Sentenza n. 381 del 1992

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SENTENZA N.381

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-          Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-          Dott. Francesco GRECO

-          Prof. Gabriele PESCATORE

-          Avv. Ugo SPAGNOLI

-          Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-          Prof. Antonio BALDASSARRE

-          Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-          Avv. Mauro FERRI

-          Prof. Luigi MENGONI

-          Prof. Enzo CHELI

-          Prof. Francesco GUIZZI

-          Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 428 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 27 dicembre 1991 dalla Corte di appello di Brescia nel procedimento penale a carico di Ciervo Stefano ed altro, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 17 giugno 1992 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso del procedimento penale aperto a seguito della querela proposta da Graci Gaetano nei confronti di Ciervo Stefano e Pirondini Enrico. rispettivamente autore dell'articolo di cronaca, ritenuto diffamatorio, pubblicato sul quotidiano "La Nuova Ferrara", e direttore responsabile dello stesso giornale, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Mantova, competente per territorio (essendo il quotidiano stampato in quel circondario), presentava richiesta di giudizio direttissimo nei confronti dei querelati. All'udienza, che aveva luogo in data 15 marzo 1991, il Tribunale di Mantova, preso atto della sentenza in data 8 febbraio 1991, n. 68, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 233, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), che obbligava il pubblico ministero a procedere, per i reati commessi con il mezzo della stampa e per quelli concernenti le armi e gli esplosivi, al giudizio direttissimo anche fuori dai casi previsti dagli articoli 449 e 566 del codice di procedura penale, ordinava la rimessione degli atti al pubblico ministero. Quest'ultimo richiedeva il rinvio a giudizio degli imputati, ma il Giudice per le indagini preliminari emetteva una sentenza di non luogo a procedere perchè il fatto non costituisce reato. Il querelante, costituitosi parte civile, proponeva appello avverso tale decisione avanti alla Corte d'appello di Brescia, innanzi alla quale i difensori ed il pubblico ministero eccepivano l'inammissibilità dell'appello. Da un lato, l'articolo 577 del codice di rito avrebbe oggettivamente limitato la facoltà d'impugnazione alle sole sentenze di proscioglimento (o di condanna) per i reati di ingiuria e diffamazione; da un altro, la parte civile avrebbe avuto la possibilità d'impugnare le sentenze pronunciate dal Giudice per le indagini preliminari solo ai sensi del terzo comma dell'articolo 428 del codice di procedura penale, e cioé ricorrendo per cassazione nei casi di nullità previsti dall'articolo 419 del codice di rito.

La Corte bresciana, in data 27 dicembre 1991, emetteva ordinanza con la quale, in relazione agli articoli 3 e 76 della Costituzione, sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 428 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede, per la persona offesa costituita parte civile, la facoltà di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere per il reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa.

2.- A dire della Corte remittente, a seguito della declaratoria d'incostituzionalità dell'articolo 233, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), che obbligava il pubblico ministero a procedere al giudizio direttissimo anche fuori dai casi previsti dagli articoli 449 e 566 del codice di procedura penale (per i reati commessi con il mezzo della stampa e per quelli concernenti le armi e gli esplosivi), si sarebbe venuta a determinare una violazione dell'articolo 76 della Costituzione per la mancata attuazione della direttiva numero 85 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, con la sua "previsione dell'impugnabilità delle sentenze di condanna o proscioglimento per l'imputazione di ingiuria o diffamazione anche da parte della parte privata".

Prima della pronuncia d'incostituzionalità della Corte n. 68 del 1991, infatti, l'impugnabilità delle sentenze in tema di diffamazione a mezzo della stampa, per la persona offesa costituita parte civile, era assicurata dal naturale esito dibattimentale delle decisioni (sentenza di proscioglimento o di condanna) imposto dal rito direttissimo, obbligatorio ai sensi dell'articolo 233, secondo comma, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. Essendo stata dichiarata illegittima tale norma, ne é conseguita la possibilità di decisioni diverse, quale quella di non luogo a procedere resa all'esito dell'udienza preliminare, non suscettibili della facoltà d'impugnativa dalla parte privata.

E, invece, secondo la Corte bresciana, la direttiva n. 85 della legge di delega avrebbe chiaramente espresso l'intenzione di concedere alla persona offesa costituita nel processo la più ampia facoltà d'impugnazione. Di qui, la censura di sostanziale violazione dei criteri direttivi e dei fini della delega e, pertanto, dell'articolo 76 della Costituzione, secondo l'indirizzo coerente della Corte costituzionale (sentenze nn. 218 del 1987 e 41 del 1975).

3.- La seconda censura formulata dalla Corte remittente vuole rilevare un doppio contrasto con l'articolo 3 della Costituzione.

Secondo un primo profilo si sottoporrebbero irragionevolmente a disparità di trattamento situazioni uguali, certamente, quali sono quelle della parte civile posta di fronte a una sentenza di proscioglimento o a una sentenza di non luogo a procedere, entrambe emesse nel corso di un procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa (rispettivamente dal Tribunale, all'esito del dibattimento, ovvero dal Giudice per le indagini preliminari, a conclusione dell'udienza preliminare). La disparità irragionevole si espliciterebbe nella facoltà di appello anche agli effetti penali accordata alla persona offesa (costituita parte civile) solo con riguardo alla sentenza di proscioglimento resa nella fase dibattimentale.

Sotto un secondo profilo si lamenta la irragionevole disparità di trattamento della medesima parte privata a seconda che la diffamazione sia stata commessa o meno con il mezzo della stampa. In quest'ultimo caso, infatti, essendo il reato di competenza del Pretore, avanti al quale manca il filtro dell'udienza preliminare, si darebbe sempre alla parte la possibilità di appellare l'esito assolutorio. Al contrario, per il più grave reato di diffamazione a mezzo stampa (assai più dannoso per la persona offesa, considerata la potenza dello strumento dato, per la cui cognizione é competente il Tribunale), tale completa estensione verrebbe ad essere limitata dalla non impugnabilità della sentenza emessa all'esito dell'udienza preliminare, fatta salva la ricorribilità in Cassazione per limitatissimi casi.

4.- A intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, con atto d'intervento con il quale ha chiesto la declaratoria d'infondatezza.

La questione sarebbe innanzitutto infondata in relazione alla pretesa violazione dell'articolo 76 della Costituzione, atteso che la legge delega ha espressamente Previsto la facoltà d'impugnazione per le sole sentenze di proscioglimento. Tali tipi di sentenze sono, dal legislatore delegante, tenute ben distinte da quelle di non luogo a procedere rese all'esito dell'udienza preliminare, com'é dimostrato dal linguaggio adottato dalla legge nelle direttiva numero 52 e 55.

Ma lo sarebbe ancor più con riferimento alla pretesa violazione del principio di uguaglianza.

Il remittente, ponendo sullo stesso piano (e sostanzialmente assimilando) la sentenza di non luogo a procedere, resa in esito all'udienza preliminare, e la sentenza di proscioglimento, emanata in esito al dibattimento, cercherebbe di assicurare alla persona offesa dal reato quella tutela eccezionale, e derogatoria dei princípi generali, anche con riferimento al primo tipo di pronuncia. Ma la disposizione, contenuta nell'articolo 577 del codice di procedura penale, non potrebbe estendersi pure alle pronunce rese all'esito dell'udienza preliminare, perchè, da un lato, esse sono fondate sul principio della "evidenza probatoria" (che non vale invece per la fase dibattimentale) e, da un altro, perchè l'art. 428, sesto comma, del codice dì procedura penale, nel consentire l'impugnazione contro la sentenza di non luogo a procedere, ne limiterebbe fortemente l'effetto devolutivo consentendo, in caso di accoglimento, la sola emissione del decreto che dispone il giudizio.

Le esigenze, sottoposte dalla Corte remittente di dar luogo a quella più ampia tutela del patrimonio morale della persona offesa, posta a base della stessa direttiva n. 85 della legge delega, sarebbero comunque soddisfatte, per la fase conclusiva dell'udienza preliminare, dal diritto d'impugnazione del pubblico ministero, previsto in linea generale dal codice di rito penale.

Considerato in diritto

l. -La Corte d'appello di Brescia dubita, in relazione agli articoli 3 e 76 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'articolo 428 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, per la persona offesa costituita parte civile, la facoltà di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere per il reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa.

Con riferimento al primo parametro si sottolinea l'irragionevole disparità di trattamento tra la parte civile che intende (ma non può) impugnare una sentenza di non luogo a procedere e l'altra che vuole (e può) gravare una decisione di proscioglimento nonchè tra le stesse parti a seconda che il procedimento abbia luogo avanti al Pretore (ove manca la pronuncia del primo tipo e l'impugnativa è sempre consentita) oppure davanti al Tribunale (dove la duplicità delle pronunce è conseguenza necessaria del passaggio attraverso la fase dell'udienza preliminare e per queste ultime l'impugnativa non è possibile).

Con riferimento al secondo parametro si lamenta la mancata attuazione della direttiva n. 85 della legge-delega.

2. - Le doglianze sono infondate.

Il quadro di partenza, anche perchè espressamente richiamato dal giudice a quo con riferimento alla seconda delle due norme costituzionali che si assumono violate, dev'essere costruito attraverso le previsioni della legge 16 febbraio 1987, n. 81, contenente la delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale.

Nell'economia della questione sottoposta alla Corte, come sopra delineata, ci si può limitare alle seguenti previsioni:

a) ambito del giudizio direttissimo riservato alle sole ipotesi previste dalle lettere a), b) e c) della direttiva n. 43, non inclusivo di alcuna specifica figura di reato, ma solo di un dettato di tipo generale, facente riferimento alle situazioni della flagranza e della confessione;

b) potere-dovere del giudice delle indagini preliminari di pronunciare sentenza di non luogo a procedere allo stato degli atti (se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l'azione penale non poteva essere iniziata o proseguita o se il fatto non è previsto dalla legge come reato o risulti evidente che il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso) o di disporre il rinvio a giudizio (direttiva n. 52);

c) generale impugnabilità delle sentenze di non luogo a procedere (direttiva n. 55);

d) esclusione dell'udienza preliminare nella disciplina del processo davanti al pretore (direttiva n. 103);

e) generale proponibilità delle impugnazioni dalla parte civile ai fini della tutela dei suoi interessi (civili) ma facoltà per la stessa e per la persona offesa dal reato di chiedere al pubblico ministero, con istanza motivata, l'impugnazione agli effetti penali (direttiva n. 87);

g) impugnabilità delle sentenze di condanna o <proscioglimento> per l'imputazione di ingiuria o diffamazione <anche da parte della parte privata> (direttiva n. 85).

II quadro della delega è dunque mancante d'una previsione di giudizio direttissimo obbligatorio per determinate ipotesi di reato, quali quelle (concernenti le armi e gli esplosivi o il mezzo della stampa) stabilite nel cennato art. 233, secondo comma, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, emanate con il decreto legislativo del 28 luglio 1989, n. 27l. L'avere questa Corte dichiarato, con la sentenza n. 68 del 1991, l'illegittimità costituzionale dell'art.233, secondo comma, delle predette norme di attuazione, non ha determinato alcuna alterazione del quadro della delega, ma solo consentito che emergesse il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma impugnata dalla Corte d'appello di Brescia.

Quale conseguenza di quella declaratoria d'incostituzionalità, infatti, si è venuta a creare un'area di decisioni che sfugge al potere d'impugnativa della persona offesa costituita parte civile: quelle di non luogo a procedere per il delitto di diffamazione commesso con il mezzo della stampa. Prima della pronuncia n. 68 del 1991 le decisioni relative ai procedimenti d'ingiuria e diffamazione erano sempre impugnabili dalla parte privata sia che fossero di competenza pretorile (per la mancanza della fase dell'udienza preliminare e delle conseguenti decisioni di non luogo a procedere); sia che fossero di competenza del tribunale (per l'obbligatorietà del giudizio direttissimo previsto in ordine ai reati commessi con il mezzo della stampa, con i suoi esiti di proscioglimento o di condanna). Essendo venuta meno l'obbligatorietà di tale ultima forma procedimentale, a seguito della sentenza n. 68 del 1991, si è posto, da un lato, il problema della conformità alla delega del mutato quadro codicistico e, da un altro, quello della ragionevolezza della non impugnabilità delle decisioni di non luogo a procedere relative ai processi di diffamazione.

3.-La direttiva n. 85, contenuta nella legge-delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, non prevista nel testo originario, nacque da un emendamento di alcuni giuristi parlamentari e venne approvata non senza discussioni.

L'innovazione, secondo i suoi sostenitori, tendeva a garantire la persona offesa da due inconvenienti che, di frequente, venivano riscontrati nei processi di diffamazione: il facile rovesciamento delle posizioni tra l'offeso e l'imputato con potenziale scambio delle accuse rilanciate dal secondo contro il primo; la facilità con la quale i contenuti della motivazione delle sentenze potevano allontanarsi, talvolta in modo imprevedibile, dalle statuizioni contenute nel dispositivo. E ciò sulla base della comune convinzione che i beni giuridici dell'onore, della dignità e del valore della persona sono facilmente comprimibili e abbisognano di particolari cautele e protezioni quando sono coinvolti espressamente nel processo.

II legislatore delegante ha perciò ritagliato all'accusa privata un ruolo dichiaratamente eccezionale, legato ai peculiari processi per i reati di ingiuria e diffamazione e limitatamente alla possibilità dell'impugnativa, senza un particolare accrescimento dei poteri che la persona offesa e la parte civile hanno già nel normale quadro del processo di primo grado.

Se di norma la persona offesa dal reato ha solo il potere di chiedere al pubblico ministero, con istanza motivata, l'impugnazione agli effetti penali (direttiva n. 87), in questo caso le si è attribuito il diritto d'impugnare direttamente le sentenze ad essa non favorevoli (direttiva n. 85).

4. - Che però il potere d'impugnativa debba restare strettamente circoscritto alle sole sentenze di <condanna e di proscioglimento> in senso stretto, vale a dire, per quel che attiene a questa seconda categoria, alle sentenze che il capo II, sezione I, del III titolo del settimo libro del codice di procedura penale divide in sentenze <di non doversi procedere> (art. 529) e sentenze <di assoluzione> (art. 530), emerge dalle seguenti considerazioni .

Innanzitutto va rilevato che, nella legge-delega, la previsione della generale impugnabilità delle sentenze di non luogo a procedere trova il suo posto subito dopo la disciplina dell'udienza preliminare (direttive nn.52-55), mentre, invece, la previsione dell'impugnabilità delle <sentenze di condanna o proscioglimento per l'imputazione di ingiuria e diffamazione> trova posto solo dopo la disciplina del giudizio (direttive nn. 66- 82), il che rende già chiaro il collegamento tra la facoltà d'impugnativa e gli epiloghi decisori del giudizio. A tanto si aggiunga che l'alternativa, posta dalla norma, tra provvedimento terminativo di condanna e provvedimento terminativo di proscioglimento colloca i due (tipi di) esiti decisori sullo stesso piano logico, sottolineando la struttura cognitiva del merito del processo.

Non è dunque un caso che, lessicalmente, per tali esiti decisori venga usata la formula <di non doversi procedere> volutamente diversa da quella di <non luogo a procedere>, utilizzabile all'esito dell'udienza preliminare. La legge di delega ricorre, significativamente, alla diversa espressione di <proscioglimento> (comprensiva degli esiti di assoluzione e <di non doversi procedere>) quando, in materia d'impugnazioni, deve indicare una conclusione opposta a quella di condanna all'esito del giudizio (è il caso, ad esempio, della direttiva n. 86).

Nessuna violazione, dunque, della legge di delega.

5.-Ma neppure violazione del richiamato principio di uguaglianza.

É proprio infatti la diversità della fase dell'udienza preliminare rispetto a quella del giudizio, caratterizzata, la prima, da decisioni basate su una regola di tipo processuale (e non sostanziale), che giustifica e rende non arbitraria la scelta del legislatore di limitare il potere d'impugnativa della parte privata, nei processi per reati di ingiuria e diffamazione, alle sole sentenze di condanna e proscioglimento. Ciò rende giustizia, automaticamente, della pro spettata eccezione per la parte riguardante la diversità di regime tra i due tipi di pronunce terminative, emesse nelle due diverse fasi processuali, quand'anche in relazione allo stesso tipo di reato. La decisione che, unica nel tipo, è pronunciabile all'esito dell'udienza preliminare risponde, infatti, a criteri processuali e si basa esclusivamente sull'evidenza probatoria, prescindendo dal compiuto esame del merito dell'ipotesi accusatoria, che si porrebbe in antinomia con le funzioni che il legislatore ha inteso assegnare a quell'udienza.

Ma pure quando si chieda di considerare la diversità di trattamento che obiettivamente ricevono le dette pronunce, nei procedimenti di diffamazione e ingiuria di competenza pretorile (dove, per la mancanza dell'udienza preliminare, si emettono soltanto quelle di proscioglimento) rispetto a quelli aggravati e pertanto di competenza del tribunale (dove, accanto al proscioglimento all'esito del giudizio vi è anche la possibilità di pronunce di non luogo a procedere), la doglianza mostra, del pari, la sua infondatezza.

Infatti, nei procedimenti di competenza pretorile l'assenza di un'area di decisioni che sfugga (come invece accade per il Tribunale) al potere d'impugnativa della parte privata non è un privilegio che il legislatore ha accordato agli imputati delle diffamazioni meno gravi rispetto a quelle commesse con il mezzo della stampa, ma solo una conseguenza del diverso tipo di procedimento che, per quello pretorile, disegnato con maggior snellezza di forme in considerazione sia del numero che della minor gravità dei reati, consente la citazione dell'imputato in pubblica udienza senza passare attraverso il filtro dell'udienza preliminare.

Anche sotto questo profilo la questione è infondata, rispondendo la diversità dell'iter processuale a una scelta discrezionale, ma non arbitraria, del legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 428 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 76 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Brescia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/07/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 29/07/92.