SENTENZA N. 247
ANNO 2010
Commento alla decisione di
Maurizio Malo
Il “commercio degli ultimi”, fuori dai centri storici maggiori (del Veneto)
(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-bis, della legge della Regione Veneto 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche), introdotto dall’art. 16 della legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo), promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto nel procedimento vertente tra “Associazione dei venditori ambulanti immigrati con licenze di commercio itinerante” e il Comune di Venezia ed altri con ordinanza del 23 marzo 2009, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione del Comune di Venezia nonché l’atto di intervento della Regione Veneto;
udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Federico Sorrentino per il Comune di Venezia, Luigi Manzi e Bruno Barel per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza emessa il 23 marzo 2009, il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 5, 10, primo comma, 41, 117, primo e secondo comma, lettera e), e 118 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-bis, della legge della Regione Veneto 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche), introdotto dall’art. 16 della legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo), secondo cui «È vietato il commercio su aree pubbliche in forma itinerante nei centri storici dei comuni con popolazione superiore ai cinquantamila abitanti».
Il rimettente premette di essere stato adìto a seguito di ricorso proposto dalla “Associazione dei venditori ambulanti immigrati con licenza di commercio itinerante” e da altri due cittadini extracomunitari, entrambi in possesso di autorizzazione per l’esercizio di attività di commercio «su area di tipo B (in forma itinerante), a carattere permanente per il settore merceologico non alimentare». I ricorrenti – sottolinea il giudice a quo – hanno impugnato per incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere e vizio di motivazione l’ordinanza contingibile ed urgente adottata dal Sindaco del Comune di Venezia il 13 giugno 2008, prot. n. 255264, con la quale – sul presupposto della ritenuta sussistenza di pericoli per la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica e sulla base della norma censurata – è stato «vietato il trasporto senza giustificato motivo di mercanzia in grandi sacchi di plastica e borsoni nel centro storico del Comune di Venezia» ed è stato sancito che «il predetto trasporto, se accompagnato con la sosta prolungata nello stesso luogo o in aree limitrofe deve essere considerato come atto direttamente ed immediatamente finalizzato alla vendita su area pubblica in forma itinerante ed in quanto facenti parte sostanziale dell’atto di vendita, rientrando nella fattispecie prevista e sanzionata dalla vigente legislazione regionale».
Rilevata la legittimazione dei ricorrenti ed il perdurante interesse degli stessi, malgrado l’ordinanza impugnata avesse efficacia sino al 31 dicembre 2008, avendo tale provvedimento prodotto medio tempore effetti, il Giudice a quo ritiene che, alla stregua delle doglianze espresse, la questione di legittimità costituzionale «assume carattere logicamente prioritario» rispetto all’esame delle doglianze oggetto del giudizio, e che, inoltre, non sia possibile pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, atteso il suo tenore letterale.
Nel merito, il Tar osserva come sarebbe innanzitutto violata la competenza statale in materia di concorrenza, a norma degli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost., poiché il «commercio itinerante costituisce una delle forme attraverso cui si esplica la libertà di iniziativa economica consistente nel commercio su aree pubbliche», come provato anche dalla disciplina dettata dall’art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59), che prevede «una sorta di catalogo dei limiti» che, in base all’art. 41 Cost., possono essere imposti alla libertà di iniziativa economica a fronte di valori costituzionalmente rilevanti.
Le Regioni, quindi, pur potendo intervenire in tale settore per i profili inerenti alle materie di propria competenza (quali il commercio e l’urbanistica), non potrebbero eludere la competenza statale in materia di concorrenza, né i princípi di proporzionalità ed adeguatezza. Sicché, per il rimettente, il divieto introdotto dalla norma contestata, finirebbe per comportare una irragionevole e contraddittoria «eliminazione di una delle modalità attraverso le quali, per la normativa statale, può essere svolta l’attività commerciale».
Quanto alla dedotta violazione degli artt. 3, 5 e 118 Cost., il Tar sottolinea che tanto la normativa statale che quella regionale innanzi richiamate demandano ai Comuni l’adozione di appositi provvedimenti per limitare l’esercizio del commercio itinerante su aree pubbliche. La competenza comunale trova, dunque, la propria ragion d’essere nella necessità di non porre limiti che non rispondano a specifiche esigenze connesse alle peculiarità del territorio. La disposizione censurata opera, invece, in modo del tutto indifferenziato in ambiti territoriali disomogenei, in guisa tale da comprimere irragionevolmente l’autonomia comunale, privata della possibilità di differenziare fra loro le varie situazioni territoriali, sociali ed economiche, nonché di governare l’elemento della disomogeneità distinguendo tra il commercio svolto legittimamente (come nella specie) e quello abusivo.
Ritenuto, poi, che il commercio itinerante «riguarda attualmente in modo prevalente se non esclusivo la piccola imprenditoria degli extracomunitari», per il Tar risulterebbero, infine, violati gli artt. 2, 3, 4, 10, primo comma, 41 e 117, primo comma, Cost. Vietando, infatti, soltanto tale tipo di commercio, esso sarebbe discriminato rispetto ad altre forme di commercio su aree pubbliche, quali quelle su posteggi dati in concessione in sede fissa. La previsione censurata comprometterebbe, pertanto, la libertà di iniziativa economica e il diritto al lavoro, riconosciuti come diritti inviolabili agli stranieri regolari, per i quali vale il principio di parità di trattamento sancito dalla Convenzione OIL 24 giugno 1975, n. 143, ratificata dalla legge 10 aprile 1981, n. 158 (Ratifica ed esecuzione delle convenzioni numeri 92, 133 e 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro), anche se si tratti di lavoratori autonomi, con conseguente violazione dell’art. 10, primo comma, Cost. Per altro verso, la normativa in questione introdurrebbe un effetto discriminatorio indiretto, secondo quanto prevede l’art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica). Ciò, in particolare, alla luce dei princípi affermati, in tema di diritti da riconoscere ai cittadini extracomunitari e del carattere «universale dei diritti fondamentali, come il diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica, del cittadino extracomunitario regolare».
2. – Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia, chiedendo la declaratoria di non fondatezza della sollevata questione, con riferimento a tutti gli evocati profili.
In particolare, riguardo alle censure riferite agli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost., il Comune – affermata la riconducibilità della regolamentazione de qua alla materia del commercio (ex art. 117, quarto comma, Cost.) e non già a quella della tutela della concorrenza – deduce che, comunque, è lo stesso legislatore statale (nel d.lgs. n. 114 del 1998) a prevedere che siano le Regioni a fissare i criteri generali per l’individuazione delle aree in cui è consentito il commercio in forma itinerante, con la possibilità di precludere tale attività nelle aree aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale, nonché per motivi di viabilità, di carattere igienico sanitario o per altri motivi di pubblico interesse, tutti riscontrabili nel centro storico di Venezia.
Quanto alle denunciate violazioni degli artt. 5 e 118 Cost, il Comune rileva che la norma censurata non sposta verso l’alto la titolarità delle competenze amministrative in materia, ma semplicemente si limita a porre un limite legislativo al potere discrezionale demandato alle amministrazioni comunali; il divieto di commercio nei centri storici di cui alla legge censurata, lungi dal configurarsi quale mero criterio astratto, si riempie di contenuto in considerazione di una scelta pianificatoria che resta di competenza dei Comuni, ai quali è consentita l’adozione di soluzioni calibrate e ponderate rispetto alle specifiche realtà.
Riguardo alle residue censure riferite agli artt. 2, 3, 10, 41 e 117, primo comma, Cost., il Comune di Venezia osserva come, in primo luogo, non sia condivisibile il presupposto stesso della asserita discriminazione derivante dal rilievo che il commercio su aree pubbliche in forma itinerante riguardi in modo prevalente la piccola imprenditoria degli extracomunitari. Dedotta l’inconferenza della evocazione dell’art. 10, primo comma, Cost. ed affermata la inapplicabilità della Convenzione OIL ai commercianti, la parte esclude altresì la possibilità di qualificare il diritto ad esercitare il commercio come diritto inviolabile ai sensi degli artt. 2 e 4 Cost.
3. – Nel giudizio è intervenuta la Regione Veneto la quale ha concluso, anch’essa, per la infondatezza della proposta questione.
Soffermatasi, in particolare, sulla possibilità per le Regioni ed i Comuni, di vietare o limitare il commercio anche al fine di conciliarne l’esercizio con il valore costituzionale della salvaguardia dei beni culturali (ai sensi degli artt. 10 e 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137», ed in riferimento all’art. 9 Cost.), la Regione analizza la portata della normativa oggetto di censura, sottolineandone gli aspetti per i quali la stessa deve ritenersi del tutto aderente alle linee già tracciate dalla legislazione statale e non esorbitante dai confini propri della disciplina del commercio, in aderenza all’indirizzo generale, ormai consolidato, teso a salvaguardare e valorizzare i beni culturali in tutti i settori della legislazione regionale.
Sul versante, poi, delle singole censure, la Regione contesta l’assunto del Tribunale rimettente secondo il quale la legislazione statale sul commercio rappresenterebbe normativa destinata a tutelare la concorrenza. Anzitutto, infatti, lo stesso d.lgs. n. 114 del 1998, prevede che l’esercizio del commercio possa essere subordinato a divieti e vincoli in presenza di situazioni particolari, bilanciando fra loro esigenze contrapposte. In linea più generale, si rileva che, dopo la riforma costituzionale del 2001 e l’attribuzione alle Regioni della competenza legislativa esclusiva in materia di commercio, queste ultime non sono più condizionate nella loro autonomia dalla legislazione statale in materia, sicché quest’ultima non può, di per sé, essere ora “riletta” come disciplina della tutela della concorrenza. Per la Regione, dunque, la norma oggetto di contestazione assicurerebbe un contemperamento ragionevole tra la libertà dei commercianti ambulanti e «limitatissime eccezioni, oggettivamente motivate dall’esigenza di tutelare alcuni centri storici particolarmente fragili e delicati», non potendosi peraltro ravvisare alcuna discriminazione o turbativa sul versante della concorrenza tra differenti categorie di operatori economici.
Quanto alla dedotta lesione del principio di sussidiarietà verticale e della autonomia comunale, la Regione deduce, anzitutto, che il principio di sussidiarietà verticale non viene in discorso in ipotesi in cui, come nella specie, la legge non attribuisca funzioni amministrative, ma individui essa stessa un divieto che limiti le normali attribuzioni amministrative. Inoltre, l’autonomia comunale si configura proprio in funzione delle scelte del legislatore. In terzo luogo, la legge regionale contestata attribuisce ai Comuni un significativo spazio di intervento. In quarto luogo, l’intervento legislativo è stato attuato in via del tutto sussidiaria, avendo i Comuni avuto quattro anni di tempo per individuare le aree ove il commercio ambulante deve essere limitato o vietato. D’altra parte, l’intervento legislativo regionale è stato il più circoscritto possibile e trova base normativa nella discrezionalità insita nella disciplina del commercio.
Con riferimento agli ultimi profili di censura, la Regione sottolinea infine come il divieto introdotto sia «del tutto coerente e corrispondente alle esigenze di tutela dei valori in gioco, in quanto è specificamente il commercio in forma itinerante ad avere un impatto particolarmente negativo sulle parti più fragili e preziose delle principali città d’arte», rendendo dunque ragionevole la diversa disciplina rispetto al commercio su aree pubbliche con posteggio fisso.
3.1. – Nell’imminenza dell’udienza, la Regione Veneto ha depositato una articolata memoria integrativa in cui ribadisce ed argomenta ulteriormente le proprie difese.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto censura l’art. 4, comma 4-bis, della legge della Regione Veneto 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche), introdotto dall’art. 16 della legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo), in base al quale «È vietato il commercio su aree pubbliche in forma itinerante nei centri storici dei comuni con popolazione superiore ai cinquantamila abitanti».
A giudizio del rimettente, la norma sarebbe contraria: a) agli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, posto che il «commercio itinerante costituisce una delle forme attraverso cui si esplica la libertà di iniziativa economica» e che le Regioni – pur potendo intervenire in tale settore per i profili inerenti alle materie di propria competenza (quali il commercio e l’urbanistica) – non possono eludere la competenza statale in materia di concorrenza, né i princípi di proporzionalità ed adeguatezza, attraverso un divieto «assoluto, inderogabile, generalizzato, non giustificato da concrete e localizzabili esigenze»; b) agli artt. 3, 5 e 118 Cost., in quanto la norma censurata opera in modo del tutto indifferenziato in ambiti territoriali disomogenei, in guisa tale da comprimere irragionevolmente l’autonomia comunale, privata della possibilità di differenziare fra loro le varie situazioni territoriali, sociali ed economiche, nonché di governare l’elemento della disomogeneità distinguendo tra il commercio svolto legittimamente (come nella specie) e quello abusivo; c) agli artt. 2, 3, 4, 10, primo comma, 41 e 117, primo comma, Cost., poiché (ritenuto che il commercio itinerante «riguarda attualmente in modo prevalente se non esclusivo la piccola imprenditoria degli extracomunitari») la norma censurata: 1) limiterebbe la libertà di iniziativa economica e il diritto al lavoro, riconosciuti come diritti inviolabili agli stranieri regolari; 2) violerebbe il principio di parità di trattamento sancito dalla Convenzione OIL 24 giugno 1975, n. 143, ratificata dalla legge 10 aprile 1981, n. 158 (Ratifica ed esecuzione delle convenzioni numeri 92, 133 e 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro), con conseguente violazione dell’art. 10, primo comma, Cost.; 3) introdurrebbe un effetto discriminatorio indiretto, secondo quanto prevede l’art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica); 4) infine, discriminerebbe tale tipo di commercio rispetto ad altre forme di commercio su aree pubbliche, quali quelle su posteggi dati in concessione in sede fissa.
2. – La legge regionale n. 10 del 2001 regolamenta, ai sensi del Titolo X del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59), l’esercizio del commercio su aree pubbliche (art. 1), nelle due forme del commercio “con posteggio” (art. 3) e del commercio “in forma itinerante” (art. 4).
In particolare, quanto alla determinazione delle zone in cui può essere svolta l’attività, l’art. 2, comma 1, lettera b), prevede l’individuazione, da parte dei Comuni, delle aree «nelle quali l’esercizio del commercio è vietato o sottoposto a condizioni particolari per motivi di viabilità, di carattere igienico-sanitario o per altri motivi di pubblico interesse, nonché per motivi di salvaguardia di aree aventi valore architettonico, storico, artistico e ambientale». E, con specifico riferimento alla disciplina del «rilascio delle autorizzazioni per il commercio in forma itinerante», l’art. 4, comma 3, nel sancire che tale tipo di commercio «può essere svolto su qualsiasi area pubblica», esclude dall’esercizio dell’attività le aree espressamente interdette dal Comune. Sotto questo profilo, peraltro, la disciplina regionale si conforma a quanto previsto dall’art. 28, comma 16, del d.lgs. n. 114 del 1998, secondo cui – nello stabilire l’ámbito e le modalità dello svolgimento di tale peculiare forma di commercio (art. 28, comma 15) – i Comuni individuano, «altresì le aree aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale nelle quali l’esercizio del commercio […] è vietato o sottoposto a condizioni particolari ai fini della salvaguardia delle aree predette» e possono stabilire «divieti e limitazioni all’esercizio anche per motivi di viabilità, di carattere igienico-sanitario o per altri motivi di pubblico interesse […]».
Infine, dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), la Regione Veneto ha apportato alcune modifiche all’art. 4 della legge regionale in esame: l’art. 16, comma 1, della legge regionale 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo), ha aggiunto il censurato comma 4-bis, che appunto vieta «il commercio su aree pubbliche in forma itinerante nei centri storici dei comuni con popolazione superiore ai cinquantamila abitanti»; a sua volta, l’art. 13 della legge regionale 16 agosto 2007, n. 21 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2006 in materia di imprenditoria, flussi migratori, attività estrattive, acque minerali e termali, commercio, artigianato e industria), ha aggiunto il comma 4-ter, secondo il quale «In deroga a quanto previsto al comma 4-bis i comuni possono rilasciare appositi nulla osta solo per particolari manifestazioni o eventi».
3. – La prima censura mossa dal rimettente riguarda la violazione del combinato disposto degli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost., dedotta sull’assunto che il «commercio itinerante costituisce una delle forme attraverso cui si esplica la libertà di iniziativa economica» e che le Regioni – pur potendo intervenire in tale settore per i profili inerenti alle materie di propria competenza (quali il commercio e l’urbanistica) – non possono eludere la competenza statale in materia di concorrenza, né i princípi di proporzionalità ed adeguatezza, attraverso un divieto «assoluto, inderogabile, generalizzato, non giustificato da concrete e localizzabili esigenze».
3.1. – La censura non è fondata.
In termini generali, va rilevato che questa Corte, con giurisprudenza costante (da ultimo, sentenze n. 52 del 2010 e n. 237 del 2009), ha ritenuto che, per individuare la materia in cui devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censure, non assuma rilievo dirimente la mera qualificazione che di esse dà il legislatore (statale o regionale), ma occorra fare riferimento all’oggetto della disciplina stessa, tenendo conto della sua ratio e tralasciandone gli aspetti marginali e riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato.
Per non limitarsi alla, pur inequivoca, intitolazione («Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche»), appare indubbio che le disposizioni della legge in esame – avendo quale oggetto specifico la normativa regionale del commercio su aree pubbliche – siano riconducibili immediatamente alla materia «commercio», di competenza residuale delle regioni (sentenze n. 165 e n. 64 del 2007); e che anche il contenuto della disposizione censurata risulti coerente alla ratio perseguita dalla medesima legge, essendo del tutto naturale che, nell’ámbito di una generale regolamentazione della specifica attività del commercio in forma itinerante, vada ricompresa anche la possibilità di disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonché quella di vietarne l’esercizio in ragione della particolare situazione di talune aree metropolitane (centri storici dei Comuni con popolazione superiore a cinquantamila abitanti, di modo che l’esercizio del commercio stesso avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni ambientali e culturali. Infatti, la ratio del divieto trova altresì giustificazione nello scopo di garantire, indirettamente, attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione, la valorizzazione dei maggiori centri storici delle città d’arte del Veneto a forte vocazione turistica.
D’altronde, di tale esigenza si è fatto carico anche il legislatore statale con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), che – rendendo esplicito che le pubbliche piazze, le vie, le strade e gli altri spazi urbani di interesse artistico o storico rientrano fra i beni culturali, e che essi sono pertanto oggetto di tutela ai fini della conservazione del patrimonio artistico e del decoro urbano (art. 10, comma 4, lettera g) – ha ribadito, in conformità di quanto già stabilito dall’art. 28, comma 16, del d.lgs. n. 114 del 1998, che i Comuni «individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio» (art. 52).
3.2. – Si deve a questo punto sottolineare che il rimettente – nel formulare la menzionata censura riferita agli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost. – muove dal presupposto che il d.lgs. n. 114 del 1998 costituisca legislazione statale a tutela della concorrenza e come tale continui a condizionare l’autonomia legislativa regionale anche dopo la riforma costituzionale del 2001, che pure ha attribuito alle Regioni competenza legislativa residuale in materia di commercio.
Va, tuttavia, rilevato che l’assunto su cui si basa tale premessa è già stato esplicitamente smentito da questa Corte, la quale – ritenuto che «a seguito della modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia “commercio” rientra nella competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.» – ha chiarito che «il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 […] si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia» (ordinanza n. 199 del 2006), cosa che la Regione Veneto ha fatto appunto con la norma censurata, aggiunta alla legge regionale n. 10 del 2001 dall’art. 16 della legge regionale n. 7 del 2005.
D’altra parte, altrettanto errata si appalesa l’ulteriore affermazione del giudice a quo, secondo cui l’attuale normativa regionale si discosterebbe in maniera rilevante da quella dettata dal d.lgs. n. 114 del 1998; infatti – pur dovendosi ribadire che, dopo la riforma costituzionale del 2001 e l’attribuzione della competenza legislativa residuale in materia di «commercio» alle Regioni, queste ultime non sono condizionate nella loro autonomia dalla precedente legislazione statale in tema di commercio ben potendo «autonomamente rispondere alle esigenze di cui intendeva farsi carico la […] norma statale, valutando l’opportunità di esercitare in tal senso la propria competenza legislativa» (sentenza n. 1 del 2004) –, è agevole rilevare come la legge regionale si muova in stretta concordanza con quella statale, che già attribuiva alle Regioni poteri di programmazione in materia di limiti agli insediamenti commerciali allo specifico fine di salvaguardare i centri storici e l’arredo urbano (art. 6, comma 2, lettera b; art. 10, comma 1, lettera b; art. 28, comma 12, d.lgs. n. 114 del 1998).
3.3. – Nel merito, dunque, il profilo di censura prospettato dal rimettente (anche in quanto fondato sul presupposto, qui smentito, di una asserita antinomia della norma censurata rispetto alle ragioni di tutela della concorrenza che il Tar attribuisce alle disposizioni del d.lgs. n. 114 del 1998, assunto quasi a parametro interposto) non è condivisibile. Ciò, sia con riferimento (come detto) alla impossibilità di ritenere oggi la potestà residuale delle Regioni in materia di commercio condizionata da tale normativa statale preesistente alla riforma costituzionale del 2001 (sentenza n. 1 del 2004 ed ordinanza n. 199 del 2006, citate), sia in quanto la norma regionale censurata (per il suo limitato ámbito applicativo, riconnesso alla specificità della situazione dei singoli centri storici interessati) non risulta connotata da quella particolare rilevanza macroeconomica che giustifica, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., l’intervento esclusivo dello Stato, attraverso misure di considerevole entità, come tali idonee ad incidere sull’equilibrio economico generale, mediante la riduzione o l’eliminazione di vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra le imprese, che (come tale) non può tollerare differenziazioni nel territorio nazionale (sentenze n. 45 del 2010 e n. 14 del 2004).
La norma censurata, pertanto, non produce alcuna lesione di regole a tutela della concorrenza, giacché il divieto sancito dalla Regione Veneto non incide, né direttamente né indirettamente, sulla libertà di concorrenza; esso si colloca infatti – senza introdurre discriminazioni fra differenti categorie di operatori economici che esercitano l’attività in posizione identica o analoga – nel diverso solco della semplice regolamentazione territoriale del commercio (disciplinata in coerenza con la salvaguardia dei beni culturali caratterizzanti la specifica realtà del territorio regionale) ed appare razionalmente giustificato dalle concrete e localizzabili esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale.
Né risulta violato il principio di cui all’art. 41 Cost. (peraltro evocato dal rimettente in connessione con l’art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). Infatti, questa Corte ha costantemente negato che sia «configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale», purché, per un verso, l’individuazione di quest’ultima «non appaia arbitraria» e, «per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue» (ex plurimis sentenze n. 152 del 2010 e n. 167 del 2009). Come già detto, la disposizione censurata assicura un contemperamento ragionevole fra la libertà dell’esercizio del commercio su aree pubbliche in forma itinerante (la cui autorizzazione, peraltro, abilita all’esercizio della relativa attività in tutto il territorio nazionale: art. 4, comma 2, della legge regionale n. 10 del 2001) e l’introduzione di limitate eccezioni, oggettivamente motivate dall’esigenza di non superare i limiti posti a tutela dei centri storici delle grandi città d’arte della Regione.
4. – Il Tar deduce, altresì, la violazione degli artt. 3, 5 e 118 Cost. (quest’ultimo parametro richiamato quale espressione della sussidiarietà cosiddetta verticale), in quanto la norma censurata opererebbe in modo del tutto indifferenziato in ambiti territoriali disomogenei, in guisa tale da comprimere irragionevolmente l’autonomia comunale, privata della possibilità di differenziare fra loro le varie situazioni territoriali, sociali ed economiche, nonché di governare l’elemento della disomogeneità distinguendo tra il commercio svolto legittimamente (come nella specie) e quello abusivo.
4.1. – Anche queste censure non sono fondate.
Innanzitutto, l’evocato principio di sussidiarietà verticale, sotteso all’art. 118 Cost., attiene propriamente al riparto fra i diversi livelli di governo dell’esercizio delle funzioni amministrative, così come astrattamente previste e modellate dalla legislazione di riferimento. Esso non viene perciò in rilievo allorché, come nella specie, il legislatore regionale (nell’ámbito di una propria competenza) non istituisca o attribuisca funzioni amministrative (né sposti verso l’alto la titolarità delle relative competenze), bensì imponga esso stesso un divieto, il quale concorre a definire i limiti di legge entro i quali deve svolgersi poi la normale attività amministrativa di attuazione (sentenza n. 128 del 2010).
In secondo luogo, va rilevato che la legge regionale n. 10 del 2001 tiene comunque conto del ruolo dei Comuni, e ne valorizza le competenze e le scelte pianificatorie, con riferimento (tra l’altro), sia alla individuazione delle altre «aree nelle quali l’esercizio del commercio è vietato o sottoposto a condizioni particolari per motivi di viabilità, di carattere igienico sanitario o per altri motivi di pubblico interesse, nonché per motivi di salvaguardia di aree aventi valore architettonico, storico, artistico e ambientale» (art. 2, comma 1, lettera b), sia al rilascio delle autorizzazioni per il commercio sulle aree pubbliche in forma itinerante (art. 4, comma 1), sia, soprattutto, alla possibilità di derogare al divieto di cui alla norma impugnata «per particolari manifestazioni o eventi» (art. 4, comma 4-ter).
Né si configura un vizio derivante dalla asserita equiparazione (che con tutta evidenza non sussiste) tra chi svolge legittimamente l’attività di commercio itinerante (il quale, pur dovendo sottostare allo specifico divieto, può, come già detto, operare liberamente su tutto il residuo territorio non solo regionale ma nazionale) e chi commerci abusivamente, senza alcun titolo che lo legittimi a tale attività.
5. – Il Tar lamenta, infine, la violazione degli artt. 2, 3, 4, 10, primo comma, 41 e 117, primo comma, Cost., poiché la norma impugnata: a) limiterebbe la libertà di iniziativa economica e il diritto al lavoro, riconosciuti come diritti inviolabili agli stranieri regolari; b) violerebbe il principio di parità di trattamento sancito dalla Convenzione OIL 143/1975, ratificata dalla legge n. 158 del 1981 (con conseguente violazione dell’art. 10, primo comma, Cost.); c) introdurrebbe un effetto discriminatorio indiretto, secondo quanto prevede l’art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 215 del 2003; d) infine, discriminerebbe tale tipo di commercio rispetto ad altre forme di commercio su aree pubbliche, quali quelle su posteggi dati in concessione in sede fissa.
5.1. – Le censure non sono fondate.
Il rimettente, nel formularle, muove dalla premessa secondo cui il commercio itinerante «riguarda attualmente in modo prevalente se non esclusivo la piccola imprenditoria degli extracomunitari»; e in ciò ravvisa una discriminazione (diretta e/o indiretta) per il solo fatto che un divieto avente carattere generale e indistinto riferito ad una categoria di operatori economici, nei fatti verrebbe ad incidere maggiormente sugli extracomunitari regolari muniti di autorizzazione al commercio itinerante.
Tale argomentazione non può essere condivisa. La disposizione censurata non attribuisce alcuna rilevanza, esplicita o implicita, alla nazionalità degli operatori muniti di autorizzazione al commercio su aree pubbliche in forma itinerante, la quale assume quindi valore di circostanza di mero fatto. Il contenuto precettivo della norma ha carattere generale ed obiettivo (ancorato esclusivamente alle modalità di svolgimento di detta peculiare attività) e non possiede alcuna valenza discriminatoria, prescinde completamente dalla provenienza, appartenenza etnica, cittadinanza o condizione giuridica soggettiva di chi esercita quel tipo di commercio.
L’erroneità del presupposto porta al superamento dei profili di incostituzionalità sopra riportati alle lettere a), b) e c), che il rimettente ritiene conseguenza dell’asserita discriminazione operata dalla norma censurata nei confronti dei commercianti ambulanti extracomunitari.
Infine, neppure sussiste la dedotta disparità di trattamento tra chi esercita il commercio su aree pubbliche in forma itinerante e chi lo esercita su posteggi in sede fissa (ex art. 3 della legge regionale n. 10 del 2001). L’eterogeneità (anche sotto il profilo della diversità di requisiti e regolamentazione) delle attività messe a confronto non consente di affermare la sussistenza di una violazione del principio di uguaglianza, che viceversa appare salvaguardato ove si consideri che il divieto di cui alla norma censurata si applica anche agli operatori del commercio su aree pubbliche in sede fissa, allorquando i medesimi si avvalgano della facoltà (loro attribuita dal comma 3 del citato art. 3) di esercitare il commercio anche in forma itinerante.
La qual cosa dimostra ulteriormente come il divieto espresso dalla norma censurata, lungi dall’operare discriminazioni di tipo soggettivo, trovi la sua giustificazione nella obiettiva esigenza di regolamentare tale attività nel rispetto di peculiari realtà territoriali quali i centri storici delle città d’arte (sentenza n. 388 del 1992).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-bis, della legge della Regione Veneto 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche), introdotto dall’art. 16 della legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa - collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo), sollevata – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 5, 10, primo comma, 41, 117, primo e secondo comma, lettera e), e 118 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2010.