ORDINANZA N. 322
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Luigi MAZZELLA Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1363, comma 2, e 1352, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare); dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), come modificati dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise, nel procedimento vertente tra R.C. e il Ministero della difesa ed altri, con ordinanza del 5 febbraio 2013, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio proposto da un Maresciallo Capo dei Carabinieri (il quale, avendo originariamente richiesto l’annullamento di una precedente sanzione disciplinare di «rimprovero», si era visto irrogare una nuova identica sanzione, anch’essa impugnata con motivi aggiunti, per il fatto di aver proposto il ricorso giurisdizionale senza aver previamente esperito la via gerarchica), il Tribunale amministrativo regionale per il Molise, con ordinanza del 5 febbraio 2013, ha sollevato, in primo luogo, questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 28 e 52, terzo comma, della Costituzione – degli artt. 1363, comma 2, e 1352, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), «nella parte in cui rendono possibile configurare l’illiceità disciplinare dell’esperimento diretto del gravame giurisdizionale senza il previo ricorso gerarchico»;
che – premesso di avere accolto l’istanza cautelare proposta dal ricorrente con i motivi aggiunti (con decisione confermata dal Consiglio di Stato) – il rimettente, sulla eccepita inammissibilità del ricorso, rileva (secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, sezione IV, 26 marzo 2010, n. 1778, in termini contrari rispetto alla sentenza n. 113 del 1997 di questa Corte) come il combinato disposto dei censurati artt. 1363, comma 2 (a mente del quale «avverso le sanzioni disciplinari di corpo non è ammesso ricorso giurisdizionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, se prima non è stato esperito ricorso gerarchico o sono trascorsi novanta giorni dalla presentazione del ricorso»), e 1352, comma 1 (ai sensi del quale «costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente Codice, dal Regolamento, o conseguenti dall’emanazione di un ordine»), del codice militare «non rechi in sé una condizione di ammissibilità o procedibilità delle azioni giudiziali avverso le sanzioni disciplinari militari, ma soltanto una prescrizione di comportamento per i militari che hanno subito una sanzione disciplinare»; e ritiene quindi ammissibile il ricorso, pur in assenza del previo esperimento del ricorso gerarchico da parte del militare ricorrente;
che, ciò premesso, il Tar osserva tuttavia che – non reputando plausibile una diversa lettura costituzionalmente conforme delle norme de quibus, se non a costo di dare di esse una interpretazione sostanzialmente abrogativa – porre tra i «doveri che derivano dalla condizione di militare» (ai sensi dell’art. 715 del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90, recante «Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246») anche quello di esperire il ricorso gerarchico, prima di impugnare dinanzi al giudice amministrativo la sanzione disciplinare, significa che da un non conforme esercizio del diritto di difesa possa derivare una violazione disciplinare sanzionabile;
che, dunque, ad avviso del rimettente, il combinato disposto delle suddette norme, in parte qua, si porrebbe in contrasto: a) con gli artt. 24 e 2 della Costituzione (in analogia all’art. 6, terzo comma, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici ed all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), poiché nella specie si determinerebbe un conflitto tra il diritto inviolabile di difesa e l’esigenza di coesione dei corpi militari, incarnata nel principio di gerarchia, che sono beni tra loro non comparabili, giacché la questione non riguarda le modalità dell’esercizio del diritto di difesa, bensì come possa derivare un illecito disciplinare dall’esercizio di un diritto; b) con l’art. 3 Cost., non essendo ragionevole il sacrificio del diritto di difesa (che potrebbe trovare fondamento e giustificazione in una particolare esigenza dell’interessato ovvero del legale che lo assiste in giudizio) in nome della disciplina e della coesione militare; c) con l’art. 25 Cost., in quanto l’art. 1352 del codice militare, che qualifica come illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal codice militare, dal regolamento o da un ordine, affida alla libera interpretazione del superiore gerarchico la qualificazione di cosa sia «dovere di servizio» o «disciplina militare», non potendo qualificare l’esercizio di un diritto fondamentale come abusivo senza una chiara e inequivoca previsione di una sanzione come conseguenza della violazione disciplinare; d) con l’art. 28 Cost., a mente del quale la responsabilità dei pubblici dipendenti nasce dalla violazione di un diritto (di norma connesso ad una pubblica potestà), non già dall’esercizio individuale di un diritto fondamentale; e) con l’art. 52, terzo comma, Cost., che informa l’ordinamento militare allo spirito democratico, essendo non giustificata l’esistenza di una norma di rango primario che conculchi il diritto fondamentale alla difesa giurisdizionale, al punto da considerare illecito un uso diretto e non mediato degli strumenti di tutela giurisdizionale che la stessa Costituzione offre a tutti i cittadini;
che, in subordine, il rimettente censura – per violazione dell’art. 76 Cost. – l’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), come modificata dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), in quanto (a suo dire) la legge delega non specifica il settore nel quale il Governo è delegato a esercitare la funzione legislativa, limitandosi a indicare una totale abrogazione di norme anteriori a una data e senza distinzione di materie, nonché in assenza di principi e criteri direttivi sufficientemente determinati;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta infondatezza di entrambe le sollevate questioni;
che, in primo luogo – rilevato che il giudice a quo mira sostanzialmente a rimettere in discussione quanto deciso da questa Corte con la sentenza n. 113 del 1997 –, con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 3 e 24 Cost., la difesa dello Stato richiama le argomentazioni svolte in tale decisione di non fondatezza di analoghe questioni;
che, poi, quanto al preteso contrasto con gli artt. 2 e 24 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato nega la sussistenza di alcuna compressione del diritto di difesa, giacché il percorso procedurale imposto dalle norme censurate non comporta, ove disatteso, alcuna inammissibilità del ricorso giurisdizionale; laddove la violazione di quanto statuito dall’art. 1363 del codice militare deriva dalla violazione del “senso di responsabilità” sancito dall’art. 717 del relativo regolamento, conseguente all’esperimento diretto del ricorso davanti al giudice senza aver azionato un ricorso gerarchico interno;
che, riguardo all’asserito contrasto con l’art. 25 Cost., l’Avvocatura – premesso che il principio di assoluta tassatività vale solamente per la legge penale – deduce che la fattispecie astratta in esame è compiutamente descritta dal combinato disposto delle norme censurate; mentre quanto all’evocato art. 52 Cost., la medesima difesa sottolinea come il punto di equilibrio fra i diritti del singolo e le esigenze dell’organizzazione militare si individua nella massima espansione possibile della democraticità delle Forze Armate, sino all’ampiezza, oltre la quale si comprometterebbe l’efficienza dell’istituzione;
che, infine, l’Avvocatura deduce la non fondatezza anche della questione sollevata in via subordinata, giacché la censurata norma della legge delega indica in modo tassativo non solo l’ambito in cui legiferare, ma anche i criteri direttivi ed i principi cui ispirarsi, ed in particolare quelli di eliminare dalla nuova codificazione dell’ordinamento militare solo quelle disposizioni che fossero divenute obsolete ovvero in contrasto con la Costituzione.
Considerato che questa Corte, nel dichiarare non fondata (con la sentenza n. 113 del 1997) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, secondo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare), avente contenuto dispositivo pressoché identico a quello del censurato art. 1363, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), ha rilevato che, «nella specie, la scelta del legislatore di privilegiare la via gerarchica quale naturale e immediata sede di soluzione delle controversie in ordine all’irrogazione delle sanzioni – dove oltre tutto la possibilità di proporre motivi di merito consente all’interessato di ottenere un complessivo e più penetrante riesame del fatto – è da considerarsi il risultato d’un congruo bilanciamento tra l’esigenza di coesione dei corpi militari e quella di tutela dei diritti individuali»;
che, peraltro, come sottolineato dal medesimo Tribunale amministrativo regionale rimettente, a seguito di tale pronuncia (e conformandosi ad essa), una parte della giurisprudenza amministrativa ha continuato a dichiarare l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso sanzioni disciplinari che non sia preceduto dal previo esperimento di quello gerarchico ovvero dall’inutile decorso dei novanta giorni (da ultimo, Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 19 gennaio 2010, n. 35); mentre, altra parte della giurisprudenza (nonostante il dictum di questa Corte) ha ritenuto ammissibile l’immediato ricorso in sede giurisdizionale, anche senza il previo esperimento di quello gerarchico;
che, in particolare, il Consiglio di Stato (sezione IV, sentenza 26 marzo 2010, n. 1778, che richiama il precedente della stessa sezione 25 febbraio 1999, n. 228) ha chiarito che la normativa citata «non costituisce deroga al principio introdotto dalla L. Tar che ha abolito in via generale l’onere del previo esperimento del ricorso gerarchico contro gli atti amministrativi definitivi per poter ricorrere in via giurisdizionale»; ed ha quindi affermato che l’art. 16, secondo comma, della legge n. 382 del 1978 (oggi trasfuso nell’art. 1363 del codice militare), «riguarda esclusivamente l’ordinamento militare, imponendo l’esperimento del ricorso gerarchico contro le sanzioni del corpo quale dovere di disciplina militare, ma non quale condizione dell’azione giurisdizionale amministrativa in senso tecnico»;
che tale argomentazione (“sterilizzando” di fatto il pronunciamento della Corte) determina lo spostamento della incidenza degli effetti della mancata osservanza del dovere per il militare di previa proposizione del ricorso gerarchico, dal versante procedimentale del condizionamento della proponibilità (o procedibilità) dell’azione giurisdizionale amministrativa a quello della esclusiva rilevanza degli effetti medesimi nell’ambito dell’ordinamento militare;
che il rimettente, con argomentazioni in sé non implausibili (in assenza di un consolidato diritto vivente) aderisce espressamente a questo secondo indirizzo giurisprudenziale, osservando che il combinato disposto dell’art. 1363, comma 2, e dell’art. 1352, comma 1, del codice militare non reca «in sé una condizione di ammissibilità o procedibilità delle azioni giudiziali avverso le sanzioni disciplinari militari, ma soltanto una prescrizione di comportamento per i militari che hanno subito una sanzione disciplinare»;
che – ritenuto, dunque, ammissibile il ricorso in sede giurisdizionale, pur in assenza del previo esperimento di quello gerarchico da parte del militare ricorrente – il Tar rileva peraltro che, non essendo plausibile una diversa lettura costituzionalmente conforme delle norme de quibus, se non a costo di dare di esse una interpretazione sostanzialmente abrogativa, porre tra i «doveri che derivano dalla condizione di militare» (ai sensi dell’art. 715 del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90, recante «Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246») anche quello di esperire il ricorso gerarchico, prima di impugnare davanti al giudice amministrativo la sanzione disciplinare, significa che da un non conforme esercizio del diritto di difesa possa derivare una violazione disciplinare sanzionabile; con conseguente censura di incostituzionalità delle suddette norme (per violazione degli evocati parametri in ragione delle argomentazioni sopra esposte) «nella parte in cui rendono possibile configurare l’illiceità disciplinare dell’esperimento diretto del gravame giurisdizionale senza il previo ricorso gerarchico»;
che il rimettente, nel formulare la questione principale ritiene (come sopra detto) che, ove si dovesse affermare che il mancato rispetto di tale regola d’azione non costituisca illecito disciplinare sanzionabile, ai sensi dell’art. 1352 citato, allora la norma di cui all’art. 1363, comma 2, sarebbe sostanzialmente inutile, traducendosi una tale lettura in una «interpretazione sostanzialmente abrogativa del contenuto dispositivo della norma», che il giudice amministrativo non «può asseverare, senza che sulla compatibilità costituzionale della norma si pronunci la Corte costituzionale»;
che, tuttavia, tale argomentazione si fonda sulla non altrimenti motivata premessa, secondo la quale – nonostante il diverso assunto proclamato dallo stesso rimettente a giustificazione del superamento della sentenza della Corte, in ragione della affermazione della maggiore valenza che va data al principio fondamentale di tutela del diritto di difesa rispetto agli obblighi derivanti dalla appartenenza all’ordinamento militare – il mancato esperimento del ricorso in sede gerarchica ex art. 1363 del codice militare, contestato al ricorrente nel giudizio a quo, costituirebbe effettivamente (ai sensi del precedente art. 1352, comma 1) una «violazione dei doveri di servizio e della disciplina militare» (ovvero del «senso di responsabilità», di cui all’art. 717 del relativo regolamento) sanzionata disciplinarmente dal comma 2 dell’art. 1352; e non si configurerebbe piuttosto quale eventuale esercizio di un diritto di diretta derivazione costituzionale, spettante al militare secondo quanto disposto dall’art. 1465, comma 1, del codice militare, tale da escludere l’applicabilità di sanzioni disciplinari ai sensi del successivo art. 1466;
che, inoltre, l’interpretazione su cui il rimettente basa i propri dubbi di costituzionalità si pone in aperta contraddizione con l’applicazione concreta che le norme censurate hanno ricevuto nella fase cautelare del medesimo giudizio a quo;
che infatti (in evidente adesione alla opposta opzione ermeneutica) lo stesso collegio rimettente (con l’ordinanza 27 gennaio 2012, n. 27) ha accolto la relativa istanza cautelare proposta dal ricorrente, sull’assunto che «stando ad una prima delibazione, il provvedimento impugnato con i motivi aggiunti appare carente nella motivazione, poiché non prende affatto in considerazione la circostanza che la condotta del ricorrente potrebbe trovare fondamento e giustificazione in una particolare esigenza di difesa dell’interessato, posta a sostegno della scelta diretta e privilegiata dello strumento giustiziale»; e che «in una lettura costituzionalmente orientata, la normativa di cui all’art. 1363 del Codice dell’ordinamento militare […], appare gravemente lesiva del principio di difesa nel giudizio, da garantire incondizionatamente a ciascun cittadino, prescindendo dalla condizione personale e professionale»;
che tale provvedimento è stato confermato dal Consiglio di Stato (sezione IV, ordinanza 24 aprile 2012, n. 1514), secondo cui se l’art. 1363, comma 2, «si pone sul piano ordinamentale, come regola di azione dei militari nell’ambito del peculiare rapporto di servizio, non vi sono elementi per poter affermare che il suo mancato rispetto possa costituire un illecito disciplinare sanzionabile, ai sensi dell’art. 1352 del D.Lgs. n. 66/2010»; e di conseguenza non v’è «alcun fondamento normativo per configurare l’illiceità disciplinare dell’esperimento diretto del gravame giurisdizionale senza il previo ricorso gerarchico»;
che, pertanto, la non altrimenti motivata qualificazione in termini di condotta disciplinarmente vietata (e quindi idonea a consentire l’irrogazione della relativa sanzione) costituisce affermazione in sé non idonea ad esimere il rimettente dal dovere di sperimentare la possibilità (anche, e soprattutto, alla luce del più vasto orientamento tendente ad accentuare, nella prospettiva segnata dall’art. 52 Cost., l’ispirazione democratica dell’ordinamento militare e ad attenuarne i caratteri di specialità rispetto a quello comune: sentenza n. 203 del 1991) di dare alle norme impugnate un significato diverso, tale da renderle compatibili con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012), in ossequio al principio secondo cui una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione (ordinanza n. 212 del 2011);
che, d’altro canto, la rilevata contraddittorietà della motivazione (rispetto alla diversa applicazione data alle norme nel corso dello stesso giudizio) induce a dubitare che il rimettente cerchi di utilizzare in modo improprio e distorto la proposizione dell’incidente di costituzionalità, non già per pervenire alla soluzione di un problema pregiudiziale rispetto alla definizione del thema decidendum del singolo giudizio a quo, quanto piuttosto al fine di tentare di ottenere dalla Corte un avallo interpretativo (ordinanze n. 126 e n. 26 del 2012) in ordine alla problematica in esame (ordinanza n. 240 del 2012);
che, dunque, la carente utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 198 del 2013 e n. 240 del 2012), integrano omissioni tali da rendere manifestamente inammissibili (ordinanze n. 102 del 2012 e n. 212 del 2011) sia la questione di legittimità costituzionale sollevata in via principale, sia quella proposta in via subordinata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1363, comma 2, e 1352, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), sollevata – in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 28 e 52, terzo comma, della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005), come modificata dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), sollevata – in riferimento all’art. 76 Cost. – dallo stesso Tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 2013.
F.to:
Luigi MAZZELLA, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2013.