Sentenza n. 69 del 2008
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ORDINANZA N. 69

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 giugno 2007 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di L. E., iscritta al n. 713 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che – nel caso di contestazione suppletiva di circostanze aggravanti, e in particolare della recidiva, effettuata dal pubblico ministero in base alle risultanze delle indagini preliminari, e non di nuovi elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale – l’imputato venga rimesso in termini ai fini della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena;

che il rimettente – investito del processo nei confronti di una persona imputata dei reati di cui agli artt. 640 e 648 del codice penale – riferisce che, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento e l’ammissione delle prove richieste dalle parti, e prima che avesse inizio l’istruttoria, il pubblico ministero aveva contestato all’imputato, rimasto contumace, la recidiva specifica, infraquinquennale e reiterata;

che – disposta la notifica al contumace del verbale recante la contestazione suppletiva – alla successiva udienza il difensore dell’imputato aveva eccepito l’illegittimità costituzionale, in relazione all’art. 111 Cost., dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, in caso di contestazione suppletiva della recidiva da parte del pubblico ministero, l’imputato sia rimesso in termini per chiedere la definizione del processo con il rito abbreviato;

che, ad avviso del rimettente, la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto la contestazione suppletiva della recidiva è avvenuta in un momento successivo al compimento delle formalità di cui all’art. 491 cod. proc. pen., costituenti il termine ultimo per l’esercizio, da parte dell’imputato, della facoltà di chiedere la definizione del processo con uno dei riti alternativi: onde il rimettente stesso si troverebbe a dover delibare, alla stregua di tale dato, «l’ammissibilità o meno della richiesta di giudizio abbreviato implicitamente anticipata dalla Difesa dell’imputato»;

che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ricorda come questa Corte, con sentenza n. 265 del 1995 (recte:1994) – innovando la propria pregressa giurisprudenza – abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine, al momento dell’esercizio dell’azione penale;

che in tali casi, difatti – secondo quanto precisato dalla Corte – la libera determinazione dell’imputato verso i riti speciali risulta sviata da aspetti di «anomalia» caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero, derivanti dall’erroneità o dall’incompletezza dell’imputazione, apprezzabile sulla base degli stessi atti d’indagine: così che non potrebbe parlarsi di libera assunzione del rischio del dibattimento da parte del giudicabile;

che una simile disciplina – sempre per affermazione della Corte – risulterebbe, altresì, censurabile in rapporto all’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai riti speciali, in ragione della maggiore o minore esattezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero, nell’esercitare l’azione penale alla chiusura delle indagini stesse;

che – a parere del giudice a quo – le medesime conclusioni non potrebbero non valere anche in rapporto alla contestazione «tardiva» di circostanze aggravanti: di circostanze, cioè, la cui sussistenza fosse ravvisabile dal pubblico ministero già in base agli atti delle indagini preliminari;

che, pure in tale ipotesi, la mancata previsione della rimessione in termini dell’imputato per la richiesta dei riti speciali si risolverebbe in una discriminazione priva di giustificazione razionale; nonché in una violazione del diritto del giudicabile a difendersi e ad essere sottoposto ad un giusto processo, inteso come «diritto ad una scelta del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione dei rischi connessi»;

che la scelta del rito, da parte di un imputato gravato da più precedenti penali, risulterebbe, infatti, inevitabilmente influenzata dalla contestazione o meno, ad opera del pubblico ministero, della circostanza aggravante della recidiva: e ciò specie ove si tratti di recidiva reiterata, stante il divieto del giudizio di prevalenza su di essa di eventuali circostanze attenuanti, introdotto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251; divieto a fronte del quale la richiesta di giudizio abbreviato o dell’applicazione di pena rappresenterebbe l’unico modo per ottenere una riduzione – di un terzo o fino a un terzo – del trattamento sanzionatorio;

che, in tale prospettiva, la contestazione «tardiva» della recidiva, effettuata dal pubblico ministero dopo l’apertura del dibattimento, rappresenterebbe «un’anomalia della condotta processuale della parte pubblica», idonea «a frustrare irrimediabilmente la strategia difensiva dell’imputato in uno dei suoi punti chiave»;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Considerato che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che – nel caso in cui il pubblico ministero contesti in dibattimento circostanze aggravanti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari, e in particolare la recidiva – l’imputato venga rimesso in termini ai fini della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena;

che dall’ordinanza di rimessione emerge, peraltro, che nessuna richiesta di rito alternativo è stata, in concreto, ancora presentata dall’imputato nel giudizio a quo;

che il rimettente desume, infatti, la rilevanza della questione unicamente dalla circostanza che il difensore abbia eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di accedere al rito abbreviato nell’ipotesi considerata: eccezione che il giudice a quo interpreta come «implicita anticipazione» della relativa richiesta;

che, proprio in quanto tale, detta eccezione non vale, tuttavia, a rendere attualmente pregiudiziale il quesito di costituzionalità rispetto alla definizione del giudizio a quo: e ciò specie ove si consideri che – essendo l’imputato contumace – il difensore non potrebbe presentare la richiesta di giudizio abbreviato per suo conto, salvo che sia munito di procura speciale (art. 438, comma 3, cod. proc. pen.); evenienza della quale non v’è, peraltro, alcun cenno nell’ordinanza di rimessione;

che, pertanto – a prescindere da ogni rilievo riguardo al merito delle censure, e segnatamente quanto alla validità dell’assunto per cui, in rapporto ad una circostanza aggravante quale la recidiva (basata sui meri precedenti penali dell’imputato), la mancata tempestiva richiesta del rito alternativo non comporterebbe la libera assunzione del «rischio» della sua contestazione in dibattimento – la questione va dichiarata manifestamente inammissibile (con riferimento ad analogo quesito, si veda l’ordinanza n. 129 del 2003).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.