SENTENZA N. 214
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Ilaria Rivera
per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 315, comma 3, e 646, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di N.I. con ordinanza del 25 ottobre 2012, iscritta al n. 303 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 25 ottobre 2012, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento agli articoli 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 315, comma 3, in relazione all’articolo 646, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione si svolga, davanti alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.
1.1.– La Corte rimettente premette che il ricorrente nel giudizio a quo era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal 16 ottobre 2001 al 21 dicembre 2001 e a quella degli arresti domiciliari dal 21 dicembre 2001 al 10 giugno 2002, nell’ambito di un procedimento penale promosso nei suoi confronti e di altri soggetti per il reato di illecita detenzione di sostanza stupefacente a fini di spaccio, conclusosi con la sua assoluzione per non aver commesso il fatto. Il prosciolto aveva chiesto, quindi, la riparazione per l’ingiusta detenzione subita, a norma dell’art. 314 cod. proc. pen.
La Corte d’appello di Catania, con ordinanza del 26 marzo 2010, aveva respinto la domanda, ravvisando la condizione ostativa rappresentata dall’avere l’istante tenuto «un comportamento […] connotato da colpa grave tale da integrare condizione sinergica ai fini dell’emissione e del mantenimento dell’ordinanza cautelare».
A seguito di ricorso dell’interessato, l’ordinanza era stata annullata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza del 1° febbraio 2011 per difetto di motivazione, non avendo la Corte d’appello spiegato con quale condotta, dolosa o gravemente colposa, l’interessato avesse concretamente indotto in errore l’autorità procedente riguardo alla destinazione ad uso non personale della sostanza stupefacente da lui detenuta, così da determinarla a emettere e a mantenere il provvedimento restrittivo della libertà personale.
Nuovamente investita della domanda quale giudice del rinvio, la Corte di appello di Catania era pervenuta ad analoga decisione di rigetto con ordinanza del 5 luglio 2011, contro la quale l’interessato aveva proposto ulteriore ricorso per cassazione.
Secondo il ricorrente, anche il nuovo provvedimento risulterebbe carente sul piano della motivazione. Ai fini della decisione, la Corte di merito avrebbe preso, infatti, in considerazione telefonate intercettate tra altri soggetti, irrilevanti agli effetti della configurazione di una condotta gravemente colposa a carico del ricorrente. Di nuovo, dunque, il giudice di merito non avrebbe spiegato perché l’avvenuto acquisto, da parte dell’istante, di sostanza stupefacente per uso personale costituisca comportamento atto ad escludere il diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione.
La terza sezione penale della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, lo ha rimesso alle Sezioni unite, in relazione ad un profilo in rito ritenuto idoneo a dar luogo a interpretazioni contrastanti. Nelle more, è infatti intervenuta la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 10 aprile 2012, sul caso Lorenzetti contro Italia, che, proprio con riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, ha ravvisato la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»), a causa della mancanza di pubblicità del procedimento camerale con il quale, in base alle norme censurate, la domanda di riparazione è trattata davanti alla corte d’appello.
Rilevato che, nel caso oggetto del giudizio a quo, la Corte d’appello di Catania ha proceduto anch’essa in camera di consiglio e che la stessa Corte di cassazione sarebbe parimenti chiamata a pronunciarsi con rito camerale – nella specie «non partecipato», ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen. – la Sezione ha ritenuto che la citata sentenza della Corte di Strasburgo ponga un duplice problema: da un lato, di stabilire se la pubblicità dell’udienza debba essere assicurata anche nel procedimento davanti alla Corte di cassazione; dall’altro, di chiarire se, stante il difetto di pubblicità del procedimento seguito davanti alla Corte territoriale, debba disporsi l’annullamento con rinvio della decisione di quest’ultima per violazione dell’art. 6 della CEDU.
Con decreto del 21 agosto 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite.
1.2.– Tutto ciò premesso, il Collegio rimettente osserva come, nella citata sentenza sul caso Lorenzetti, la Corte europea abbia ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo la quale il principio di pubblicità delle udienze, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU (nella parte in cui stabilisce che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente»), garantisce i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico, rappresentando, dunque, uno degli strumenti destinati a contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali. Attraverso la trasparenza che la pubblicità delle udienze fornisce all’amministrazione della giustizia, il principio in questione «contribuisce a raggiungere l’obiettivo dell’art. 6, § 1, ossia il processo equo, la cui garanzia fa parte dei principi fondamentali di ogni società democratica».
La norma convenzionale – ha precisato la Corte europea – non impedisce che i giudici, in considerazione delle particolarità della causa sottoposta al loro esame, decidano di derogare al predetto principio; ma l’assenza del pubblico, totale o parziale, deve essere rigorosamente giustificata dalle circostanze oggettive del procedimento. L’udienza pubblica può essere considerata non necessaria, in particolare, quando la causa non ponga questioni di fatto o di diritto che non possano essere risolte in base al fascicolo e alle osservazioni presentate dalle parti, come nel caso in cui essa involga questioni altamente tecniche.
Nella procedura per la riparazione dell’ingiusta detenzione, i giudici nazionali sono chiamati a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicché «nessuna circostanza eccezionale giustifica l’esimersi dal tenere una udienza sotto il controllo del pubblico, non trattandosi di questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo». La Corte di Strasburgo ha reputato, di conseguenza, «essenziale che i singoli coinvolti in una procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello».
Le Sezioni unite ricordano, per altro verso, come la tematica della pubblicità delle udienze abbia formato oggetto di puntuali interventi anche da parte della Corte costituzionale, con particolare riguardo al procedimento in materia di applicazione delle misure di prevenzione. Con la sentenza n. 93 del 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato, infatti, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e l’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il predetto procedimento si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica. A tale declaratoria la Corte costituzionale è pervenuta facendo leva proprio sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale aveva ravvisato una violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU nel fatto che le persone coinvolte nel procedimento di prevenzione non avessero la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello.
La Corte costituzionale ha anche rilevato che la norma internazionale convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non può ritenersi in contrasto con le tutele offerte in materia dalla Costituzione italiana. L’assenza di uno specifico richiamo non scalfisce, infatti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie: «principio che – consacrato anche in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) – trova oggi ulteriore conferma nell’art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall’art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009». La stessa giurisprudenza costituzionale, d’altro canto, ha avuto modo di sottolineare in più occasioni come la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisca «principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione».
Con la successiva sentenza n. 80 del 2011 – prosegue il giudice a quo – la Corte costituzionale ha dichiarato invece non fondata la questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4 della legge n. 1423 del 1956 e 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica. Nell’occasione, la Corte costituzionale – sulla base di una disamina della giurisprudenza della Corte di Strasburgo – ha rilevato come il giudizio legittimità, per le sue caratteristiche, e segnatamente per il fatto di essere dedicato «esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto», fuoriesca dalla platea dei momenti di esercizio della giurisdizione in cui è necessaria la garanzia della pubblicità dell’udienza. Infatti, «la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza […] si apprezza […], secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative».
1.3.– Al riguardo, le Sezioni unite ritengono pienamente condivisibile la conclusione per cui la pubblicità delle udienze non rappresenta, in riferimento al giudizio di legittimità, un corollario indefettibile della norma convenzionale considerata, quantomeno in rapporto ai procedimenti speciali che vengono in rilievo. A conferma di ciò starebbe anche la considerazione – svolta dalla stessa sentenza n. 80 del 2011 – che ove si sia verificata una violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU nei gradi di merito, l’eventuale trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica non varrebbe comunque a sanarla. Come precisato, infatti, dalla Corte europea, lo svolgimento pubblico del giudizio di impugnazione che sia a cognizione limitata – come nel caso in cui il sindacato risulti circoscritto ai soli motivi di diritto – non compensa la mancanza di pubblicità nel giudizio anteriore, «proprio perché sfuggono all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione».
Di conseguenza, la circostanza che il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione si svolga, in sede di giudizio di legittimità, nelle forme della trattazione camerale “non partecipata”, e dunque in assenza del pubblico, non contrasterebbe né con il principio dettato dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU e dalle fonti internazionali e sovranazionali che sanciscono una regola consimile, né con il precetto della pubblicità dei giudizi insito nella tavola dei valori tracciati dalla Costituzione.
A diversa conclusione dovrebbe pervenirsi con riguardo al grado di merito che caratterizza il procedimento di cui si discute. L’art. 315, comma 3, cod. proc. pen. stabilisce, infatti, che nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione si applicano, in quanto compatibili, le norme previste per la riparazione dell’errore giudiziario. Le forme del relativo giudizio sono, pertanto, quelle descritte dall’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., il quale richiama, a sua volta, il generale modello del procedimento in camera di consiglio, disciplinato dall’art. 127 del codice di rito: vale a dire, la trattazione camerale “partecipata” in assenza del pubblico. Di qui l’evidente frizione del modello con i principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, nonché con lo stesso principio del «giusto processo» stabilito dall’art. 111, primo comma, Cost.
Le Sezioni unite ritengono, pertanto, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., in termini analoghi a quelli che hanno dato luogo alla dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla sentenza n. 93 del 2010: ossia, nella parte in cui le disposizioni censurate non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione si svolga, davanti alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.
1.4.– Ad avviso del Collegio rimettente, la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, ancorché il ricorrente non abbia formulato alcuna richiesta di trattazione pubblica del procedimento, tanto nei gradi di merito – primo grado e giudizio di rinvio – che in sede di legittimità, né abbia sollevato alcuna eccezione di legittimità costituzionale delle norme che inibiscono la proposizione di una simile richiesta.
Al riguardo, il giudice a quo si dichiara consapevole della contraria affermazione rinvenibile sul punto nella ricordata sentenza n. 80 del 2011. Detta sentenza ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento di prevenzione si svolga, nei gradi di merito, in udienza pubblica: nelle more, infatti, la normativa censurata era già stata dichiarata costituzionalmente illegittima, in parte qua, dalla sentenza n. 93 del 2010, sicché la questione restava priva di oggetto. Pur ritenendo «assorbente» tale profilo di inammissibilità, la Corte costituzionale non ha mancato di rilevare come, a fianco di esso, ne fosse ravvisabile anche un altro, legato proprio al «difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo, non risultando dall’ordinanza di rimessione che l’interessato, ricorrente per cassazione, [avesse] formulato nei precedenti gradi di giudizio alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento».
Ad avviso delle Sezioni unite, l’affermazione ora ricordata rifletterebbe l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità, circa gli effetti delle sentenze di illegittimità costituzionale di norme processuali nei procedimenti in corso di trattazione. In base a detto indirizzo, la declaratoria di incostituzionalità – cui deve annettersi efficacia invalidante e non già abrogativa – spiega effetti non solo per il futuro, ma anche retroattivamente, in relazione a fatti e rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, fatta eccezione per le situazioni giuridiche ormai «esaurite», non suscettibili, cioè, di essere rimosse o modificate, quali quelle coperte dal giudicato o in rapporto alle quali operino le sanzioni della decadenza o della preclusione processuale.
Una simile prospettiva si giustificherebbe, tuttavia, solo «nel quadro di un raffronto, per così dire “nazionale”, tra la fonte normativa ed il parametro costituzionale di riferimento», ma non terrebbe conto «del ben diverso assetto che quello scrutinio e quel raffronto ricevono ove venga in discorso – quale normativa interposta – un principio di natura convenzionale». La pronuncia della Corte europea che – come nel caso Lorenzetti – censuri non già un concreto «difetto» dello specifico processo, ma una carenza «strutturale» del quadro normativo “domestico”, sarebbe, infatti, dotata di «una efficacia espansiva “esterna” rispetto al caso giudicato, riverberandosi quale canone di legittimità di ogni processo in corso di trattazione che risultasse attinto da quel difetto di tipo “strutturale”».
In forza dell’art. 46 della CEDU, gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte europea nelle controversie delle quali sono parti. Quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha, quindi, l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 della CEDU, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei ministri, le misure generali o individuali per porre termine alla violazione constatata e cancellarne, per quanto possibile, le conseguenze. Tale obbligo di «cancellazione delle conseguenze» non potrebbe rimanere condizionato da istituti destinati a regolare l’ordine processuale, quali decadenze e preclusioni, presupponendo tale istituti «un processo secundum ius», tanto alla luce dei valori costituzionali che della normativa convenzionale.
La rilevanza della questione di legittimità costituzionale volta a rimuovere gli effetti di una disposizione processuale che «contamini la giustizia del processo, secondo i dicta della Corte europea», non potrebbe essere dunque misurata «sulla falsariga degli effetti che scaturiscono da categorie endoprocessuali che regolano l’ordo iudiciorum, giacché, ove così fosse, il processo – strutturalmente “ingiusto” – sarebbe destinato a concludersi senza alcuna possibilità di “purgazione”»: con il risultato che la persona, il cui diritto al «giusto processo» è stato compromesso, non avrebbe altra via che quella di ricorrere alla Corte di Strasburgo (con effetti ampliativi del relativo contenzioso, ampiamente censurati dalla Corte stessa).
L’obiettivo di garantire la compatibilità del processo coi principi convenzionali sarebbe, al contrario, agevolmente conseguibile tramite l’incidente di costituzionalità. Ove le norme censurate fossero dichiarate costituzionalmente illegittime nei sensi auspicati, l’ordinanza impugnata dovrebbe essere, infatti, annullata con rinvio, onde consentire alla parte privata di formulare eventuale richiesta di trattazione in udienza pubblica nell’ambito del giudizio di rinvio davanti alla corte d’appello.
1.5.– Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rammenta come, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, costituiscano «norme interposte» ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Con la conseguenza che, ove il giudice comune ravvisi un contrasto, non componibile per via di interpretazione, tra la norma nazionale e la disposizione convenzionale, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, egli non può disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalità in rapporto al parametro dianzi indicato.
Proprio tale ipotesi ricorrerebbe nel caso in esame, a fronte della sentenza della Corte europea sul caso Lorenzetti, in precedenza ricordata.
Oltre all’art. 117, primo comma, Cost., sarebbe violato, peraltro, anche l’art. 111, primo comma, Cost. I principi espressivi del «giusto processo regolato dalla legge» – cui è riferimento nella norma costituzionale – non potrebbero ritenersi, infatti, diversi o più circoscritti, sul versante considerato, rispetto a quelli sanciti dall’art. 6 della CEDU e dalle altre norme sovranazionali in precedenza ricordate, che a loro volta riflettono le consolidate tradizioni costituzionali dei Paesi democratici. Come emerge inequivocamente dai lavori parlamentari, la riforma attuata dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) ha inteso propriamente recepire nel testo costituzionale il concetto di «giusto processo» elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo a margine del corrispondente principio sancito dalla Convenzione.
In questa prospettiva, il «giusto processo» destinato ad attuare la giurisdizione nazionale non potrebbe non prevedere la pubblicità dell’udienza come regola generale, derogabile solo in presenza di peculiari connotazioni dei singoli modelli procedimentali che escludano la necessità del controllo del pubblico: connotazioni non riscontrabili, per quanto detto, con riguardo alla fase di merito del procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione.
A questo riguardo, occorrerebbe d’altra parte considerare che – secondo quanto sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale – l’art. 314 cod. proc. pen. reca una disciplina concretizzatrice della disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 24 Cost., ove si enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, correlato al più generale principio di salvaguardia dei diritti involabili dell’uomo (art. 2 Cost.): disciplina il cui risalto costituzionale non potrebbe ritenersi sminuito dalla circostanza che la riparazione per l’ingiusta detenzione assuma carattere patrimoniale, monetizzando il sacrificio di una libertà inviolabile in difetto della possibilità di far ricorso a strumenti capaci di evitare o limitare il danno, ovvero di reintegrarlo in forma specifica.
Proprio perché finalizzato a salvaguardare diritti fondamentali della persona, secondo una prospettiva risarcitoria cui non appaiono estranei profili di riparazione anche morale, il procedimento in questione presenterebbe, dunque, appieno i connotati idonei a giustificare una richiesta di trattazione pubblica.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per la ragione già evidenziata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 80 del 2011, in rapporto all’omologa questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata previsione della possibilità che, a richiesta di parte, il procedimento di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, in udienza pubblica: vale a dire, per non avere l’interessato, ricorrente per cassazione, formulato alcuna istanza di trattazione pubblica del procedimento nei precedenti gradi di giudizio.
Quanto al merito, l’Avvocatura dello Stato rileva che il principio convenzionale di pubblicità delle udienze trova delle espresse deroghe, richiamate dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nella decisione evocata dall’ordinanza di rimessione: deroghe che si attaglierebbero alla fattispecie in esame.
Il procedimento in camera di consiglio davanti alla corte d’appello garantirebbe, infatti, la piena partecipazione del soggetto interessato, consentendogli di fornire il proprio contributo alla decisione, anche a mezzo del difensore. Non si potrebbe, d’altro canto, trascurare la circostanza che il procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, sebbene regolato dal codice di procedura penale, ha natura prettamente civilistica. Detto procedimento permette, inoltre, al giudice di esercitare poteri istruttori anche officiosi, in particolare sul versante dell’acquisizione di documenti, rendendo così manifesto che le garanzie sono «piene e del tutto puntuali» anche nel caso in cui l’interessato resti parzialmente inerte.
L’assunto in forza del quale andrebbe concessa la possibilità di sollecitare un controllo del pubblico cederebbe, quindi, di fronte a siffatte considerazioni, posto che tutte le questioni potrebbero essere risolte tramite il semplice esame del fascicolo processuale e in base alle osservazioni delle parti, senza necessità di procedere ad acquisizioni probatorie orali.
Considerato in diritto
1.– Le Sezioni unite della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell’articolo 315, comma 3, in relazione all’articolo 646, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione si svolga, davanti alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica. In base alle norme denunciate, infatti, il procedimento in questione è trattato in camera di consiglio e, dunque, «senza la presenza del pubblico» (art. 127, comma 6, cod. proc. pen.).
Ad avviso della Corte rimettente, le disposizioni sottoposte a scrutinio violerebbero l’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»), così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con la sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia, ha ritenuto «essenziale», ai fini del rispetto di detto principio, «che i singoli coinvolti in una procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello».
Le medesime disposizioni violerebbero, altresì, l’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con la regola del «giusto processo», la quale – pur in assenza di esplicita menzione – non potrebbe ritenersi sorretta, per ciò che attiene alla pubblicità delle udienze, da principi diversi o più circoscritti di quelli desumibili dalla corrispondente norma convenzionale.
2.– La questione è inammissibile per difetto di rilevanza.
Questa Corte si è già pronunciata in tal senso, in situazione parzialmente analoga, con la sentenza n. 80 del 2011.
In quell’occasione, una Sezione singola della Corte di cassazione aveva denunciato l’illegittimità costituzionale delle norme regolative del procedimento in materia di applicazione delle misure di prevenzione, nella parte in cui non riconoscevano alla parte interessata la facoltà di chiederne la trattazione in forma pubblica. Anche nella circostanza, era stata dedotta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con il principio di pubblicità delle udienze di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, la quale, in plurime pronunce, aveva affermato che le persone coinvolte nei procedimenti di prevenzione (parimenti soggetti a trattazione camerale) debbono godere almeno della possibilità di sollecitare una udienza pubblica davanti ai tribunali e alle corti d’appello.
Nonostante tale riferimento limitativo, la questione era stata sollevata dal giudice a quo non solo in relazione ai gradi di merito del procedimento, ma anche a quello di legittimità. Con riguardo ai primi, la questione è stata dichiarata inammissibile per sopravvenuta carenza di oggetto, giacché, nelle more, le norme denunciate erano già state dichiarate costituzionalmente illegittime, in parte qua, con la sentenza n. 93 del 2010. La Corte ha rilevato, tuttavia, come, a fianco di tale profilo di inammissibilità, pur «assorbente», ve ne fosse un altro: per l’appunto, il difetto di rilevanza, connesso al fatto che l’interessato, ricorrente per cassazione, non risultava aver formulato, nei precedenti gradi di giudizio, alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento.
La suddetta istanza di trattazione pubblica era stata, in effetti, proposta per la prima volta dal difensore dell’interessato – con contestuale eccezione di violazione del principio convenzionale di pubblicità – solo nell’ambito del giudizio di cassazione. La Corte ha proceduto, pertanto, all’esame nel merito della sola questione relativa al difetto di pubblicità di tale giudizio, dichiarandola infondata per le ragioni ricordate nell’odierna ordinanza di rimessione.
3.– La situazione oggi in esame va oltre tale precedente, risultando più radicale.
Nella specie, infatti, la Corte di cassazione ha già annullato con rinvio una precedente ordinanza della Corte d’appello di Catania e si trova attualmente a dover pronunciare sull’ulteriore ricorso per cassazione proposto contro la nuova ordinanza di rigetto della domanda di riparazione, adottata dalla medesima Corte d’appello quale giudice del rinvio.
Secondo quanto espressamente si deduce nell’ordinanza di rimessione, peraltro, la parte privata non solo non ha mai chiesto l’udienza pubblica nei gradi di merito (prima istanza e giudizio di rinvio), ma neppure ha chiesto o eccepito alcunché sul punto – diversamente che nel caso esaminato dalla citata sentenza n. 80 del 2011 – nelle due occasioni in cui il procedimento è transitato innanzi al giudice di legittimità. Istanze o eccezioni del tipo considerato non risultano essere state formulate – per quanto consta dall’ordinanza di rimessione – addirittura nemmeno dopo che il secondo ricorso per cassazione dell’interessato è stato rimesso alle Sezioni unite, allo specifico scopo di stabilire come i dicta della Corte di Strasburgo, riguardo alla pubblicità delle udienze nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, incidessero sul giudizio principale.
4.– Gli argomenti sulla cui base il Collegio rimettente reputa superabile l’evidenziato profilo di inammissibilità, se pure sottili e suggestivi, non possono essere condivisi.
Ad avviso delle Sezioni unite, la posizione espressa dalla sentenza n. 80 del 2011 rispecchierebbe il corrente orientamento giurisprudenziale riguardo agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme processuali: orientamento alla luce del quale detta dichiarazione incide anche su fatti e rapporti anteriori, ma con salvezza delle cosiddette situazioni “esaurite”, quali quelle “coperte” dal giudicato, ovvero da preclusioni o decadenze.
Tale indirizzo si giustificherebbe, peraltro, solo nel quadro di un raffronto puramente “interno” all’ordinamento nazionale, tra norma censurata e parametro costituzionale. La prospettiva cambierebbe quando venga in gioco la contrarietà a un parametro convenzionale. La pronuncia della Corte di Strasburgo, che – come nel caso Lorenzetti – censuri non un concreto «difetto» del singolo processo, ma una carenza dipendente dalla disciplina normativa del relativo modulo procedimentale (dunque, «strutturale»), avrebbe, infatti, una efficacia espansiva “esterna” rispetto al caso considerato.
Il generale vincolo di adeguamento degli Stati contraenti alle sentenze definitive della Corte europea (art. 46 della CEDU) farebbe allora scattare, in rapporto a tutti i processi attinti dal rilevato difetto strutturale, l’obbligo di porre termine alla violazione contestata e di cancellarne, per quanto possibile, le conseguenze. Tale obbligo di “cancellazione delle conseguenze” non potrebbe rimanere condizionato da istituti volti a regolare l’ordine processuale, quali decadenze e preclusioni. Se così fosse, il processo in corso, “strutturalmente ingiusto”, sarebbe destinato a concludersi senza alcuna possibilità di «purgazione» dell’elemento di “ingiustizia”: col risultato che l’interessato non avrebbe altra via che quella di ricorrere alla Corte di Strasburgo, con effetti ampliativi del relativo contenzioso.
Tale risultato sarebbe, per converso, agevolmente evitabile tramite la proposizione di una questione di legittimità costituzionale che conduca alla rimozione della norma legislativa interna, generativa dell’elemento di “ingiustizia”. Nel caso di specie, l’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale consentirebbe (sempre secondo il Collegio rimettente) di annullare con rinvio il provvedimento impugnato, dando modo così al ricorrente di formulare «eventuale» richiesta di udienza pubblica nel giudizio di rinvio davanti alla Corte d’appello.
5.– In direzione contraria, va peraltro rilevato che la sentenza n. 80 del 2011 – nell’evidenziare l’anzidetto profilo di inammissibilità della questione sottoposta al suo vaglio – non ha fatto, in realtà, applicazione dei principi ricordati dall’ordinanza di rimessione in tema di limiti alla retroattività delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme processuali. Essa si è limitata a ribadire, sullo specifico tema, un postulato di evidenza logica, già largamente utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte: e, cioè, che una questione finalizzata a riconoscere una determinata facoltà a una parte processuale è priva di rilevanza attuale se, nel giudizio a quo, quella parte non ha mai manifestato la volontà di esercitare la facoltà in discussione (ex plurimis, con particolare riguardo a questioni volte ad ampliare le possibilità di accesso dell’imputato a riti alternativi, ordinanze n. 55 del 2010, n. 69 del 2008, n. 129 del 2003 e n. 584 del 2000).
In assenza di tale manifestazione di volontà, la rilevanza dell’odierna questione risulta, in effetti, meramente ipotetica. L’applicabilità, nel giudizio principale, della “norma” che le Sezioni unite vorrebbero vedere introdotta tramite una sentenza “additivo-manipolativa” di questa Corte resterebbe, infatti, subordinata ad un accadimento non solo futuro, ma anche del tutto incerto: e, cioè, alla circostanza che, a seguito di una pronuncia di accoglimento, l’interessato si avvalga effettivamente della facoltà attribuitagli (in termini analoghi, ordinanza n. 129 del 2003). La stessa ordinanza di rimessione, del resto, qualifica come solo «eventuale» la richiesta di udienza pubblica che l’interessato potrebbe avanzare nel caso di annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
La conclusione vale a maggior ragione nel caso di specie, nel quale, come dianzi evidenziato, il ricorrente – omettendo di formulare qualsiasi richiesta o eccezione sul punto, persino dopo che il suo ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite allo specifico fine di stabilire in qual modo la sentenza Lorenzetti della Corte europea interferisse con il procedimento in corso – ha chiaramente dimostrato di non avere alcun concreto interesse allo svolgimento in forma pubblica del giudizio.
Tale circostanza esclude, a prescindere da ogni altra considerazione, che possa ravvisarsi, nel giudizio a quo, la prospettata esigenza della «purgazione» di un elemento di “ingiustizia” del processo in base a quanto rilevato dalla Corte europea e che, correlativamente, venga in considerazione l’evocato obbligo di adeguamento previsto dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU (obbligo rispetto al quale non è comunque pertinente la denuncia della violazione delle regole del «giusto processo», di cui all’art. 111, primo comma, Cost., che le Sezioni unite reputano parimenti lese, a fianco del precetto dell’art. 117, primo comma, Cost.).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 315, comma 3, in relazione all’articolo 646, comma 1, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli articoli 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2013.