ORDINANZA N. 149
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 384, secondo comma, del codice di procedura civile, promossi dalla Commissione tributaria regionale delle Marche con ordinanze del 9 luglio 2010, del 27 maggio 2011 e del 9 luglio 2010, rispettivamente iscritte al n. 228, al n. 255 e al n. 258 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42 e n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 maggio 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
Ritenuto che, con tre distinte ordinanze di analogo tenore (iscritte al r.o. n. 228, n. 255 e n. 258 del 2012), la Commissione tributaria regionale delle Marche ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 384, secondo comma, del codice di procedura civile, denunciando, in riferimento agli articoli 23, 24 e 53 della Costituzione, «l’automatismo contenuto nel rinvio» ivi contemplato;
che, in tutti i processi pendenti davanti al giudice a quo, questi è chiamato a decidere, come giudice del rinvio a seguito di cassazione di precedente pronuncia di appello, una controversia tributaria nella quale viene in rilievo la questione della presunzione di distribuzione di utili societari, eccepita dall’erario nei confronti di un contribuente destinatario di avviso di accertamento emesso a rettifica del reddito dichiarato ai fini IRPEF, quale maggiore reddito imponibile della quota di reddito di capitale a titolo di partecipazione in una società di capitali;
che, a tal riguardo, la Corte di cassazione ha chiesto al giudice di rinvio di applicare il principio – che esso giudice del merito dichiara di non condividere – secondo il quale, in forza della previsione della lettera d) del primo comma dell’articolo 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), «è legittima la presunzione di attribuzione degli utili ai singoli soci definitivamente accertati in capo ad una società di capitali allorquando ci si trovi al cospetto di una società a ristretta base sociale»;
che il rimettente muove, infatti, dal presupposto (su cui si diffonde ad argomentare) che l’anzidetto principio di diritto «contiene un evidente errore costituito dalla omissione della mancata valutazione dei tre requisiti contemporaneamente richiesti dal legislatore per la validità della presunzione [gravità, precisione e concordanza], tale da cagionare (…) un danno giudiziario al contribuente poi non rimediabile»;
che il giudice a quo osserva, quindi, che, malgrado egli ritenga errato il principio enunciato dalla Corte di legittimità, si trova costretto ad applicarlo nelle controversie rimesse alla sua cognizione, e ciò in ragione appunto dell’«automatismo della previsione» di cui al secondo comma dell’art. 384 cod. proc. civ., il quale stabilisce che «La Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte, ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto»;
che, pertanto, ad avviso della Commissione tributaria regionale rimettente, la norma denunciata contrasterebbe, anzitutto, con i principi di cui al primo, secondo e quarto comma dell’art. 24 della Costituzione, «in quanto, in una situazione come quella rappresentata, la tutela dei diritti e degli interessi legittimi del contribuente potrebbe essere solo apparente o nominale, ma non effettiva al pari del diritto della difesa che non potrebbe invece interloquire nel corso di un giudizio di merito su errori eventualmente commessi dalla Suprema Corte al fine di farli rimuovere», né potrebbe (quella difesa) porvi rimedio;
che sussisterebbe, inoltre, la lesione dell’art. 23 Cost., giacché «nel caso evidenziato […] la prestazione patrimoniale verrebbe imposta in base ad un (erroneo) principio della Cassazione» (là dove, peraltro, secondo l’ordinanza iscritta al r.o. n. 255 del 2012, la dedotta lesione dell’art. 23 Cost. sarebbe ancor più rilevante, in quanto il principio enunciato dalla Cassazione confliggerebbe anche con l’art. 293 del Trattato istitutivo della Comunità europea in materia di divieto di doppia imposizione);
che verrebbe, infine, vulnerato anche l’art. 53 Cost., posto che «nel caso in cui la Corte di Cassazione abbia errato la formulazione del principio di diritto, il contribuente andrà irrimediabilmente incontro ad un prelievo costituzionalmente non dovuto e ciò sarebbe ancora più grave ove l’eventuale errore sia stato rilevato prima della definitività del giudizio»;
che, nei giudizi di cui alle ordinanze n. 228 e n. 255 del 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa erariale osserva che il dubbio sollevato dal rimettente, oltre a non risultare pertinente rispetto all’evocazione dei parametri di cui agli artt. 23 e 53 Cost., è, comunque, analogo a quello già affrontato e risolto da questa Corte, con la sentenza n. 224 del 1996, nel senso della non fondatezza, sul rilievo della connaturalità al sistema delle impugnazioni di una pronuncia terminale, identificabile in quella della Corte di cassazione, che fornisca certezza ai rapporti giuridici, quale valore costituzionalmente protetto in funzione della tutela giurisdizionale.
Considerato che la Commissione tributaria regionale delle Marche dubita, in riferimento agli articoli 23, 24, primo, secondo e quarto comma, e 53 della Costituzione (per i profili innanzi evidenziati), della legittimità costituzionale dell’articolo 384, secondo comma, del codice di procedura civile, il quale, in guisa di «automatismo», stabilisce: «La Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte, ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto»;
che la questione, posta da tutte le ordinanze di rimessione negli stessi termini, è manifestamente infondata in riferimento a tutti i parametri evocati;
che, in primo luogo, si palesano insussistenti i denunciati profili di contrasto dell’art. 384 cod. proc. civ. con gli articoli 23 e 53 Cost., in quanto il dubbio di costituzionalità, che fa leva sulla paventata lesione, per ingiustificata imposizione, dei diritti dei contribuenti, non è direttamente riferito in astratto alla previsione della disposizione censurata, bensì è ipotizzato come solo indirettamente conseguente, sul piano fattuale, alla esegesi, eventualmente errata, che, nel caso specifico, la Corte di cassazione abbia in concreto dato alla disposizione tributaria che la Commissione rimettente è chiamata, in sede di rinvio, ad applicare (e che la stessa rimettente, comunque, non coinvolge nei presenti giudizi incidentali agli effetti di una verifica di costituzionalità della norma risultante da quella sua interpretazione, quale scelta rimessa alla valutazione del giudice del rinvio e che non risulta affatto ostacolata dal vincolo del principio di diritto, come questa Corte ha più volte affermato: ex plurimis e tra le più recenti, sentenza n. 214 del 2012);
che, del pari, risulta priva di consistenza la asserita lesione dell’art. 24 Cost., sotto ognuno dei dedotti profili di censura;
che, difatti, questa Corte, già in precedenti occasioni (sentenze n. 50 del 1970, n. 21 del 1982, n. 294 del 1995, n. 224 del 1996; ordinanze n. 11 del 1999 e n. 501 del 2000), ha messo in evidenza come censure analoghe a quelle proposte dall’attuale rimettente si risolvano, in pratica, «nella rivendicazione di un sindacato del giudice del rinvio su (presunti) errores in iudicando e in procedendo della Corte di cassazione: sindacato da ritenere peraltro incompatibile con il sistema delle impugnazioni, anche nel suo “volto costituzionale”»;
che l’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., nell’ambito del giudizio civile, risponde all’esigenza, propria del principio di definitività delle sentenze di cassazione, di far sì che il processo pervenga ad una soluzione finale e che questa assuma «valore definitivo, così da impedire la perpetuazione dei giudizi»;
che è, difatti, connaturale «al sistema delle impugnazioni ordinarie che vi sia una pronuncia terminale – identificabile positivamente in quella della Cassazione “per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad essa affidato dalla stessa Costituzione” (…) – la quale definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso» (sentenza n. 21 del 1982);
che una siffatta esigenza di definitività e certezza rappresenta un valore costituzionalmente protetto, «in quanto ricollegabile sia al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 della Costituzione), la cui effettività risulterebbe gravemente compromessa se fosse sempre possibile discutere sulla legittimità delle pronunce di cassazione (sentenza n. 224 del 1996), sia al principio della ragionevole durata del processo, ora assunto a rango di precetto costituzionale alla luce del secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, come modificato dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2»;
che, peraltro, l’impianto, già saldo, dei richiamati principi è altresì corroborato dal rilievo che assume, nell’ambito del sistema processuale e secondo una direttrice che è alimentata dal valore della certezza del diritto, la funzione nomofilattica assegnata dall’ordinamento alla Cassazione – di recente ulteriormente valorizzata dal legislatore a seguito delle riforme processuali del 2006 e del 2009 – della quale è sicuramente partecipe il vincolo del “principio di diritto”, le cui fondamenta poggiano anche sul principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale casi analoghi devono essere giudicati, per quanto possibile, in modo analogo;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 384, secondo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 23, 24 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale delle Marche con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2013.