SENTENZA N. 193
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 agosto – 1° settembre 2009, depositato in cancelleria il 4 settembre 2009 ed iscritto al n. 57 del registro ricorsi 2009.
Visto l’atto di costituzione della Regione Piemonte;
udito nell’udienza pubblica del 27 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giovanna Scollo per la Regione Piemonte.
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso notificato il 28 agosto 2009 e depositato il successivo 4 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno, 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità).
2. - L’art. 5 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 individua quattro categorie di aree protette a gestione regionale, provinciale e locale: parchi naturali, riserve naturali, zone naturali di salvaguardia e riserve speciali.
Il comma 1, lettera c), del medesimo art. 5 specifica che nelle zone naturali di salvaguardia il regime d’uso e di tutela non condiziona l’attività venatoria e che esse sono caratterizzate da elementi di interesse ambientale o costituenti graduale raccordo tra il regime d’uso e di tutela delle altre tipologie di aree facenti parte della rete ecologica regionale ed i territori circostanti.
Il successivo art. 8, comma 4, dispone che nelle predette zone naturali di salvaguardia si applicano i divieti nelle aree protette classificate come parco naturale o riserva naturale, ad eccezione dei divieti di attività venatoria, di introduzione ed utilizzo di armi o mezzi di cattura, di sorvolo a bassa quota di velivoli.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rilevato che dal combinato disposto di tali due ultime disposizioni emerge che l’attività venatoria è consentita nelle zone naturali di salvaguardia, lamenta la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione all’art. 22, comma 6, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), il quale prevede, invece, che nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l’attività venatoria è vietata salvo eventuali prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici.
2.1. - L’art. 7, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 individua le finalità perseguite dai soggetti gestori delle aree protette, prevedendo, in particolare:
– che i soggetti gestori dei parchi naturali perseguono, tra gli altri fini, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio storico-culturale e architettonico (art. 7, comma 2, lettera a), n. 3) e quello di garantire, attraverso un processo di pianificazione di area, l’equilibrio urbanistico-territoriale ed il recupero dei valori paesaggistico-ambientali (art. 7, comma 2, lettera a), n. 4);
– che i soggetti gestori delle riserve speciali perseguono, tra gli altri fini, quello di tutelare, gestire e valorizzare il patrimonio archeologico, storico, artistico o culturale oggetto di protezione (art. 7, comma 2, lettera d), n. 1).
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la finalità di tutelare il patrimonio storico-culturale e architettonico attribuita al soggetto gestore del parco naturale dall’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 sarebbe in contrasto con gli artt. 4 e 5 (soprattutto commi 6 e 7) e con l’intera parte II del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che attribuisce allo Stato le funzioni di tutela in materia di patrimonio culturale, e ritiene, conseguentemente, che sarebbero violati gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Il ricorrente sostiene, poi, che la finalità di garantire il recupero dei valori paesaggistico-ambientali attribuita al soggetto gestore del parco naturale dall’art. 7, comma 2, lettera a), n. 4, della medesima legge regionale sarebbe in contrasto con l’intera parte III del d.lgs. n. 42 del 2004 ed, in specie, con l’art. 133, che assegnerebbe la funzione di recupero dei valori paesaggistici alla pianificazione congiunta Stato-Regione, e ritiene, conseguentemente, che sarebbero violati gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Il ricorrente assume, infine, che anche la finalità di tutela, gestione, valorizzazione del patrimonio archeologico attribuita al soggetto gestore della zona speciale dall’art. 7, comma 2, lettera d), n. 1, della medesima legge regionale sarebbe in contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che queste competenze sarebbero riservate alle Amministrazioni dello Stato e dato che non sarebbe ancora intervenuta nessuna legge statale a prevedere in materia forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost.
2.2. - L’art. 26 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 prevede che per le aree naturali protette classificate parco naturale o zona naturale di salvaguardia è redatto un piano di area che ha valore di piano territoriale regionale e sostituisce le norme difformi dei piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello.
Il successivo art. 27 della medesima legge prevede che i piani naturalistici hanno valore di piano di gestione dell’area protetta e che le norme in esse contenute sono vincolanti ad ogni livello.
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che queste due ultime disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004 – che stabilisce il principio della prevalenza del piano paesaggistico sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette – e, conseguentemente, che violerebbero gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali, costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Per la difesa erariale le disposizioni impugnate sarebbero analoghe a quella dell’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3, giudicata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 180 del 2008 di questa Corte, in quanto alterava l’ordine di prevalenza che la normativa statale ha fissato tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica.
2.3. - L’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 specifica le fasi della valutazione di incidenza, prevista dall’art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 agosto 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), dei progetti o dei piani su siti rientranti nella rete ecologica europea Natura 2000.
Secondo l’impugnato allegato B, tale valutazione si articola su quattro livelli (I livello: screening; II livello: valutazione appropriata; III livello: valutazione delle soluzioni alternative; IV livello: valutazione in caso di assenza di soluzioni alternative in cui permane l’incidenza negativa).
In particolare, al II livello (valutazione appropriata) si prescrive la «[c]onsiderazione dell’incidenza del progetto o piano sull’integrità del sito Natura 2000, singolarmente o congiuntamente ad altri piani o progetti, tenendo conto della struttura e funzione del sito, nonché dei suoi obiettivi di conservazione» e «[i]n caso di incidenza negativa, si aggiunge anche la determinazione delle possibilità di mitigazione».
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l’ultima parte di questa disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, per il quale, qualora nonostante le conclusioni negative della valutazione di incidenza sul sito ed in mancanza di soluzioni alternative possibili, il piano o l’intervento debba essere realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale ed economica, le amministrazioni competenti adottano ogni misura compensativa necessaria. Conseguentemente sarebbe violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Per la difesa erariale, in caso di conclusione negativa della valutazione di incidenza sussisterebbe, infatti, l’obbligo di adottare misure di compensazione e non mere misure di mitigazione, quali quelle previste dalla disciplina regionale, le quali sarebbero, invece, previste in caso di conclusione positiva della valutazione di incidenza.
3.( La Regione Piemonte si è costituita con una memoria nella quale sostiene l’infondatezza del ricorso.
3.1. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 5, comma 1, lettera c), e 8, comma 4, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene l’infondatezza della questione, rilevando che la disciplina nazionale invocata dal ricorrente (art. 22, comma 6, legge n. 394 del 1991) vieta (esattamente come la stessa legge regionale n. 19 del 2009) l’attività venatoria nei parchi naturali e nelle riserve naturali regionali, ma non la vieta affatto nelle zone naturali di salvaguardia. Zone, queste ultime, sconosciute alla disciplina nazionale, non riconducibili né ai parchi né alle riserve naturali regionali ed introdotte dal legislatore regionale, quali aree di graduale raccordo tra la rete ecologica regionale e le aree circostanti.
3.2. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e 7, comma 2, e lettera d), n. 1, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 la difesa regionale sostiene che «la condivisione ed il rispetto di finalità di tutela, definite in primis dalla legge statale», non potrebbe in alcun modo essere intesa «come forma di prevaricazione delle competenze dello Stato».
In riferimento ai mancati accordi lamentati dal ricorrente per la tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico, storico o culturale, la difesa regionale rileva, poi, che l’art. 5 della legge n. 394 del 1991 prevede quale principio fondamentale la partecipazione degli enti locali nell’istituzione e nella gestione delle aree protette ed un utilizzo del territorio compatibile con la speciale destinazione dell’area e che l’art. 5 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede la cooperazione delle Regioni e degli enti locali in materia di tutela del patrimonio culturale, nonché il concorso delle Regioni nel sostenere la conservazione del patrimonio culturale e nel favorirne la pubblica fruizione e valorizzazione. La difesa regionale osserva, inoltre, che sette dei nove siti individuati quali riserve speciali sarebbero “Sacri Monti”, disciplinati dalla legge 20 febbraio 2006, n. 77 (Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico, ambientale, inseriti nella lista del patrimonio mondiale, posti sotto la tutela dell’UNESCO), in ordine ai quali, sin dal 2003, lo Stato avrebbe riconosciuto un ruolo alla Regione, mentre negli altri due siti classificati riserve speciali (La Bessa e la Benevagienna) insisterebbero da decenni vincoli di tutela ministeriale per rilevanti reperti archeologici di epoca romana. Conseguentemente, qualsiasi intervento regionale di conservazione in queste aree sarebbe preventivamente sottoposto al giudizio ed alla autorizzazione degli organismi statali preposti alla tutela. La legge regionale, pertanto, non prefigurerebbe una autonoma competenza regionale finalizzata alla tutela dei beni storico-culturali, ma al contrario traccerebbe il percorso per garantire una concomitante azione di salvaguardia e valorizzazione degli stessi.
3.3. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 26 e 27 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene che il ricorso si fonderebbe su di una erronea interpretazione delle disposizioni censurate. La sovraordinazione del piano d’area dei parchi naturali e delle zone naturali di salvaguardia, avente valore di piano territoriale regionale, su tutte le norme difformi dei piani territoriali ed urbanistici (art. 26) e la vincolatività ad ogni livello del piano naturalistico, avente valore di piano gestionale dell’area protetta, non negherebbero affatto la prevalenza del piano paesaggistico su ogni atto di pianificazione ad incidenza territoriale diciplinato dalla normative di settore prevista dall’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, ma andrebbero, piuttosto, intese nel senso della prevalenza di detti piani (soltanto) sugli altri strumenti di pianificazione locale riconducibili alla materia regionale del governo del territorio.
Non vi sarebbe, poi, alcuna analogia tra le disposizioni attualmente impugnate e quella oggetto della sentenza n. 180 del 2008 di questa Corte, atteso che le attuali disposizioni non confondono (come invece faceva l’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007) la pianificazione territoriale e quella paesaggistica, ma le tengono rigorosamente separate, pur nell’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica affermata dalla predetta sentenza n. 180 del 2008.
A dimostrazione di questa sua tesi, la Regione Piemonte richiama il piano paesaggistico regionale (d’ora in poi: Ppr) approvato il 4 agosto 2009, il quale, dopo avere riconosciuto (art. 2) i contenuti dei piani d’area, dei piani paesaggistici o territoriali a valenza paesaggistica regionali e provinciali preesistenti, prevede (art. 2, comma 5) che questi devono essere sottoposti a verifica congiunta con il Ministero entro dodici mesi dalla approvazione del Ppr al fine di un loro adeguamento o di riconoscerne la natura attuativa delle previsioni del Ppr, e prevede (art. 46) che i soggetti gestori delle aree naturali protette devono conformare o adeguare i propri strumenti di pianificazione territoriale alle norme del Ppr entro 24 mesi dalla sua approvazione.
3.4. - Anche per quanto attiene alla censura dell’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene che il ricorso si fonderebbe su di una erronea interpretazione delle disposizioni censurate ed, in particolare, su di una confusione in ordine ai diversi momenti del procedimento in cui intervengono la valutazione delle misure di mitigazione e quella delle misure di compensazione, nonché in ordine alle differenti funzioni di tali due tipologie di misure.
La difesa regionale specifica, al riguardo, che la disciplina contestata (nonché la terminologia utilizzata) sarebbe meramente recettiva di quella presente nella pubblicazione «Valutazione di piani e progetti aventi un incidenza significativa sui siti della rete Natura 2000. Guida metodologica alle disposizioni dell’articolo 6, paragrafi 3 e 4 della direttiva Habitat 92/43/CEE», redatta dalla Oxford Brookers University per conto della Commissione europea.
In tale guida, disponibile anche sul sito internet del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, nella II fase («valutazione appropriata»), si evidenzia che, una volta individuati gli effetti negativi del piano o progetto e chiarito quale sia l’incidenza sugli obiettivi di conservazione del sito, è possibile individuare in modo mirato le necessarie misure di mitigazione/attenuazione.
Tali misure, specifica la difesa regionale, sempre richiamando tale pubblicazione, sarebbero concettualmente diverse dalle misure di compensazione che sono previste ed intervengono nella IV fase («valutazione in caso di assenza di soluzioni alternative in cui permane l’incidenza negativa»), in quanto:
a) le misure di mitigazione tendono alla riduzione degli effetti negativi degli interventi (e, in questo senso, se ben realizzate riducono o prevengono la stessa necessità di misure di compensazione);
b) le misure di compensazione sono volte a garantire, nei casi in cui l’intervento è imprescindibile ed inevitabile, la continuità del contributo funzionale di un sito alla conservazione in uno stato soddisfacente di uno o più habitat o specie nella regione biogeografia interessata.
Il ricorso statale sarebbe, pertanto, infondato, laddove invoca la violazione dell’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, posto che anche l’impugnato allegato B, esattamente come la norma statale asseritamente violata, prevede (nella IV fase della valutazione) l’adozione di misure di compensazione ed atteso che la previsione (nella II fase della valutazione) di misure di mitigazione si aggiunge e non si sostituisce alla adozione (nella IV fase della valutazione) delle obbligatorie misure di compensazione.
Considerato in diritto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità).
2. - Al fine della soluzione delle questioni proposte, occorre premettere che la istituzione di aree protette statali o regionali mira a “tutelare” ed a “valorizzare” quei territori che presentano valori culturali, paesaggistici ed ambientali, meritevoli di salvaguardia e di protezione. E non è dubbio, di conseguenza, che, una volta che la legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991 ha previsto l’esistenza di aree protette regionali, distinguendole da quelle statali sulla base del criterio della dimensione dell’interesse tutelato, e ne ha affidato alle Regioni la gestione, queste ultime devono esercitare competenze amministrative inerenti, sia alla “tutela”, sia alla “valorizzazione” di tali ecosistemi.
La modifica del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, introducendo, all’art. 117, secondo comma, lettera s), la competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela” dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (sentenza n. 272 del 2009), ha mutato il quadro di riferimento in cui si inseriva la legge n. 394 del 1991, prevedendo che le competenze legislative in materia di “tutela” spettano esclusivamente allo Stato, mentre le Regioni possono esercitare soltanto funzioni amministrative di “tutela” se ed in quanto ad esse conferite dallo Stato, in attuazione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118, primo comma, Cost.
Nel mutato contesto dell’ordinamento, la legge quadro n. 394 del 1991 deve essere interpretata come una legge di conferimento alle Regioni di funzioni amministrative di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, da esercitare secondo il principio di cooperazione tra Stato e Regioni, come, d’altronde, precisa l’art. 1, comma 5, della legge medesima, il quale statuisce che «nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le Regioni e gli enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa, ai sensi dell’art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dell’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142».
E’, dunque, attribuito alle Regioni l’esercizio delle funzioni amministrative indispensabili per il perseguimento dei fini propri delle aree protette: la funzione di tutela e quella di valorizzazione.
Dette funzioni amministrative, che sono tra loro nettamente distinte, devono peraltro essere esercitate in modo che siano comunque soddisfatte le esigenze della tutela, come si desume dagli artt. 3 e 6 del d.lgs. 42 del 2004, nonché dall’art. 131 dello stesso decreto.
In questo quadro, pertanto, le Regioni, se da un lato non possono invadere le competenze legislative esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, dall’altro sono tenute a rispettare la disciplina dettata dalle leggi statali, le quali, per quanto riguarda la “tutela”, prevedono il conferimento alle Regioni di precise funzioni amministrative, imponendo per il loro esercizio il rispetto del principio di cooperazione tra Stato e Regioni, e, per quanto riguarda le funzioni di “valorizzazione”, dettano i principi fondamentali che le Regioni stesse sono tenute ad osservare.
3. - La prima questione posta dal ricorrente concerne l’esercizio dell’attività venatoria in quelle zone che la legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 definisce «zone naturali di salvaguardia».
La questione riguarda l’art. 5, comma 1, lettera c), e l’art. 8, comma 4, che consentono l’attività venatoria nelle zone naturali di salvaguardia e che sono congiuntamente impugnati dal Presidente del Consiglio dei ministri per contrasto con l’art. 22 della legge n. 394 del 1991, che vieta l’attività venatoria nei parchi naturali e nelle riserve naturali regionali, e, di conseguenza, per violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost.
La questione è fondata.
L’art. 5, comma 1, della legge regionale n. 19 del 2009, nell’introdurre le cosiddette «zone naturali di salvaguardia», le classifica espressamente tra le aree protette.
Si tratta, peraltro, di una tipologia di area protetta non prevista dalla disciplina statale (cui spetta, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge quadro n. 394 del 1991, la “classificazione”, e quindi la “denominazione”, delle aree protette) e di cui non sarebbe stata, quindi, consentita l’introduzione da parte del legislatore regionale (posto che la deliberazione 2 dicembre 1996, tuttora vigente, del Comitato per le aree naturali protette, ora sostituito dalla Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni, non ha previsto, e quindi non ha consentito, la tipologia di area protetta introdotta dal legislatore regionale). Prescindendo, tuttavia, da tale profilo, deve in ogni caso ritenersi che il divieto di attività venatoria, previsto dall’art. 22, comma 6, della legge quadro n. 394 del 1991 per i parchi e le riserve naturali regionali (ovvero per le aree protette regionali previste e consentite dalla legislazione statale) si applichi anche alle zone naturali di salvaguardia, dato che il fine di protezione della fauna è connaturato alla funzione propria di qualsiasi area protetta.
Il divieto di caccia, infatti, è una delle finalità più rilevanti che giustificano l’istituzione di un’area protetta, poiché oggetto della caccia è la fauna selvatica, bene ambientale di notevole rilievo, la cui tutela rientra nella materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Strato, che deve provvedervi assicurando un livello di tutela, non “minimo”, ma «adeguato e non riducibile», come ha puntualizzato la più recente giurisprudenza di questa Corte, restando salva la potestà della Regione di prescrivere, purché nell’esercizio di proprie autonome competenze legislative, livelli di tutela più elevati (sentenza n. 61 del 2009).
Il divieto di esercizio dell’attività venatoria nelle aree protette, affermato dalla legge n. 394 del 1991, è stato, d’altronde, ribadito pure dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme sulla protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), la quale, nel prevedere che «la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato» (art. 1, comma 1) e che «l’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica» (art. 1, comma 2), annovera, tra le materie riservate allo Stato (e non delegate, oggi si direbbe non conferite, alle Regioni), «l’individuazione delle specie cacciabili e dei periodi di attività venatoria» (art. 18), nonché la previsione di una serie di divieti (art. 21), tra i quali il divieto dell’esercizio dell’attività venatoria «nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali, nelle riserve naturali».
3.1. - La seconda questione concerne la legittimità costituzionale dell’affidamento ai gestori dei parchi naturali regionali del compito di tutelare il patrimonio storico-culturale ed architettonico, nonché dell’affidamento ai gestori delle aree protette denominate «riserve speciali» del compito di tutelare il patrimonio archeologico, storico, artistico e culturale. Dette norme, che il ricorrente considera in contrasto con gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, e, quindi, con gli artt. 117 e 118 Cost., si rinvengono, rispettivamente, nell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, e comma 2, lettera d), n. 1, della legge regionale di cui si tratta.
Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
Infatti, le impugnate disposizioni, con le quali la Regione Piemonte dispone autonomamente, al di fuori di ogni forma di cooperazione con lo Stato, l’assegnazione di compiti di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale ai gestori dei parchi naturali regionali e delle riserve speciali, sono chiaramente in contrasto con gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, che impongono detta cooperazione quale presupposto per l’esercizio da parte delle Regioni di funzioni amministrative di tutela, nella parte in cui si riferiscono (non solo alla gestione o alla valorizzazione, ma anche) alla tutela del patrimonio storico-culturale ed architettonico o di quello archeologico, storico, artistico e culturale. Pertanto, alla luce delle considerazioni sopra svolte (sub 3), va dichiarata l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, limitatamente alle parole «tutelare e», nonché dell’art. 7, comma 2, lett. d), n. 1, limitatamente alla parola «tutelare».
3.2. - Ulteriore questione posta dal ricorrente riguarda la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., in relazione alla parte III del d.lgs. n. 42 del 2004 ed, in particolare, all’art. 133, da parte dell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 4, della legge regionale piemontese, secondo il quale è compito dei gestori dei parchi naturali regionali «garantire, attraverso un processo di pianificazione di area, l’equilibrio urbanistico-territoriale ed il recupero dei valori paesaggistico-ambientale».
Anche tale questione è fondata.
Il citato art. 133 del d.lgs. n. 42 del 2004 ribadisce il principio di cooperazione tra le amministrazioni pubbliche per «la definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio». La Regione, invece, ha legiferato autonomamente. Per le stesse ragioni sopra indicate deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale anche di detta disposizione.
3. 3. - La quarta questione posta dal ricorrente riguarda congiuntamente gli art. 26 e 27 della legge regionale del Piemonte, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. s), e terzo comma, Cost., in relazione all’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.
L’art. 26 di detta legge prevede che per le aree naturali protette classificate parco naturale o zone naturali di salvaguardia è redatto un piano di area, che ha valore di piano territoriale regionale e sostituisce le norme difformi dei piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello, mentre l’art. 27 della medesima legge regionale prevede che i piani naturalistici hanno valore di piani di gestione dell’area protetta e le norme in essa prevedute sono vincolanti ad ogni livello.
La questione è fondata.
Le disposizioni censurate contrastano, infatti, con l’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, il quale pone il principio della prevalenza del piano paesaggistico sugli atti di pianificazione ad incidenza territoriale posti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette. Per le ragioni già chiarite dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenze n. 180 e n. 437 del 2008) deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale anche di queste disposizioni.
3.4. - L’ultima questione proposta riguarda l’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009.
Secondo il ricorrente, detto allegato, articolato in quattro livelli di valutazione di incidenza di un progetto o piano sulle circostanti aree protette, prevede, al secondo livello, che «in caso di incidenza negativa, si aggiunge anche la determinazione delle possibilità di mitigazione», là dove, trattandosi di incidenza negativa, avrebbe dovuto prevedere, ai sensi dell’art. 5, comma 9, del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), misure di compensazione e non di mitigazione.
La questione non è fondata.
Infatti, la legge regionale si è limitata ad includere nell’allegato B le linee guida redatte per conto della Commissione europea, le quali prevedono quattro livelli di valutazione di incidenza, secondo l’intensità dell’incidenza stessa, e prescrivono, per il secondo livello, l’adozione, in ogni caso, di misure di mitigazione, dirette a minimizzare l’impatto ambientale negativo dell’intervento, piano o programma, e prevedono per il quarto livello, relativo a interventi e programmi di incidenza fortemente negativa, ma necessitati da motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, l’imposizione anche di misure di compensazione, che possano garantire l’equilibrio della conservazione degli habitat naturali nell’ambito dell’intera regione biogeografica interessata. In altri termini, le misure di mitigazione previste dall’allegato B non sono sostitutive di quelle di conservazione, e la loro previsione, imposta dal diritto comunitario, è coerente con le prescrizioni di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, di attuazione della direttiva 92/43/CEE.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c); 7, comma 2, lettera a), n. 4; 8, comma 4; 26, comma 1, e 27, comma 3, della legge della Regione Piemonte 29 giugno, 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità);
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, limitatamente alle parole «tutelare e», e dell’art. 7, comma 2, lettera d), n. 1, della stessa legge, limitatamente alla parola «tutelare»;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’Allegato B della stessa legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, sollevata, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010.