SENTENZA N. 189
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 1, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Palermo con ordinanza del 19 maggio 2009, iscritta al n. 276 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto1. − Con ordinanza deliberata il 19 maggio 2009, il Tribunale di sorveglianza di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che stabilisce il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai condannati resisi responsabili di condotte punibili ai sensi dell’art. 385 del codice penale.
Il rimettente è chiamato a provvedere sull’istanza di ammissione ad una delle misure alternative previste dagli artt. 47, 47-ter e 48 della legge n. 354 del 1975, presentata il 20 giugno 2008 da una condannata – madre di figli minori conviventi, di cui uno infradecenne – che deve espiare la pena di mesi tre e giorni ventotto di reclusione, inflitta per il reato di evasione, con sentenza divenuta esecutiva il 20 marzo 2007.
Il reato di evasione, per quanto riferito dal giudice a quo, è stato commesso il 21 ottobre 2006, durante l’esecuzione di una misura cautelare – gli arresti domiciliari – applicata nell’ambito di un procedimento poi concluso con sentenza irrevocabile di condanna ad una pena detentiva, in seguito integralmente espiata. La censurata preclusione trova dunque applicazione al caso di specie, non essendo ancora trascorso il triennio dal momento della commissione del reato di evasione.
Il Tribunale evidenzia inoltre la carenza dei requisiti per l’ammissione dell’istante ai regimi di detenzione domiciliare specificamente previsti per le condannate madri, di cui agli artt. 47-quinquies, 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975 ed all’art. 147 cod. pen., da ritenersi non compresi nel novero delle misure per le quali vige la censurata preclusione: ciò in quanto per un verso la prole risulta avere superato i tre anni di età e, per altro verso, la condannata non ha espiato un terzo della pena in esecuzione.
1.1. – Con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva come la previsione contenuta nell’art. 58-quater, comma 1, dell’ordinamento penitenziario meriti di «essere censurata sia in radice sia in parte qua».
Le censure «radicali» vertono essenzialmente sulla violazione del canone di ragionevolezza, del principio di uguaglianza e della finalità rieducativa della pena. Secondo il rimettente, la disciplina in esame accomuna irragionevolmente, ai fini della preclusione triennale perl’accesso ai benefici, «una varietà di condotte tra loro profondamente diverse quanto a gravità oggettiva e soggettiva, a pericolosità sintomatica, a rilevanza prognostica ai fini della concedibilità dei benefici penitenziari», con l’effetto paradossale che, ove la pena inflitta abbia durata inferiore ai tre anni, «l’interdizione da parziale e temporanea diventa totale e definitiva».
Il rimettente lamenta inoltre che il medesimo trattamento penitenziario riguardi tanto coloro i quali evadono dal carcere, così dimostrando elevata pericolosità e inaffidabilità prognostica, quanto coloro i quali evadono dagli arresti domiciliari, allontanandosi dal domicilio anche per poco tempo, in contesti di vita quotidiana ove le condotte di allontanamento assumono piuttosto il carattere dell’infrazione prescrittiva, e sono dunque prive di reale offensività.
L’irragionevolezza della norma, a parere del giudice a quo, risulterebbe ulteriormente aggravata dopo l’intervento attuato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), che ha esteso la portata della preclusione alla generalità dei condannati, nonché in considerazione dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata, secondo cui l’evasione è reato istantaneo.
Il rigido automatismo con cui opera la preclusione oggetto di censura contrasterebbe con le disposizioni dell’ordinamento penitenziario in materia di permessi, di detenzione domiciliare speciale e di semilibertà, le quali attribuiscono rilevanza penale soltanto alle evasioni protrattesi per oltre dodici ore. Il rimettente sottolinea come l’art. 30, comma 3, della legge n. 354 del 1975, escluda perfino la rilevanza disciplinare del ritardo nel rientro in istituto inferiore alle tre ore, in cui sia incorso il condannato ammesso a fruire di permesso e come, in termini analoghi, disponga l’art. 51 della stessa legge, ai fini della revoca discrezionale della semilibertà.
Ancora, il giudice a quo evidenzia come il predetto automatismo sottragga, a priori ed in modo indiscriminato, alla «discrezionalità prognostica della magistratura di sorveglianza, il giudizio in ordine al disvalore specialpreventivo delle concrete condotte di evasione ed al loro significato predittivo in chiave educativa», in controtendenza con l’impostazione complessiva del sistema penitenziario, la quale affida all’organo giurisdizionale specializzato la valutazione della rilevanza prognostica di fatti di reato anche più gravi dell’evasione. In proposito, sono richiamate la sentenza n. 186 del 1995 della Corte costituzionale, che ha affermato il carattere necessariamente discrezionale della revoca della liberazione anticipata a seguito della commissione, da parte del condannato, di un reato non colposo nel corso dell’esecuzione, ed alcune pronunce della Corte di cassazione, nelle quali viene ribadito il carattere non ostativo della commissione di fatti di reato ai fini della concessione della liberazione anticipata, della liberazione condizionale e della riabilitazione (sentenze n. 4603 del 1995 e n. 43435 del 2005).
Il rimettente evidenzia, inoltre, come la norma censurata determini il sacrificio delle esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario e, con esse, della funzione rieducativa della pena, cui è preordinata la discrezionalità del giudice della sorveglianza. Ciò che, del resto, si desumerebbe a contrario dall’ordinanza n. 87 del 2004 della Corte costituzionale, ove l’illegittimità costituzionale della previsione contenuta nel comma 2 del medesimo art. 58-quater – riguardante l’applicazione della medesima preclusione ai condannati nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa alla detenzione – è stata negata proprio in ragione del carattere discrezionale della predetta revoca, che costituisce il presupposto applicativo della preclusione.
A conferma della irrazionalità e disorganicità che segnerebbero la disciplina penitenziaria del reato di evasione, il giudice a quo richiama sia la sentenza n. 173 del 1997 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47-ter, comma 9, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui prevede la sospensione della detenzione domiciliare a fronte della mera denuncia di evasione, anche proveniente da privati, sia l’ordinanza (n. 30027 del 2008) con la quale la Corte di cassazione ha denunciato l’irragionevole disparità di trattamento «tra l’evasione della detenuta domiciliare “ordinaria” con prole infradecenne, sanzionata dal comma 8 dell’art. 47-ter ord. pen. e l’evasione della detenuta domiciliare “speciale” con identica situazione genitoriale sanzionata nei limiti dell’art. 47-sexies, con l’effetto paradossale che al caso meno grave è riservato un trattamento più severo del caso più grave» .
1.2. – Dopo avere esaminato le ragioni che renderebbero «radicalmente» illegittima la norma censurata, il Tribunale procede all’esame dei profili di illegittimità connessi alle opzioni interpretative che avrebbero assunto il carattere di «diritto vivente», come tale superabile soltanto con l’intervento del giudice delle leggi.
Il rimettente contesta in primo luogo che il divieto di concessione dei benefici penitenziari possa trovare applicazione anche con riguardo alla pena «isolatamente considerata in executivis, inflitta per lo stesso reato d’evasione». Una soluzione interpretativa siffatta varrebbe a configurare l’evasione come reato ostativo, con conseguente presunzione iuris et de iure di pericolosità del responsabile, per la durata di tre anni, senza possibilità di prova contraria. Tale presunzione, peraltro fondata su «fragilissime se non inesistenti basi criminologiche», farebbe del condannato per evasione un «tipo d’autore», in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale (è richiamata la sentenza n. 306 del 1993), oltre che con i principi del diritto costituzionale nazionale ed europeo e con le scelte compiute dal legislatore ordinario, che nel 1986 ha abolito tutti i casi di pericolosità sociale presunta.
Del resto, prosegue il rimettente, la lettera della norma censurata riferisce il divieto di ammissione ai benefici penitenziari al condannato per un diverso reato, il quale sia evaso durante l’espiazione della relativa pena (o nella precedente fase di custodia cautelare). Dal collegamento tra la condotta di evasione e la diversa vicenda esecutiva, nella quale il reato previsto dall’art. 385 cod. pen. si inserisce come «incidente di percorso», discenderebbe che la preclusione in esame debba esplicare i suoi effetti interdittivi in coerenza con tale collegamento, e quindi limitatamente al procedimento esecutivo principale.
La diversa opzione interpretativa, secondo il Tribunale, condurrebbe tra l’altro alla necessaria applicazione della preclusione alla persona incensurata, evasa dagli arresti domiciliari disposti, in via cautelare, nell’ambito di un procedimento conclusosi con la sua assoluzione. Il risultato paradossale sarebbe che la pena inflitta per l’unico reato commesso, quello di evasione, dovrebbe essere espiata in carcere e, nel contempo, il predetto reato risulterebbe assoggettato al trattamento più severo previsto nell’intero ordinamento.
Al contrario, prosegue il giudice a quo, l’interpretazione restrittiva troverebbe conferma in alcune pronunce di legittimità, nelle quali si esclude che la preclusione in esame possa configurarsi come effetto penale della condanna per evasione (è richiamata Corte di cassazione, sentenza n. 3308 del 1994) e, soprattutto, nella circostanza che il legislatore del 2005 non ha inserito il reato di evasione tra quelli ostativi alla sospensione dell’esecuzione della pena, secondo il meccanismo delineato dall’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, propedeutico all’accesso privilegiato alle misure alternative alla detenzione per le pene detentive brevi.
Sempre sul piano interpretativo, secondo il rimettente, andrebbe escluso che la preclusione possa trovare applicazione in riferimento a titoli diversi da quello in relazione alla cui esecuzione è stata posta in essere la condotta di evasione, «indipendentemente dal nomen iuris e in forza della circostanza accidentale ed aleatoria della loro messa in esecuzione nel periodo di vigenza del divieto». In senso opposto, invece, la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione al comma 2 dello stesso art. 58-quater, afferma la riferibilità del divieto di accesso ai benefici penitenziari a tutti i titoli esecutivi sopravvenuti nel triennio (è richiamata Corte di cassazione, sentenza n. 3802 del 2000).
Siffatta opzione interpretativa, a parere del giudice a quo, reciderebbe quel «legame genetico-funzionale» esistente tra la condotta di evasione e la vicenda esecutiva (della pena o della misura cautelare) nel corso della quale l’evasione è stata posta in essere, in deroga al canone non scritto, che informa l’intero ordinamento penitenziario, della eccezionalità delle ricadute di un comportamento assunto nel corso di una precedente vicenda esecutiva, e in violazione del principio ermeneutico, affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 349 del 1993), dell’interpretazione restrittiva delle disposizioni penitenziarie che incidono in negativo sui diritti del condannato.
Inoltre, osserva il rimettente, per effetto della applicazione a qualsiasi titolo esecutivo, «si trasformerebbe un divieto ragionevole, se contenuto entro precisi limiti funzionali, in una irragionevole “inabilitazione assoluta ad personam”, ancorché temporanea, costituzionalmente inaccettabile, in aperto contrasto con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma, della Costituzione».
Il Tribunale evidenzia, infine, che nel caso di specie, poiché la condannata istante è priva di risorse parentali, l’espiazione della pena in regime di detenzione carceraria «comporterebbe l’ulteriore disgregazione del nucleo familiare con l’alternativa dell’ingresso in carcere dei figli minori insieme alla madre o il loro abbandono ed eventuale affidamento in mani estranee, in palese contrasto con i principi ed i valori sanciti dagli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione».
2. – Con atto depositato il 9 dicembre 2009, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza della questione.
La difesa dello Stato evidenzia come, pur non mancando nella giurisprudenza costituzionale pronunce che hanno riconosciuto preminente rilievo al profilo rieducativo della pena rispetto alle esigenze general-preventive, non ricorrano le condizioni per ritenere che la norma censurata sia affetta da irragionevolezza, ovvero incompatibile con gli altri parametri evocati.
La scelta legislativa di assegnare la prevalenza, nel necessario bilanciamento, alle esigenze general-preventive rispetto a quelle di rieducazione del condannato e di salvaguardia del suo nucleo familiare, sarebbe esente da vizi di costituzionalità.
Inoltre, a parere dell’Avvocatura, la norma censurata non potrebbe essere utilmente comparata con le disposizioni concernenti la disciplina dei permessi ai detenuti e della semilibertà – le quali sanzionano come evasione soltanto l’allontanamento protrattosi per almeno dodici ore –, trattandosi di previsioni eterogenee.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Palermo solleva, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che stabilisce il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai condannati resisi responsabili di condotte punibili ai sensi dell’art. 385 del codice penale.
2. – Le questioni sono inammissibili.
2.1. – Il rimettente muove dal presupposto che il censurato art. 58-quater, comma 1, ord. pen. precluda, in modo rigido ed automatico, la concessione dei benefici penitenziari in esso elencati, senza lasciare al giudice alcun margine di valutazione del caso concreto. Quest’orientamento interpretativo di fondo conduce lo stesso rimettente ad individuare plurimi profili di contrasto della norma censurata con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 Cost.
A fronte di una interpretazione letterale della disposizione impugnata, che genera i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal giudice a quo, è possibile invece una sua lettura costituzionalmente orientata, basata sull’ineliminabile funzione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost. e confermata dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha escluso l’ammissibilità, nel nostro ordinamento penitenziario, della prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati. Nella materia dei benefici penitenziari, è criterio «costituzionalmente vincolante» quello che esclude «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso» (sentenza n. 436 del 1999).
Se si esclude radicalmente il ricorso a criteri individualizzanti, «l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo» (sentenza n. 257 del 2006; in senso conforme sentenza n. 79 del 2007) e si instaura di conseguenza un automatismo «sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (sentenza n. 255 del 2006).
2.2. – I principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale prima ricordata, ormai organicamente compenetrati con le norme legislative che compongono l’ordinamento penitenziario, forniscono le linee guida per l’interpretazione delle singole disposizioni. Di ciò si è mostrata consapevole la giurisprudenza di legittimità, che ha dato dell’art. 58-quater, comma 1, ord. pen. una lettura costituzionalmente orientata, che non preclude automaticamente l’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere a causa dell’intervenuta condanna per il reato previsto dall’art. 385 cod. pen., ma «impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un’analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 385 cod. pen., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005» (Corte di cassazione, sentenza n. 22368 del 2009; conformi, sentenze n. 41956 e n. 44669 del 2009).
Le pronunce prima citate del giudice di legittimità, ancorché successive all’ordinanza di rimessione del Tribunale di sorveglianza di Palermo, dimostrano l’esistenza di uno spazio ermeneutico che il rimettente avrebbe potuto utilmente esplorare, allo scopo di pervenire ad una interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, considerata invece dallo stesso in modo isolato dal sistema complessivo.
3. – Un’eventuale interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione oggetto del presente giudizio potrebbe condurre ad escludere la fondatezza delle censure proposte dal rimettente, in relazione a tutti i parametri evocati. Infatti, la possibilità di valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato responsabile del reato di cui all’art. 385 cod. pen. consentirebbe di evitare al contempo la lesione di diritti inviolabili della persona, il trattamento uguale di situazioni diverse, la vanificazione della funzione rieducativa della pena e la compromissione degli interessi della famiglia e dei figli minorenni, costituzionalmente protetti.
In definitiva, le questioni sono inammissibili per non avere il rimettente valutato la possibilità di attribuire alla disposizione censurata un significato conforme ai principi costituzionali evocati.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALEdichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30 e 31 dal Tribunale di sorveglianza di Palermo con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2010.