SENTENZA N. 298
ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 21 gennaio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di S. M. ed altro, iscritta al n. 85 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui – modificando l’art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace;
b) dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dal pubblico ministero contro una di dette sentenze, prima della data di entrata in vigore della medesima legge, sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile.
La Corte rimettente premette di essere investita del ricorso per cassazione proposto il 10 marzo 2006 dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Genova, avverso la sentenza del Giudice di pace di Voltri – emessa il 25 novembre 2005 e depositata il 31 gennaio 2006 – che aveva assolto due imputati dal reato di lesioni colpose «gravi e aggravate dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale»: sentenza censurata dal ricorrente sotto i profili della mancata ammissione di una prova decisiva, nonché della mancanza e della manifesta illogicità della motivazione in ordine all’omessa ammissione di una perizia, volta ad accertare le modalità del sinistro.
La Corte rimettente evidenzia come il ricorso sia stato proposto il giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, mentre la sentenza e il deposito della motivazione sono precedenti ad essa. In simile situazione, potrebbe porsi un problema di individuazione della disciplina applicabile: infatti, è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che il principio tempus regit actum opera anche in rapporto alle impugnazioni; tuttavia, si registrano divergenti indirizzi in ordine al momento rilevante ai fini dell’applicazione di detto principio (proposizione dell’impugnazione, pronuncia della sentenza o deposito della motivazione).
Nella specie, peraltro, il problema risulterebbe risolto dalla disposizione transitoria di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, tuttora vigente nelle parti non incise dalle declaratorie di illegittimità costituzionale di cui alle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007: disposizione in forza della quale «l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento […] dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della […] legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile». Alla luce di tale previsione, il momento discriminante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, infatti, sarebbe – univocamente – quello della proposizione dell’impugnazione: proposizione che, nel caso di specie, è avvenuta sotto il vigore della novella.
Sotto un diverso profilo, e per quanto concerne la qualificazione giuridica dell’impugnazione proposta, la Corte rimettente ricorda come, secondo la propria costante giurisprudenza – stante il rinvio operato dall’art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000 alle norme generali del codice di rito, in materia di impugnazione – avverso le sentenze del giudice di pace sia ammesso il ricorso per cassazione «per saltum»; nel qual caso il giudice di rinvio si identifica nel tribunale in composizione monocratica, indicato quale giudice competente per il giudizio d’appello dall’art. 39 del citato decreto legislativo. Di qui, peraltro, l’applicabilità anche dell’art. 569, comma 3, del codice di procedura penale, che prevede la conversione del ricorso «per saltum» in appello, qualora venga con esso dedotto un vizio di motivazione o l’omessa assunzione di una prova decisiva (art. 606, lettere d ed e, cod. proc. pen.).
Nella specie, il ricorso proposto dal pubblico ministero si fonda proprio sui motivi di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 606 cod. proc. pen. Perciò – ove non fosse intervenuta la legge n. 46 del 2006, rendendo inappellabili dal pubblico ministero le sentenze di proscioglimento del giudice di pace – l’impugnazione andrebbe qualificata come ricorso «per saltum» e, conseguentemente, convertita in appello ai sensi del citato art. 569 cod. proc. pen.; con individuazione del giudice competente nel tribunale in composizione monocratica.
Desunta da tali considerazioni la rilevanza della questione, la Corte rimettente osserva – quanto alla non manifesta infondatezza – come le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 abbiano dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui non consentono al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario o di giudizio abbreviato; nonché dell’art. 10, comma 2, della medesima legge, in riferimento alla prevista declaratoria di inammissibilità degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso le predette sentenze anteriormente alla data di entrata in vigore della riforma.
Tali pronunce di incostituzionalità – prosegue il giudice a quo – si fondano sul rilievo che il principio di parità delle parti (riferibile anche al regime delle impugnazioni) non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato. Tuttavia, le alterazioni della simmetria fra tali poteri debbono trovare comunque una giustificazione razionale, legata ad una esigenza di complessivo riequilibrio delle posizioni delle parti o al ruolo istituzionale del pubblico ministero. Tale giustificazione, per contro, non è ravvisabile – in termini di adeguatezza e proporzionalità – rispetto alle norme dianzi citate, tenuto conto del carattere radicale, generale e unilaterale della sperequazione generata da tali alterazioni.
Ad avviso della Corte rimettente, le medesime considerazioni indurrebbero a ritenere contrastante con gli artt. 3 e 111 Cost. anche l’esclusione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento del giudice di pace, disposta dalle norme censurate.
I peculiari caratteri del procedimento davanti al giudice di pace – più volte posti in luce nella giurisprudenza costituzionale – potrebbero giustificare, infatti, deviazioni «sensibili» della relativa disciplina rispetto al modello ordinario, ma non «il completo stravolgimento del regime delle impugnazioni»: e ciò tanto più a fronte della natura non sempre “bagatellare” dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. Nei procedimenti relativi ai reati di più accentuato disvalore – quale, in specie, il delitto di lesioni personali colpose aggravate dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, oggetto del giudizio a quo – le esigenze di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado assumerebbero, in effetti, una particolare pregnanza. Sarebbe, perciò, ancora più evidente il carattere radicale dell’asimmetria racchiusa nella disciplina censurata, in quanto «estesa a qualsiasi tipologia di processo e anche ai casi di totale soccombenza» della parte pubblica.
Sussisterebbe, in ogni caso, il connotato della «unilateralità». L’eliminazione dell’appello del pubblico ministero avverso il proscioglimento non avrebbe, infatti, «alcuna vera contropartita». Ne essa risulterebbe giustificabile solo perché limitata a determinate categorie di reati, stante il particolare «impatto sociale» di alcuni di essi; mentre apparirebbe contraddittorio il mantenimento del potere di appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria.
La disciplina denunciata non potrebbe essere giustificata neppure in una prospettiva di riequilibrio dei poteri delle parti, avuto riguardo ai più ridotti poteri di impugnazione di cui l’imputato fruirebbe, rispetto al rito ordinario, nel caso di sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria. Ciò in quanto tale sentenza è appellabile dall’imputato ove sia stata pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento del danno (art. 37 del d.lgs. n. 274 del 2000); mentre, secondo parte della dottrina, nel procedimento davanti al giudice di pace non sarebbe applicabile al pubblico ministero nemmeno il nuovo dettato dell’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., che consente di appellare la sentenza di proscioglimento nell’ipotesi – sia pure marginale – di sopravvenienza o di scoperta di nuove prove decisive dopo la sentenza di primo grado.
Sotto diverso profilo, poi, il collegamento esistente – in forza dell’art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000 – tra il potere di impugnazione del pubblico ministero e quello della parte offesa che abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell’art. 21 del medesimo decreto legislativo, finirebbe per ridimensionare «drasticamente» il ruolo di detta parte, in contrasto con un connotato tipico del procedimento davanti al giudice di pace. Stante, infatti, l’interdipendenza – sottolineata anche dalla relazione al d.lgs. n. 274 del 2000 – tra la disciplina della citazione diretta dell’imputato, «strumento propulsivo nelle mani della persona offesa», e il diritto di impugnazione della stessa, ogni limitazione di quest’ultimo diritto verrebbe a riverberarsi sulla specifica funzione annessa alla giurisdizione del giudice di pace, «tesa a valorizzare le prevalenti esigenze di tutela della vittima del reato, stravolgendo, quindi, uno dei pilastri di quel giudizio».
Un ulteriore profilo di irragionevolezza emergerebbe all’interno dello stesso disposto dell’art. 9 della legge n. 46 del 2006. Infatti, per un verso, con il comma 1 di tale articolo, si sarebbe ricondotto il danneggiato «entro una dimensione prettamente civilistica», mediante l’abrogazione dell’art. 577 cod. proc. pen. (che consentiva alla persona offesa costituita parte civile di proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione). Per un altro verso, si sarebbe fatto invece permanere – nel procedimento davanti al giudice di pace – «un ampio potere in capo alla parte offesa», consentendole di proporre ricorso per cassazione, anche agli effetti penali, avverso la sentenza di proscioglimento.
Alla radice della disciplina censurata non potrebbe scorgersi neppure un’esigenza di semplificazione processuale; al contrario, la riforma avrebbe determinato un incremento dei «passaggi» necessari per pervenire alla decisione definitiva. In precedenza, infatti, all’assoluzione ingiusta potevano seguire l’appello e il ricorso per cassazione; invece, attualmente, per giungere al medesimo risultato occorrerebbero, «nella migliore delle ipotesi», quattro «passaggi»: ricorso per cassazione del pubblico ministero, nuovo giudizio di primo grado, appello contro la decisione di condanna e ricorso per cassazione avverso la sentenza confermativa. Donde una dilatazione dei tempi processuali atta ad incidere negativamente, quanto alle contravvenzioni, sulla prescrizione del reato e, per tutti i reati, sulla ragionevole durata del processo.
Né, da ultimo, varrebbe invocare il contenuto del messaggio del Presidente della Repubblica, con il quale – in sede di rinvio della legge di riforma alle Camere – si era evidenziato, come profilo di incongruenza, il fatto che al principio informatore della legge stessa (quello, cioè, dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) fosse originariamente sfuggito il procedimento penale davanti al giudice di pace: non essendo la segnalata incongruenza più ravvisabile dopo le dichiarazioni di incostituzionalità degli artt. 1, 2 e 10 della legge n. 46 del 2006.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dell’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui – modificando l’art. 36, comma 1, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 – non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace; nonché dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dal pubblico ministero contro una di dette sentenze, prima della data di entrata in vigore della medesima legge, venga dichiarato inammissibile.
Ad avviso della Corte rimettente, in rapporto alle norme censurate, varrebbero le medesime rationes che hanno indotto questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimi sia gli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui sopprimevano il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario e di giudizio abbreviato; sia la disposizione transitoria di cui all’art. 10, comma 2, della stessa legge, per la parte corrispondente (sentenze n. 26 e n. 320 del 2007).
Infatti, anche le norme denunciate genererebbero, tra i poteri di impugnazione delle parti, una asimmetria priva di adeguata giustificazione, avuto riguardo al suo carattere asseritamente radicale, generalizzato e unilaterale. Tale giustificazione non potrebbe essere rinvenuta né nelle particolarità del procedimento davanti al giudice di pace, che non legittimerebbero un «completo stravolgimento del regime delle impugnazioni», tanto più a fronte della natura non sempre “bagatellare” dei reati attribuiti alla competenza di detto giudice; né in una esigenza di riequilibrio dei poteri delle parti, tra i quali non era ravvisabile, in precedenza, alcuna significativa sperequazione. Mentre, per altro verso, apparirebbe contraddittorio il mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria.
Ulteriori profili di irragionevolezza della disciplina censurata si connetterebbero al depotenziamento del ruolo della persona offesa che abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000, i cui poteri di impugnazione riflettono quelli del pubblico ministero (art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000); nonché al fatto che la persona offesa mantenga, comunque, il potere di proporre ricorso per cassazione, anche agli effetti penali: e ciò ancorché il comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006 – abrogando l’art. 577 cod. proc. pen. – abbia inteso ricondurre il danneggiato dal reato «in una dimensione prettamente civilistica».
Da ultimo, l’esclusione dell’appello della parte pubblica contro le sentenze di proscioglimento non risponderebbe neppure ad una esigenza di semplificazione. Al contrario, nel caso di assoluzione ingiusta, essa provocherebbe un aumento dei gradi di giudizio occorrenti onde pervenire alla decisione definitiva; con conseguente compromissione anche del principio di ragionevole durata del processo.
2. – La questione relativa all’art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006 non è fondata.
3. – Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, le precedenti argomentazioni di questa Corte – sulla base delle quali essa ha dichiarato costituzionalmente illegittima la soppressione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, emesse nel giudizio ordinario e nel giudizio abbreviato, per violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost. – non impongono la medesima conclusione in rapporto alla norma oggi sottoposta a scrutinio.
3.1. – Con la sentenza n. 26 del 2007, questa Corte ha ribadito – a conferma della propria costante giurisprudenza – che, nel processo penale, il principio di parità delle parti non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato. Infatti – sulla base delle «fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali […] le parti stesse sono portatrici» – sono compatibili con il principio costituzionale in questione delle disparità di trattamento tra le parti medesime: purché tali disparità siano sorrette da un’adeguata ratio giustificatrice, connessa al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri dei contendenti; e purché, comunque, esse siano contenute nei limiti della ragionevolezza.
Tali enunciati – ha ulteriormente precisato la citata sentenza n. 26 del 2007 – risultano riferibili anche alla disciplina delle impugnazioni, che non può reputarsi in alcun modo estranea all’ambito di operatività del principio di parità delle parti. Ciò pur avendo la Corte evidenziato – in assenza di un riconoscimento costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione – che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado, da parte del pubblico ministero, non è configurabile come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost.; e che tale potere presenta, a fronte di esigenze contrapposte, dei margini di «cedevolezza» più ampi rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato, il quale, invece, si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.).
Di qui, dunque, la conclusione che, «per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni – ferma restando la possibilità per il legislatore […] di una generale revisione del ruolo e della struttura dell’appello – non contraddice, comunque, il principio di parità l’eventuale differente modulazione dell’appello medesimo per il l’imputato e per il pubblico ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza», con i relativi «corollari di adeguatezza e proporzionalità».
3.2. – La sentenza n. 26 del 2007 ha escluso che le condizioni dianzi ricordate ricorressero con riguardo al nuovo testo dell’art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006, concernente l’appello nel giudizio ordinario: essendosi in quell’occasione al cospetto di una dissimmetria estrema, che non avrebbe potuto essere reputata compatibile con il principio di parità delle parti, senza svuotare di significato l’affermata riferibilità di detto principio anche alla materia delle impugnazioni.
La sperequazione indotta dalla citata disposizione – per effetto della quale una sola delle parti perdeva la facoltà di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che avesse integralmente respinto le proprie istanze (salva l’ipotesi, del tutto marginale, della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado) – si presentava, difatti, oltre che radicale, anche «generalizzata e “unilaterale”». A fronte dell’intatto potere dell’imputato di appellare le sentenze di condanna – anche per reati bagatellari (salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda) – il pubblico ministero veniva privato del simmetrico potere di appello avverso il proscioglimento, non in riferimento «a talune categorie di reati, ma […] indistintamente a tutti i processi»: ivi compresi quelli relativi ai «delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale». Al tempo stesso, detta rimozione non trovava «alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo».
In questa situazione, l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti non poteva essere giustificata, in termini di «adeguatezza e proporzionalità», alla luce delle rationes addotte a fondamento della riforma (vale a dire: l’asserita impossibilità di considerare colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» l’imputato prosciolto in primo grado; l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alle previsioni di determinati atti internazionali; l’opportunità di evitare che la sentenza di proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione della prova venga ribaltata da un giudice che ha una cognizione prevalentemente “cartolare” del materiale probatorio).
4. – È agevole rilevare, peraltro, come le connotazioni dianzi indicate – ravvisabili, mutatis mutandis, anche in relazione alla soppressione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato (art. 2 della legge n. 46 del 2006, modificativo dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen.: si veda la sentenza n. 320 del 2007) – non siano invece riscontrabili nell’ipotesi oggetto dell’odierno scrutinio.
4.1. – La limitazione del potere di appello del pubblico ministero, stabilita dal novellato art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, non è affatto «generalizzata». Essa concerne, al contrario, i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale: figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive.
La validità di questo rilievo non è inficiata dall’asserto della Corte rimettente, stando al quale non tutti i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace – e, tra essi, in specie, il reato di lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale (oggetto del giudizio a quo) – potrebbero essere qualificati, in realtà, come “bagatellari”. Tale asserto si risolve, infatti, in un personale apprezzamento del giudice a quo circa il merito di scelte legislative in sé latamente discrezionali (quali quelle relative alla valutazione della gravità e dell’allarme sociale generato dai singoli reati).
Al tempo stesso, la limitazione censurata viene ad innestarsi su un modulo processuale (il procedimento davanti al giudice di pace), che – come reiteratamente rilevato da questa Corte e come lo stesso giudice a quo riconosce – presenta caratteristiche assolutamente peculiari. Esso risulta improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario (ex plurimis, ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004).
Inoltre, la modifica normativa denunciata è intervenuta su una disciplina che – con specifico riguardo al regime delle impugnazioni – vedeva l’imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico ministero. In base al previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, difatti, la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; sia le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. Per contro, ai sensi dell’art. 37 del medesimo decreto legislativo, l’imputato era – ed è – ammesso ad appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria; nonché le sentenze di condanna a quest’ultima pena, ma solo ove venga congiuntamente impugnato il capo di condanna, anche generica, al risarcimento del danno.
Ne derivava che, prima della riforma, il pubblico ministero fruiva del potere di appello, a certe condizioni, in rapporto ad entrambi gli epiloghi decisori del processo di primo grado (condanna e proscioglimento); mentre l’imputato fruiva dell’omologo potere, a certe condizioni, in rapporto ad uno soltanto di detti epiloghi (la condanna). Non solo: l’imputato non poteva (né può) proporre appello contro le sentenze di condanna per reati puniti con pena alternativa, allorché sia stata concretamente applicata la sola pena pecuniaria (salvo che impugni l’eventuale capo di condanna al risarcimento dei danni); invece, il pubblico ministero poteva appellare in ogni caso le sentenze di proscioglimento relative alla medesima categoria di reati.
4.2. – In simile situazione, la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace – a dispetto del mantenimento di un (circoscritto) potere di appello dell’imputato avverso le sentenze di condanna – non può ritenersi eccedente i limiti di compatibilità con il principio di parità delle parti. Tale scelta trova, infatti, una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa”, all’esito di un procedimento improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme; sia – almeno in parte – nell’ottica del riequilibrio dei poteri rispetto ad un assetto nel quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l’imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza” rispetto a spinte di segno soppressivo.
L’eventualità, allegata dalla Corte rimettente, che – in contrasto con la «esigenza semplificativa o di ragionevole durata del processo» – l’intervento normativo censurato determini, in caso di assoluzione ingiusta, un aumento dei gradi di giudizio occorrenti onde pervenire alla decisione definitiva (stante il carattere, di regola, solo rescindente del giudizio di cassazione), costituisce, per l’appunto, una semplice eventualità: ed in tali termini essa era stata evocata, in un’ottica contrapposta, dalla sentenza n. 320 del 2007 di questa Corte, citata dal giudice a quo. D’altronde, è indubbio che, sotto altri versanti, l’esclusione del giudizio di appello su iniziativa della parte pubblica comporti, viceversa, un risparmio di attività processuali.
Analogamente, resta irrilevante, ai fini considerati, che la compressione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero si riverberi – stante il collegamento istituito dall’art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000 – anche sui corrispondenti poteri del ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell’imputato, ai sensi dell’art. 21 del medesimo decreto legislativo. Contrariamente a quanto afferma la Corte rimettente, il semplice fatto che – sullo specifico versante considerato – i poteri riconosciuti alla persona offesa, che agisce in veste di “accusatore privato”, subiscano una contrazione riflessa, non può essere qualificato come «stravolgimento» di «uno dei pilastri» su cui poggia la giurisdizione del giudice di pace (la centralità del ruolo della vittima). Né, in ogni caso, detta contrazione può essere elevata ad indice della irrazionalità dell’intervento novellistico: infatti, è evidente come l’“accusatore privato” non possa fruire, sul piano del principio di parità delle parti, di poteri processuali, agli effetti penali, più estesi di quelli riconosciuti all’accusatore pubblico.
Del tutto inconferente rispetto al thema decidendum (la configurazione dei poteri di appello del pubblico ministero) – oltre che contraddittoria rispetto alla doglianza dianzi esaminata – è, poi, l’ulteriore censura prospettata dal giudice a quo: cioè la supposta discrepanza tra l’abrogazione dell’art. 577 cod. proc. pen., disposta dal comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006 (nella quale dovrebbe scorgersi l’intento di ricondurre il danneggiato dal reato «in una dimensione prettamente civilistica»), da un lato, e il mantenimento, nel procedimento davanti al giudice di pace, del potere della persona offesa (che abbia proposto ricorso immediato ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000) di ricorrere per cassazione avverso la sentenza di proscioglimento, anche agli effetti penali, dall’altro lato.
Quanto, infine, alla denunciata incongruenza intrinseca alla disciplina dell’impugnazione della parte pubblica, conseguente alla conservazione del suo potere di appello avverso le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria – e, cioè, contro sentenze che accolgono, anche se solo in parte, le istanze dell’accusa, mentre sono rese inappellabili le sentenze che disattendono in toto la pretesa punitiva (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007) – detta incongruenza, una volta escluso che la disposizione impugnata possa ritenersi di per sé contrastante con il principio di parità delle parti, non necessariamente dovrebbe essere rimossa nel senso auspicato dalla Corte rimettente: e, cioè, tramite l’ablazione della norma modificativa e il ripristino del regime pregresso. Sarebbe ipotizzabile, infatti, anche un intervento che incida sulla perdurante (e, peraltro, di fatto assai circoscritta) appellabilità, da parte del pubblico ministero, delle sentenze di condanna: intervento che non può essere peraltro preso in considerazione nella presente sede, sia perché di segno opposto al petitum; sia perché comunque irrilevante nel giudizio a quo.
5. – L’accertata insussistenza di un vulnus all’art. 111, secondo comma, Cost. – sotto il profilo della non configurabilità di una disparità di trattamento tra le parti eccedente i limiti della ragionevolezza – vale altresì, e conseguentemente, ad escludere la lesione dell’art. 3 Cost., dedotta dalla Corte congiuntamente a quella dell’art. 111 Cost. e sulla base delle stesse considerazioni.
6. – La questione relativa alla norma transitoria di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006 – che, ove scrutinata nel merito, non potrebbe evidentemente che seguire la medesima sorte della questione relativa alla norma “a regime” – è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.
Secondo quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, difatti, nel caso oggetto del giudizio a quo l’impugnazione è stata proposta in data successiva all’entrata in vigore della novella: sicché difetta, nella specie, il presupposto di applicabilità della norma transitoria censurata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.