SENTENZA N. 132
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), inserito dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), promosso dal Tribunale ordinario di Trento nel procedimento vertente tra F.C. e l’INPS, con ordinanza del 17 gennaio 2013, iscritta al n. 199 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di F.C. e dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi gli avvocati Carlo Cester per F.C. e Maria Assumma per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17 gennaio 2013 il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in riferimento all’art. 76 della Costituzione e all’art. 81, ultimo comma, della Costituzione, (recte: terzo comma) nel testo introdotto dall’art. 6 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
Si legge nell’ordinanza di rimessione che il ricorrente F.C. – già dipendente dell’Azienda ospedaliera di Padova con rapporto a tempo indeterminato fino alla data del 31 dicembre 2007, quando era stato collocato a riposo – aveva agito nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – gestione ex Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) – chiedendo che questo fosse condannato a corrispondere la differenza tra l’ammontare dell’indennità premio di fine servizio (cosiddetto IPS) effettivamente percepito e quello che il ricorrente riteneva che gli sarebbe spettato secondo la disciplina dettata dall’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), in relazione al periodo corrente tra il 1999 ed il 2007, durante il quale questi, posto in aspettativa presso il proprio datore di lavoro, aveva svolto dapprima l’incarico di direttore generale dell’Azienda unità locale socio sanitaria n. 19 della Regione Veneto e successivamente, dal 1° gennaio 2000, quello di direttore amministrativo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento.
L’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992 stabilisce che «La nomina a direttore generale, amministrativo e sanitario determina per i lavoratori dipendenti il collocamento in aspettativa senza assegni e il diritto al mantenimento del posto. L’aspettativa è concessa entro sessanta giorni dalla richiesta. Il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali comprensivi delle quote a carico del dipendente, calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito nei limiti dei massimali di cui all’articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181, e a richiedere il rimborso di tutto l’onere da esse complessivamente sostenuto all’unità sanitaria locale o all’azienda ospedaliera interessata, la quale procede al recupero della quota a carico dell’interessato».
1.1.– Il Tribunale ordinario di Trento solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 11, nella parte in cui, commisurando l’indennità premio di servizio disciplinata dagli artt. 2 e 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), al trattamento retributivo effettivamente percepito in relazione all’incarico di direttore generale (o di direttore amministrativo o di direttore sanitario) delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale e delle Province autonome – in luogo del precedente riferimento costituito dal trattamento retributivo previsto in relazione al rapporto di lavoro dipendente in corso di svolgimento al momento di assumere il nuovo incarico – comporterebbe oneri aggiuntivi per il bilancio dell’INPS (succeduto ex lege all’INPDAP, ai sensi dell’art. 21 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214), in violazione dell’art. 76 Cost., con particolare riferimento al precetto della legge di delega contenuto nell’art. 1, comma 4, della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), nonché in violazione dell’art. 81, ultimo comma, Cost. (recte: terzo comma), nel testo attualmente vigente introdotto dall’art. 6 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1), in quanto il legislatore delegato non avrebbe indicato i mezzi per fare fronte alle nuove e maggiori spese.
1.2.– Secondo il giudice a quo il giudizio in corso non potrebbe essere definito indipendentemente dalla soluzione della suddetta questione di legittimità costituzionale, in quanto, si sostiene, applicando le norme impugnate la domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere accolta.
Nemmeno, si prosegue, l’accoglimento della domanda del ricorrente sarebbe preclusa dalla disposizione dettata dall’art. 19, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), come modificato dall’art, 1, comma 32, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148 – secondo cui «ai fini della liquidazione del trattamento di fine servizio, comunque denominato, l’ultimo stipendio va individuato nell’ultima retribuzione percepita prima del conferimento dell’incarico avente durata inferiore a tre anni» – stante la sua inapplicabilità ratione temporis al caso in esame (il ricorrente ha maturato il diritto all’indennità premio di servizio in data 31 dicembre 2007, precedente l’entrata in vigore della norma), tenuto conto che a mente dell’ultimo periodo del medesimo art. 1, comma 32, «[...] la disposizione del presente comma si applica agli incarichi conferiti successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto nonché agli incarichi aventi comunque decorrenza successiva al 1° ottobre 2011».
1.3.– Con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, il Tribunale ordinario di Trento espone che l’art. 1, comma 1, della legge n. 419 del 1998 ha delegato il Governo ad «emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni modificative e integrative del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, sulla base dei principi e dei criteri direttivi previsti dall’articolo 2»; il successivo comma 4 dispone che: «l’esercizio della delega di cui alla presente legge non comporta complessivamente oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e degli enti di cui agli articoli 25 e 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni» (tra tali enti, precisa il rimettente, figurerebbero, secondo l’elenco contenuto nella tabella A allegata alla legge n. 468 del 1978, l’INPS e gli enti preposti alla gestione delle pensioni e delle liquidazioni dei dipendenti dello Stato e degli enti locali, confluiti nell’INPDAP in forza del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 479, recante «Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di riordino e soppressione di enti pubblici di previdenza e assistenza»).
Il legislatore delegato, prosegue il giudice a quo, con l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 229 del 1999 ha inserito nel d.lgs. n. 502 del 1992 l’art 3-bis, in ossequio al criterio direttivo dettato dall’art. 2, comma 1, lettera t), («rendere omogenea la disciplina del trattamento assistenziale e previdenziale dei soggetti nominati direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario di azienda, nell’àmbito dei trattamenti assistenziali e previdenziali previsti dalla legislazione vigente, prevedendo altresì per i dipendenti privati l’applicazione dell’articolo 3, comma 8, secondo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 , e successive modificazioni»).
Per effetto di tale modifica normativa, prosegue il Tribunale ordinario di Trento, sebbene l’INPDAP avesse sostenuto che la previsione introdotta dall’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992, concernerebbe esclusivamente il trattamento pensionistico e non anche l’IPS, si sarebbe consolidato il contrario orientamento della Corte di cassazione (sono citate le sentenze n. 11925 del 2008, n. 24286 e n. 28510 del 2011) in ragione del quale il servizio prestato da un dipendente di un ente locale a seguito di nomina a direttore generale, amministrativo o sanitario, deve ritenersi utile anche ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza (tanto che – osserva la Corte di cassazione nelle sentenze dianzi citate – per esso le amministrazioni di appartenenza effettuano il versamento dei contributi previdenziali commisurati al trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito). Ne conseguirebbe quindi, secondo il rimettente, che la misura dell’indennità premio di fine servizio, dovuta al dipendente, dovrebbe essere determinata in relazione al trattamento retributivo considerato dall’art. 4 della legge n. 152 del 1968 ma riferito all’incarico assunto di direttore generale, amministrativo o sanitario, seppur nei limiti del massimale di cui all’art. 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181 (Attuazione della delega conferita dall’articolo 2, comma 22, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di regime pensionistico per gli iscritti all'Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali). Secondo il giudice a quo, quindi, apparirebbe indubbio, anche alla luce delle modalità di computo dell’indennità premio di servizio di cui all’art. 4 della legge n. 152 del 1968 («[...] l’indennità premio di servizio, prevista dagli artt. 2 e 3, sarà pari a un quindicesimo della retribuzione contributiva degli ultimi dodici mesi, considerata in ragione dell’80 per cento ai sensi del successivo art. 11, per ogni anno di iscrizione all’Istituto»), che il nuovo parametro comporti per l’ente previdenziale, ai fini della corresponsione dell’IPS, maggiori esborsi che sarebbero «[…] compensati solo in misura minima dall’incremento dei contributi previdenziali (come si evince chiaramente dall’esempio pratico illustrato dall’INPS a pag. 6-7 della memoria di costituzione)».
Riferisce in proposito il Tribunale che l’INPS ha sostenuto, senza contestazione alcuna da parte del ricorrente, che «per effetto della modifica introdotta [...] si avrebbe un notevole aggravio di spesa dell’ordine di 100.000,00/200.000,00 euro per ogni direttore generale o sanitario o amministrativo di ciascuna delle centinaia ULSS/ASL esistenti in Italia, ancorché se nominato, in ipotesi, per un anno soltanto. Il buco erariale per circa 500 ULS/ASL italiane, con una liquidazione all’anno tra direttori generali, amministrativi e sanitari, ammonterebbe ad almeno 75.000.000,00 di euro annui».
Di tanto, prosegue il giudice a quo, darebbe conferma la pretesa del ricorrente, il quale, dall’applicazione del nuovo parametro, beneficerebbe di una maggiorazione dell’indennità premio di servizio di ammontare superiore a 20.000,00 in relazione ad un periodo di poco più di sette anni di lavoro.
1.4.– In definitiva, secondo il Tribunale ordinario di Trento non apparirebbe manifestamente infondato l’assunto secondo cui l’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, mutando, per i dipendenti pubblici nominati o direttore generale o direttore amministrativo o direttore sanitario delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale e delle Province autonome il parametro costituito dalla retribuzione assoggettabile a prelievo contributivo ai fini della quantificazione dell’IPS, abbia comportato, in violazione del precetto contenuto nella legge di delega ex art. 1, comma 4, della legge n. 419 del 1998, oneri aggiuntivi per il bilancio dell’INPS, gestione ex INPDAP, integrando in tal modo sia la violazione dell’art. 76 Cost., nonché dell’art. 81, ultimo comma, Cost. (recte: terzo comma), nel testo attualmente vigente inserito dall’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 2012, in quanto non avrebbe indicato i mezzi per far fronte alle nuove e maggiori spese (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n.1 del 1966 e n. 92 del 1981).
2.– Si è costituito in giudizio l’INPS il quale, concludendo per l’accoglimento della presente questione, ne ha evidenziato la novità rispetto a quelle affrontate e decise con le sentenze di questa Corte n. 351 del 2010 e n. 119 del 2012. Secondo l’INPS la norma sospettata di illegittimità costituzionale avrebbe accordato ai soli beneficiari degli incarichi apicali presso le aziende sanitarie un trattamento di particolare favore, ben superiore a quello previsto per gli altri titolari di indennità analoghe, con ingiustificato privilegio che si mostrerebbe ancor maggiormente stridente se confrontato con le più recenti riforme che hanno interessato la generale platea dei lavoratori, il cui trattamento di fine rapporto utilizza come parametro le retribuzioni conseguite nell’intera vita lavorativa.
3.– Si è altresì costituito F.C., ricorrente nel giudizio a quo, il quale ha concluso chiedendo che la Corte dichiari l’infondatezza della questione, valutatane anche l’ammissibilità alla luce dei precedenti già decisi. Nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, F.C. ha richiamato gli argomenti delle due precedenti sentenze della Corte con le quali era stata già dichiarata l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale della medesima norma, che dimostrerebbero la mancanza di novità della presente questione. Sostiene inoltre il medesimo che l’assoggettamento a contribuzione dei compensi attribuiti ai vertici delle aziende sanitarie costituirebbe una sufficiente forma di copertura degli oneri derivanti dall’aumento delle prestazioni pensionistiche, in perfetta conformità con il sistema complessivo dell’epoca, mentre il presunto aggravio di spesa deriverebbe unicamente da una evenienza di fatto che già la Corte costituzionale ha ritenuto non meritevole di rilevanza nel giudizio di legittimità costituzionale e che comunque era perfettamente insita nel sistema, senza che la disposizione impugnata abbia recato qualche modifica. Per tali motivi, secondo l’interveniente, la norma impugnata dovrebbe restare immune anche da ogni censura di preteso difetto di copertura ai sensi dell’art. 81 Cost., disposizione che comunque dovrebbe essere inquadrata nell’ambito del complessivo assetto delle prestazioni previdenziali ed assistenziali, laddove già in passato la Corte di cassazione avrebbe ritenuto prive di fondamento eccezioni sollevate in giudizio che colpivano singole disposizioni (sono richiamate le sentenze n. 8035 del 1990 e n. 20731 del 2004), né potendosi rinvenire nel caso di specie quelle particolari circostanze che avevano caratterizzato la questione affrontata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 92 del 1981.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 17 gennaio 2013 il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in riferimento all’art. 76 della Costituzione ed all’art. 81, ultimo comma, Cost. (recte: terzo comma), nel testo introdotto dall’art. 6 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
1.1.– Riferisce il giudice a quo che il ricorrente F.C. – già dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Padova – aveva agito in giudizio nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – gestione ex Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) – chiedendo che questo fosse condannato a corrispondere la differenza tra l’ammontare dell’indennità premio di fine servizio (IPS) effettivamente percepito e quello che il ricorrente riteneva che gli sarebbe spettato secondo la disciplina recata dall’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), in relazione al periodo corrente tra il 1999 ed il 2007, durante il quale il ricorrente, posto in aspettativa presso il proprio datore di lavoro, aveva svolto dapprima l’incarico di direttore generale dell’Azienda unità locale socio sanitaria n. 19 della Regione Veneto, e successivamente, dal 1° gennaio 2000, quello di direttore amministrativo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento.
1.2.– Secondo il rimettente, per effetto della norma impugnata la misura dell’IPS dovuta al dipendente che avesse assunto l’incarico di direttore generale, amministrativo o sanitario presso aziende sanitarie dovrebbe determinarsi sulla base degli emolumenti effettivamente percepiti in conseguenza di tali incarichi e non, invece, utilizzando come parametro la retribuzione in godimento riferita al rapporto di lavoro dipendente in corso di svolgimento al momento di assumere la nuova funzione (come avveniva precedentemente all’introduzione dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992).
Il Tribunale ordinario di Trento solleva pertanto questione di legittimità costituzionale del citato art. 3-bis per la violazione dell’art. 76 Cost. – in quanto il legislatore delegato avrebbe contravvenuto al precetto della legge di delega contenuto nell’art. 1, comma 4, della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), che avrebbe prescritto il divieto di recare oneri aggiuntivi per lo Stato e per le altre pubbliche amministrazioni – e dell’art. 81, ultimo comma, Cost. (recte: terzo comma), nel testo introdotto dall’art. 6 della legge cost. n. 1 del 2012, in quanto il legislatore delegato non avrebbe indicato i mezzi per fare fronte alle nuove e maggiori spese recate dalle disposizioni contenute nell’art. 3-bis.
2.– In via preliminare, deve essere valutata l’ammissibilità del riferimento del giudice rimettente «all’art. 81, ultimo comma, Cost., nel testo attualmente vigente alla luce della disposizione ex art. 6 legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1». Detta indicazione del parametro è inficiata da un duplice errore: il riferimento al sesto anziché al terzo comma dell’art. 81 Cost. nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 – secondo cui «Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte» – e la sua pretesa applicazione alla fattispecie in esame, non tenendo conto di quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, della medesima legge costituzionale, che ne determina l’operatività «a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014».
Al contrario di quanto affermato nell’ordinanza, al caso in esame può trovare applicazione solamente l’art. 81, quarto comma, Cost. nel testo in vigore al momento della rimessione.
Detti errori, peraltro, non precludono l’esame del merito in relazione al parametro della copertura della spesa, giacché risulta chiaro il senso del richiamo del giudice a quo al precetto costituzionale, anche in considerazione del fatto – almeno per quanto attiene al rapporto tra la presente fattispecie ed i valori prescrittivi di riferimento – che tra il vecchio parametro e quello sopravvenuto sussiste una sostanziale continuità.
3.– La questione deve quindi essere esaminata in riferimento sia all’art. 76 che all’art. 81 Cost., quest’ultimo nella formulazione anteriore alla novella costituzionale del 2012. A tal fine è utile ricostruire l’attuale quadro normativo in relazione ai profili inerenti alle questioni sollevate dal rimettente, i quali si possono così sintetizzare: a) esistenza di un principio di invarianza della spesa prescritto dalla legge di delega per tutte le singole componenti analitiche – categoria cui appartiene il trattamento di fine rapporto dei dirigenti delle Aziende sanitarie locali (ASL) cessati nel corso dello svolgimento dell’incarico – della riforma; b) disallineamento della disposizione rispetto ai criteri generali che disciplinano la determinazione dell’entità dell’IPS, dal momento che la normativa censurata avrebbe introdotto un criterio di calcolo più vantaggioso per i soli dirigenti apicali delle aziende sanitarie, con conseguente aggravio degli oneri addossati all’istituto di previdenza deputato all’erogazione di tali prestazioni, senza peraltro indicare i mezzi con cui far fronte a tali maggiori spese.
3.1.– Quanto al profilo sub a), è opportuno ricordare che la legge n. 419 del 1998, contenente la delega in attuazione della quale è stato emanato il decreto legislativo di cui la norma impugnata fa parte, conferiva al Governo la facoltà di adottare uno o più decreti legislativi finalizzati alla razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale ed alla realizzazione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio stesso. In particolare, essa specificava (art. 1, comma 4) che: «L’esercizio della delega di cui alla presente legge non comporta complessivamente oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e degli enti di cui agli articoli 25 e 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni».
In sostanza, il senso letterale della disposizione consente di concludere che il vincolo di invarianza, posto come criterio direttivo della delega, attiene agli oneri complessivi della riforma, comportando conseguentemente una ponderazione globale ed aggregata degli effetti positivi e negativi delle prescrizioni introdotte dal d.lgs. n. 229 del 1999. Ne consegue che lo scrutinio di correttezza dell’operato del legislatore delegato consiste nel verificare se la compensazione tra previsioni recanti aggravi di spesa e quelle aventi effetti riduttivi siano neutre o vantaggiose in termini di equilibrio complessivo degli effetti economico finanziari prodotti dalla riforma.
3.2.– Quanto al profilo concernente l’introduzione di un criterio di calcolo dell’IPS più vantaggioso per i soli dirigenti apicali delle aziende sanitarie, senza indicare i mezzi con cui far fronte a tali maggiori spese, è opportuno inquadrare l’evoluzione dell’istituto della liquidazione, con particolare riguardo alla disciplina del personale dirigente coinvolto nella presente fattispecie.
Originariamente il criterio per determinare l’entità dell’IPS (prima della modifica introdotta dal d.lgs. n. 229 del 1999) era contenuto nell’art. 4 (Indennità premio di servizio – Misura) della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), il quale disponeva che: «Per i casi di cessazione dal servizio che si verifichino a partire dall’entrata in vigore della presente legge, l’indennità premio di servizio, prevista dagli articoli 2 e 3, sarà pari a un quindicesimo della retribuzione contributiva degli ultimi dodici mesi, considerata in ragione dell’80 per cento ai sensi del successivo art. 11 (...)». L’art. 11 (Misura del contributo previdenziale) della medesima legge, nell’indicare le percentuali di riparto del contributo tra lavoratore e datore di lavoro, precisava al quinto comma che: «La retribuzione contributiva è costituita dallo stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso. [...]».
Successivamente, con specifico riguardo ai soli pubblici dipendenti nominati direttore generale, amministrativo o sanitario delle aziende sanitarie, l’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevedeva che: «per i pubblici dipendenti [...] il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza e dell’anzianità di servizio. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei relativi contributi, comprensivi delle quote a carico del dipendente, nonché dei contributi assistenziali, calcolati sul trattamento stipendiale spettante al medesimo ed a richiedere il rimborso del correlativo onere alle unità sanitarie locali interessate, le quali procedono al recupero delle quote a carico dall’interessato. Qualora il direttore generale, il direttore sanitario ed il direttore amministrativo siano dipendenti privati sono collocati in aspettativa senza assegni con diritto al mantenimento del posto».
Pertanto, prima della modifica introdotta con il d.lgs. n. 229 del 1999, il sistema previdenziale nel suo complesso non teneva in considerazione i maggiori compensi percepiti per lo svolgimento dell’incarico di direttore generale, amministrativo o sanitario, ma, pur affermando che il periodo suddetto era “utile” ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza e dell’anzianità di servizio, stabiliva che i contributi andassero calcolati «sul trattamento stipendiale spettante», cioè sul compenso che in teoria sarebbe spettato al dirigente, se questi fosse rimasto in servizio presso l’amministrazione di provenienza (cosiddetto criterio del compenso “virtuale”).
Per i dipendenti privati, al contrario, l’art. 3, comma 8, ultimo periodo, del d.lgs. n. 502 del 1992 non prevedeva alcun beneficio previdenziale, limitandosi a prescrivere che essi dovessero essere collocati in aspettativa senza assegni, ma con diritto al mantenimento del posto.
Nulla, infine, veniva stabilito per i privati lavoratori autonomi.
La legge di delega n. 419 del 1998 includeva tra i criteri direttivi, all’art. 2, comma 1, lettera t), «l’omogeneizzazione della disciplina del trattamento assistenziale e previdenziale dei soggetti nominati direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario di azienda, nell’àmbito dei trattamenti assistenziali e previdenziali previsti dalla legislazione vigente».
L’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 229 del 1999, attuativo della delega, ha inserito nel d.lgs. n. 502 del 1992 (contestualmente abrogando il comma 8 dell’art. 3 del medesimo decreto) l’impugnato art. 3-bis, il quale dispone che: «La nomina a direttore generale, amministrativo e sanitario determina per i lavoratori dipendenti il collocamento in aspettativa senza assegni e il diritto al mantenimento del posto. L’aspettativa è concessa entro sessanta giorni dalla richiesta. Il periodo di aspettativa è utile ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza. Le amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali comprensivi delle quote a carico del dipendente, calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito nei limiti dei massimali di cui all’articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181, e a richiedere il rimborso di tutto l’onere da esse complessivamente sostenuto all’unità sanitaria locale o all’azienda ospedaliera interessata, la quale procede al recupero della quota a carico dell’interessato».
Dalla successione nel tempo e dal disposto delle norme richiamate emerge che, al fine di rendere omogenee – in ossequio al principio contenuto della delega – le posizioni ed i trattamenti dei titolari degli incarichi, il d.lgs. n. 229 del 1999 ha previsto per tutti i soggetti, pubblici o privati, l’assimilazione del compenso percepito per l’incarico di direttore generale, amministrativo o sanitario al reddito da lavoro dipendente, con il conseguente assoggettamento di tali emolumenti ai prelievi contributivi previdenziali ed assistenziali, secondo il regime delle rispettive discipline.
In tal modo è mutata la base contributiva, non più fondata sul trattamento stipendiale in godimento presso l’amministrazione di provenienza, ma sul compenso effettivo percepito derivante dall’incarico di direttore generale, amministrativo e sanitario. Questa Corte ha già precisato che «[...] la norma censurata non istituisce una irragionevole differenza di trattamento previdenziale [...] a favore di una categoria di soggetti, bensì prevede una base di calcolo unitaria [...]. Rimane intatto il principio generale secondo cui l’indennità dovuta al dipendente alla fine della sua vita lavorativa è sempre commisurata all’ultima retribuzione annua percepita [...]. A tale principio si deve aggiungere l’altro – chiaramente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, in conformità all’indirizzo di questa Corte – “di tendenziale corrispondenza proporzionale fra entità della retribuzione ed entità della contribuzione, atteso che l’opposta opzione interpretativa determinerebbe un ulteriore squilibrio fra trattamento di quiescenza e indennità premio di servizio, sebbene la stessa abbia natura previdenziale” (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 28510 del 2011)» (sentenza n. 119 del 2012).
4.– Alla luce delle esposte premesse, le censure del rimettente non sono fondate né in riferimento all’art. 76 né in riferimento all’art. 81, quarto comma, Cost.
4.1.– Il criterio di invarianza degli oneri finanziari, fissato con riguardo agli effetti complessivi dell’«esercizio della delega» dall’art. 1, comma 6, della legge n. 419 del 1998, non comporta la preclusione di un eventuale aggravio di spesa derivante dall’applicazione della disposizione impugnata. Riguardando il vincolo di cui al predetto art. 1 la materia delegata nel suo insieme, l’eventuale sindacato sulla sua corretta attuazione dovrebbe rivolgersi all’effetto complessivo di tutte le innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 229 del 1999, dal momento che ben potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori entrate.
Diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo, il criterio direttivo posto dal legislatore delegante rimette interamente al delegato la facoltà di adottare eventuali scelte – che nella loro individualità potrebbero essere anche onerose – con il solo limite dell’incremento complessivo degli effetti finanziari prodotti dall’intera normativa delegata. In proposito questa Corte ha affermato che la discrezionalità nell’esercizio della delega dipende anche dal «grado di specificità dei principi e criteri fissati nella legge delega» (sentenza n. 199 del 2003), che nel caso in esame determinano appunto quale unico limite la consistenza neutra o attiva dell’aggregato complessivo degli effetti del decreto legislativo sulla spesa pubblica.
Circa il rispetto di detto limite, la cui violazione avrebbe assunto valore dirimente, l’ordinanza di rimessione difetta, invece, di ogni argomentazione ed allegazione.
4.2.– Peraltro, l’aggravio degli oneri che l’INPS lamenta si verifica solo nell’ipotesi in cui il titolare dell’incarico apicale presso le aziende sanitarie decida di chiedere il collocamento a riposo durante l’espletamento di tale incarico, oppure al momento del suo compimento. Evento, quest’ultimo, che può non verificarsi (ad esempio per espressa volontà dell’interessato o per mancata maturazione dei necessari requisiti): in queste ipotesi, il saldo tra maggior prelievo contributivo effettuato sugli emolumenti percepiti per l’incarico di direttore generale, amministrativo o sanitario e misura dell’indennità premio di fine servizio spettante al momento del pensionamento presso l’amministrazione di appartenenza potrebbe essere addirittura positivo.
In ogni caso, i maggiori importi dell’IPS erogati agli ex titolari di incarichi apicali presso le aziende sanitarie derivano innanzi tutto dall’applicazione della disciplina generale previgente che determinava l’entità delle prestazioni previdenziali sulla base della retribuzione percepita negli ultimi dodici mesi di servizio.
Tale disciplina non è stata modificata dal legislatore delegato, dal momento che il criterio direttivo dell’art. 2, comma l, lettera t), prescriveva che l’omogeneizzazione dovesse avvenire nell’àmbito dei trattamenti assistenziali e previdenziali previsti dalla legislazione vigente. In proposito questa Corte ha già ampiamente chiarito che «il criterio di calcolo della misura dell’indennità premio di servizio […] rimane quello fissato dall’art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali)» (sentenza n. 351 del 2010).
Inoltre, come già precisato, l’incremento degli oneri sulla parte pubblica si verifica solo nel caso di collocamento a riposo del dirigente nel corso o al termine dell’incarico. Detta circostanza è priva di valore in quanto si risolve in un’evenienza di fatto, ancorché frutto di un calcolo di convenienza del dipendente: essa non costituisce effetto necessario delle norme, bensì di private volizioni, che non rilevano ai fini della valutazione della legittimità costituzionale delle norme stesse (sentenza n. 119 del 2012).
È ben vero che la scelta legislativa in esame è solo uno dei possibili strumenti attuativi della delega, con tutte le possibili implicazioni positive e negative intrinsecamente legate al modello di riforma adottato.
Essa tuttavia – come questa Corte ha già affermato (sentenza n. 119 del 2012) – «non può essere considerata manifestamente irragionevole» ed in questo contesto non è implausibile che tra gli effetti collaterali del meccanismo di omogeneizzazione vi possa essere la valorizzazione – attraverso la parziale scissione tra prelievo contributivo e prestazione resa, che nel caso di specie può avere una valenza economica bidirezionale – del principio solidaristico che caratterizza in modo peculiare il trattamento di fine rapporto nell’ambito pubblico.
In definitiva, «con l’attuazione della delega, il legislatore delegato ha scelto uno dei possibili mezzi per realizzare l’obiettivo indicato nella legge di delegazione, partendo da un dato, la retribuzione percepita per l’incarico, sicuramente comune a tutti i dipendenti, pubblici e privati. Non si tratta dell’unica scelta possibile, ma la stessa non può essere considerata manifestamente irragionevole dal momento che realizza una completa parificazione [pur nel rispetto delle peculiarità dei diversi sistemi previdenziali che la delega non consentiva di modificare] di tutti i soggetti, dipendenti pubblici e privati, che si trovino ad esercitare una certa funzione, quale che sia l’amministrazione di provenienza o il lavoro svolto nel settore privato» (sentenza n. 119 del 2012).
5.– Dunque il legislatore delegato, assimilando il regime dei compensi a quelli da lavoro dipendente ed assoggettandoli coerentemente a prelievo contributivo secondo le previsioni generali, non ha violato le regole di copertura della spesa, come delineate dalla legge delega, e non ha introdotto, sempre nel rispetto del mandato ricevuto, alcuna modifica strutturale nell’ordinamento della previdenza pubblica, limitandosi a rendere omogenea la disciplina del rapporto di lavoro dei soggetti di diversa provenienza chiamati a svolgere le funzioni di direttore generale, amministrativo e sanitario.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata in riferimento agli artt. 76 e 81, quarto comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2014.