata, le questioni di costituzionalità sollevate devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° giugno 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2016.