ORDINANZA N. 156
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 4 e 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 6 aprile 2006 dalla Corte militare d’appello di Napoli, del 6 e del 19 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Roma e del 17 marzo 2006 dalla Corte militare d’appello di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 424, 453, 531 e 552 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 43, 44, 48 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con due ordinanze di identico contenuto, rispettivamente del 6 aprile e del 17 marzo 2006 (r.o. nn. 424 e 552 del 2006), la Corte militare d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, «nella parte in cui non prevede, per il pubblico ministero, la possibilità di appellare le sentenze di non luogo a procedere», nonché dell’art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge;
che la Corte rimettente – chiamata in entrambi i giudizi a delibare l’ammissibilità dell’appello proposto dall’organo della pubblica accusa avverso sentenze di non luogo a procedere pronunciate dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, presso il Tribunale militare, rispettivamente, di Bari e di Napoli – rileva che, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili, in quanto anteriori alla data di entrata in vigore della legge;
che tuttavia la nuova disciplina dei limiti oggettivi alla impugnabilità delle sentenze di proscioglimento, introdotta dalla legge n. 46 del 2006, si porrebbe in contrasto con diversi parametri costituzionali;
che, secondo la Corte rimettente, sarebbe violato l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza, impedendosi «al rappresentante della pubblica accusa di dare, nell’ambito della sequenza processuale, concreta attuazione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale»; sia sotto quello della violazione del principio di eguaglianza, in relazione al potere riconosciuto invece alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento;
che sarebbe, inoltre, violato il secondo comma dell’art. 111 Cost., per l’evidente lesione che la disciplina censurata determinerebbe ai principi della parità fra le parti nel processo e della ragionevole durata del processo;
che la lesione del primo principio originerebbe dalla considerazione che la garanzia della parità tra le parti dovrebbe estendersi a tutti gli strumenti funzionali al raggiungimento degli scopi che il processo deve garantire e che, per l’organo dell’accusa, ineriscono alla completa attuazione della pretesa punitiva;
che, quanto alla lesione della ragionevole durata del processo, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe, ad avviso della Corte rimettente, una evidente dilatazione dei tempi del processo, non sorretta da alcuna giustificazione;
che le norme denunciate risulterebbero, altresì, in contrasto con l’art. 112 Cost., poiché il potere di impugnazione dell’organo dell’accusa costituirebbe «una delle espressioni» del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale;
che, infine, la Corte rimettente evidenzia «l’irragionevolezza interna» del regime transitorio disciplinato nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 in relazione alla particolare situazione del pubblico ministero il cui appello va dichiarato inammissibile anche quando abbia già chiesto ed ottenuto, in tale fase, «l’ammissione di nuove prove decisive, circostanza che nel nuovo assetto consentirebbe di coltivare l’impugnazione di merito avverso le sentenze di proscioglimento»;
che la Corte rimettente ritiene che le considerazioni esposte valgano «a maggior ragione» in relazione ai limiti all’appello della sentenza di non luogo a procedere;
che, infatti, la sentenza di non luogo a procedere, adottata al termine dell’udienza preliminare, non è assimilabile ad una decisione di merito; con la conseguenza che, con l’eliminazione dell’appello del pubblico ministero, «viene escluso in radice non tanto un secondo giudizio di merito, quanto la possibilità di pervenire all’unico giudizio di merito davanti al giudice della cognizione»;
che con due ordinanze, di identico contenuto, rispettivamente emesse in data 6 aprile e 19 aprile 2006 (r.o. nn. 453 e 531 del 2006), la Corte d’appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., analoga questione di legittimità costituzionale, censurando l’art. 4 (modificativo dell’art. 428 cod. proc. pen.) e l’art. «11» (recte: 10) della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui sanciscono, per il pubblico ministero, l’inappellabilità «anche per i procedimenti in corso» delle sentenze di non luogo a procedere;
che la Corte rimettente − premesso di essere chiamata a celebrare due diversi giudizi di appello a seguito di impugnazione del pubblico ministero avverso altrettante sentenze, rese dal Giudice delle indagini preliminari, in funzione di Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, di non luogo a procedere per diverse ragioni (difetto di querela; insussistenza del fatto; difetto di condizione di procedibilità, per essere stato il reato commesso all’estero) − ritiene che, entrata in vigore nelle more dei giudizi la legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili ai sensi dell’art. «11» (recte: 10) di essa;
che, tuttavia, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina censurata in riferimento, innanzitutto, al principio della durata ragionevole del processo di cui all’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost., in quanto, in esito al nuovo meccanismo processuale, potrebbe verificarsi – a seguito dell’annullamento da parte della Corte di cassazione – una regressione del procedimento alla fase dell’udienza preliminare; con inevitabile dilatazione dei tempi di definizione del processo e con conseguente aggravio di lavoro per l’organo di legittimità, data l’estensione della sua competenza “sul merito”;
che, inoltre, sarebbe leso il canone della ragionevolezza, posto che tale riforma «non appare giustificata né da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, né da concreti effetti benefici giuridici», oltre a vanificare gli appelli già proposti; mentre il precedente secondo grado “di merito” sarebbe stato idoneo a garantire «un opportuno controllo da parte del giudice collegiale sui possibili errori, anche di fatto, delle sentenze» di non luogo a procedere.
che entrambi i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), quest’ultimo direttamente censurato dalla Corte d’appello di Roma, nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa in esito all'udienza preliminare, e dell’art. 10 della medesima legge;
che i rimettenti sollevano la questione sul presupposto che la norma censurata sia applicabile nei giudizi a quibus − ancorché concernenti appelli avverso sentenze di non luogo a procedere proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006 − in forza della disposizione transitoria di cui all'art. 10 della legge stessa: disposizione che viene fatta quindi oggetto di autonoma denuncia di incostituzionalità;
che, peraltro, il comma 1 del citato art. 10 − nello stabilire che «la presente legge si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima» − si limita, di per sé, a ribadire il principio tempus regit actum, il quale disciplina in via generale la successione di leggi nel settore processuale penale;
che una deroga a detto principio è invece introdotta dal comma 2 dell'art. 10, il quale − incidendo sull'atto processuale già compiuto (nella specie, l'impugnazione) − stabilisce che «l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile»;
che, correlativamente, il successivo comma 3 accorda alla parte, il cui appello sia stato dichiarato inammissibile, la facoltà di proporre ricorso per cassazione «contro le sentenze di primo grado» entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità;
che il comma 2 dell'art. 10 − successivamente alle ordinanze di rimessione − è stato oggetto di dichiarazioni di parziale incostituzionalità, che non interferiscono, peraltro, con l'odierno thema decidendum, in quanto correlate alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di disposizioni «a regime» distinte da quella oggi impugnata (gli artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen., come novellati dalla legge n. 46 del 2006) (sentenze n. 26 e n. 320 del 2007);
che, ciò premesso, i rimettenti danno per scontato che la formula «sentenza di proscioglimento», impiegata nell'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, abbracci anche le sentenze di non luogo a procedere;
che, peraltro, questa Corte – dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale basata su un identico presupposto interpretativo (cfr. ordinanza n. 4 del 2008) – ha evidenziato che l’indirizzo allo stato prevalente nella giurisprudenza di legittimità è, invece, di segno opposto;
che, al riguardo, si rileva, infatti, che la formula «sentenza di proscioglimento» designa, nella sua accezione tecnica, la sentenza liberatoria pronunciata da un giudice chiamato a decidere sul merito: comprendendo, in specie − come si desume dall'intitolazione della sezione I, capo II, titolo III del libro VII del codice di procedura penale − le (sole) sentenze «di non doversi procedere» e di «assoluzione»;
che, a sostegno dell'indirizzo in questione, si osserva, altresì, come la contrapposizione terminologica fra «sentenza di proscioglimento» e «sentenza di non luogo a procedere» − la quale rispecchia la diversa natura delle due pronunce (quanto ad oggetto dell'accertamento, base decisionale, regime di stabilità ed efficacia extrapenale) − sia già stata valorizzata da questa Corte, al fine di dichiarare non fondata altra questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 428 cod. proc. pen. (nel testo originario), nella parte in cui non prevedeva la facoltà della parte civile di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere per il reato di diffamazione a mezzo stampa (sentenza n. 381 del 1992);
che − sempre a supporto dell'orientamento in discorso − si rileva, ancora, come la disposizione di cui al comma 2 dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 abbia natura di norma eccezionale, proprio perché derogatoria del generale principio tempus regit actum: onde essa andrebbe interpretata restrittivamente, rimanendo comunque insuscettibile di applicazione analogica;
che, secondo tale orientamento, il trattamento differenziato, introdotto dalla legge n. 46 del 2006 fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento − quanto alla disciplina transitoria che accompagna il nuovo regime di inappellabilità – potrebbe giustificarsi proprio alla luce di una delle considerazioni svolte dagli odierni rimettenti: e, cioè, alla luce della non riferibilità alle sentenze di non luogo a procedere delle rationes che, alla stregua dei lavori preparatori della novella, sono alla base della scelta di rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento (rationes consistenti nel garantire all'imputato un doppio grado di merito sulla pronuncia di condanna; nell'impossibilità di escludere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza, dopo una sentenza di proscioglimento; nell'opportunità di evitare che la decisione di proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione della prova in contraddittorio, quale quello di primo grado, possa essere ribaltata da altro giudice − quello di appello − che ha una cognizione prevalentemente «cartolare» del materiale probatorio);
che la prospettiva interpretativa ora ricordata − la quale renderebbe irrilevanti le questioni nei giudizi a quibus − non è stata, peraltro, affatto presa in esame dai giudici rimettenti, anche solo per negarne eventualmente la praticabilità;
che, d'altro canto − con riguardo all'autonoma questione sollevata nei confronti dello stesso art. 10, nella parte in cui (con asserita irrazionale dilatazione dei tempi processuali) estenderebbe la disciplina transitoria anche agli appelli anteriormente proposti contro le sentenze di non luogo a procedere − l'omesso esame della soluzione ermeneutica in discorso equivale a mancato adempimento dell'onere, che grava sul giudice rimettente, di verificare preventivamente se la norma censurata sia suscettibile di interpretazioni alternative, atte ad escludere i dubbi di costituzionalità (ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 32 del 2007);
che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 4 e 10 delle medesima legge n. 46 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dalla Corte militare d’appello di Napoli e dalla Corte d’appello di Roma, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.