ORDINANZA N. 96
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 216 del codice penale militare di pace, promosso dal Tribunale militare di Napoli nel procedimento penale a carico di Z.B. ed altro, con ordinanza dell’8 maggio 2012, iscritta al n. 188 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto che, con ordinanza dell’8 maggio 2012, il Tribunale militare di Napoli ha sollevato, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 216 del codice penale militare di pace;
che, riferisce il rimettente, il maresciallo Z.B. era stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver commesso, in continuazione con altre condotte lui contestate, il reato di malversazione militare, per essersi appropriato o comunque per aver distratto a proprio profitto – utilizzandolo per estinguere alcune rate di suoi mutui – denaro appartenente ad altro militare, del quale si trovava nella disponibilità per ragione del suo ufficio;
che, nella fase delle formalità preliminari all’apertura del dibattimento, la difesa aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale della predetta norma incriminatrice, in quanto, in seguito all’abrogazione dell’analogo reato di malversazione previsto dall’art. 315 cod. pen., si sarebbe determinata nell’ordinamento una ingiustificata diversità di trattamento sanzionatorio tra i militari incaricati di funzioni amministrative o di comando e i pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio) non militari;
che, in particolare, per quanto attiene alla condotta consumata mediante distrazione, vi sarebbe disparità di trattamento tra la disciplina ormai vigente in ambito non militare, prevista – in conseguenza della citata abrogazione – dalla norma di cui all’art. 323 cod. pen. (abuso d’ufficio) e punita con la pena più lieve della reclusione da sei mesi a tre anni, e quella tuttora vigente in ambito militare, nella quale la pena comminata va da due a otto anni di reclusione;
che il pubblico ministero si era opposto all’accoglimento della sollevata eccezione, ravvisando nelle peculiarietà dell’ordinamento militare elementi di specialità tali da giustificare la diversa disciplina sanzionatoria;
che il rimettente ritiene la questione rilevante nel giudizio, nel quale, al capo c) dell’imputazione, il reato di malversazione contestato all’imputato si articolerebbe in una condotta realizzata sia mediante «appropriazione», sia mediante «distrazione»;
che, in punto di non manifesta infondatezza, egli evidenzia la disparità di trattamento sanzionatorio tra il militare incaricato di funzioni amministrative o di comando, soggetto attivo del reato di malversazione in danno di militari, ed il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, soggetto attivo del reato di malversazione a danno di privati (o meglio, per l’esattezza, del reato di abuso di ufficio o di peculato, nei quali sono refluite, in conseguenza della descritta abrogazione, le condotte precedentemente inquadrabili nella cessata fattispecie incriminatrice);
che, invero, secondo il rimettente, con l’abrogazione dell’art. 315 cod. pen., in ambito non militare, l’ipotesi appropriativa sarebbe sanzionata, in base all’art. 314 cod. pen., con la pena – maggiore rispetto a quella comminata per la malversazione militare – prevista per il peculato (da tre a dieci anni), mentre l’ipotesi distrattiva sarebbe sanzionata dall’art. 323 cod. pen. con la pena – minore rispetto a quella prevista per la malversazione militare – da sei mesi a tre anni;
che ciò determinerebbe un’alterazione dell’originario equilibrio tra malversazione privata e militare, e una conseguente diversità di trattamento tra militari e non militari che non troverebbe alcuna giustificazione razionale, riproducendo, sia pure con riferimento ad un diverso reato, i medesimi profili di illegittimità costituzionale già stigmatizzati da questa Corte con la sentenza n. 448 del 1991 (a proposito del peculato per distrazione) e con la successiva sentenza n. 286 del 2008 (a proposito del peculato d’uso del militare comune e del militare appartenente alla Guardia di Finanza); pronunce nelle quali sarebbe stato affermato che, in conseguenza della riforma del 1990, la disparità di trattamento sanzionatorio prodottasi non troverebbe giustificazione nell’unico elemento di differenziazione delle fattispecie militari da quelle civili (ossia l’appartenenza dell’agente alle forze armate);
che anche nella presente questione, secondo il rimettente, sarebbe indispensabile ripristinare l’originario equilibrio sanzionatorio tra le ipotesi di malversazione in ambito militare e non militare, e ciò potrebbe avvenire solo con la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’abrogata disposizione, che determinerebbe la automatica sussunzione delle fattispecie disciplinate attualmente dalla norma censurata, rispettivamente, nel reato di peculato di cui all’art. 314 cod. pen. e in quello di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen. perché il venir meno della norma speciale (militare) determinerebbe l’applicazione alla fattispecie delle norme generali, dettate dal codice penale;
che, d’altra parte, prosegue il rimettente, una simile pronuncia, pur innegabilmente producendo una reformatio in peius della disciplina sostanziale, a causa dell’inasprimento sanzionatorio delle condotte appropriative, non sarebbe applicabile al procedimento in esame e, dunque, l’intervento di questa Corte non potrebbe ritenersi precluso solo a causa del suo carattere peggiorativo, pena la formazione nell’ordinamento di una zona franca dall’applicazione dei principi costituzionali;
che, con memoria depositata in data 15 ottobre 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri ed ha sostenuto la manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità, atteso che le diversità di disciplina tra i due reati posti a raffronto troverebbe giustificazione e razionale spiegazione nelle peculiarietà che l’ordinamento vigente continua a riconoscere allo status militare, connesso all’assoluta particolarità degli scopi e delle funzioni istituzionalmente attribuite alle Forze Armate ed ai corpi armati dello Stato.
Considerato che, il Tribunale militare di Napoli, dubita, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità dell’art. 216 del codice penale militare di pace;
che, secondo il rimettente, in seguito all’abrogazione dell’art. 315 cod. pen. e alla conseguente soppressione del reato di malversazione solo in ambito non militare, si sarebbe prodotta nell’ordinamento un’alterazione dell’originario equilibrio sanzionatorio tra fattispecie penale militare e fattispecie penale comune, realizzandosi una ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina ormai vigente in ambito non militare, regolata dall’art. 323 cod. pen. (abuso d’ufficio), e quella tuttora vigente in ambito militare;
che, in particolare, per effetto dell’intervenuta riforma, una simile disparità di trattamento sarebbe ravvisabile, da un lato, a causa dell’irragionevolezza del carattere meno favorevole della sanzione comminata, in ambito militare, per la condotta realizzata mediante distrazione (rispetto alla pena applicabile in ambito non militare per effetto della abrogazione del reato di malversazione e la conseguente, asserita sussunzione della fattispecie nella previsione dell’art. 323, cod. pen.) e, dall’altro, per l’irrazionalità del carattere più favorevole della disciplina penale militare rispetto alle ipotesi realizzate mediante appropriazione, ed oggi, in tal contesto, punite con la pena, più severa, della reclusione da tre a dieci anni;
che, in punto di rilevanza nel giudizio a quo, quanto alla condotta di malversazione continuata a danno di altri militari, contestata all’imputato per essersi appropriato o comunque per aver distratto a proprio profitto – utilizzandolo per estinguere alcune rate di suoi mutui – denaro appartenente ad altro militare, del quale si trovava nella disponibilità per ragione del suo ufficio, il rimettente riferisce che all’imputato sono state addebitate sia condotte di malversazione mediante distrazione, sia condotte di malversazione per appropriazione;
che tale affermazione è, tuttavia, smentita dal capo di imputazione, riportato dal rimettente, nel quale si fa riferimento ad una vera e propria appropriazione personale del denaro o, comunque, ad una distrazione a proprio vantaggio, e non già ad una distrazione verso altre finalità diverse da quelle per le quali il denaro gli era stato affidato;
che, pertanto, la motivazione sulla rilevanza nel giudizio è fondata su una descrizione della fattispecie incompleta e contraddittoria, dal momento che, in realtà, la condotta contestata agli imputati è esclusivamente di natura appropriativa;
che, inoltre, con riferimento alla asserita ingiustificata disparità di trattamento relativa alla condotta di malversazione mediante distrazione (rispetto alla corrispondente disciplina dettata per le condotte distrattive realizzate in ambito non militare), la questione deve ritenersi inammissibile per irrilevanza nel giudizio a quo;
che, peraltro, sempre in relazione a tale tipologia di condotta, l’ordinanza di rimessione si basa sull’erroneo assunto interpretativo (incidente sulla rilevanza della questione) in base al quale, in caso declaratoria di illegittimità costituzionale della norma sulla malversazione militare, tutte le condotte di natura distrattive verrebbero ad essere punite dalla disposizione di cui all’art. 323 cod. pen. (abuso di ufficio);
che, al contrario, tale sussunzione riguarderebbe soltanto le condotte che eventualmente assumessero le connotazioni tipiche della destinazione di risorse alla realizzazione di fini pubblici diversi da quelli istituzionali; condotte che, peraltro, sono difficilmente compatibili con l’elemento caratterizzante della malversazione rispetto al peculato, ossia la proprietà non pubblica del denaro o delle utilità amministrate dall’agente;
che, tale auspicato effetto devolutivo, diversamente da quanto sembra ritenere il rimettente, non trova affatto conforto nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato (sentenza n. 448 del 1991) che sono rifluite nell’ambito di applicazione della più favorevole norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, per effetto della abrogazione della norma del peculato con distrazione militare, solo alcune condotte di peculato, e in particolare quelle realizzate «mediante distrazione indebita di risorse pubbliche al di fuori di fini istituzionali dell’ente»;
che, quanto, invece, alle condotte di natura appropriativa, il rimettente chiede che la Corte, attraverso la caducazione della norma di cui all’art. 216 cod. pen. mil. pace, censurata nella sua interezza, determini, anche in ambito militare, la riconducibilità delle condotte di malversazione in danno di privati (o meglio, di altri militari), attualmente punite con la pena della reclusione da due a otto anni, alla fattispecie del peculato, soggetto alla più aspra pena edittale della reclusione da tre a dieci anni;
che, in tal modo, il rimettente invoca una pronuncia additiva che comporta una reformatio in peius dell’attuale trattamento sanzionatorio, la cui praticabilità è preclusa a questa Corte dal divieto di analogia in malam partem in materia penale (ex plurimis, sentenza n. 447 del 1998), divieto più volte ribadito da questa Corte anche con specifico riguardo alla materia dei reati contro la pubblica amministrazione e, in particolare, per il reato di peculato (sentenza n. 473 del 1990);
che, pertanto, da qualsiasi angolazione la si esamini, l’odierna questione deve ritenersi, per più aspetti, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 216 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale militare di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2013.