SENTENZA N. 2
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE SIERVO ”
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituiti dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 21 marzo 2006 dal Tribunale di Perugia, del 27 aprile 2006 dal Tribunale di Reggio Emilia, del 6 settembre 2006 dalla Corte di cassazione e del 14 febbraio 2007 dal Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, rispettivamente iscritte ai nn. 415 e 436 del registro ordinanze del 2006 ed ai nn. 112 e 399 del registro ordinanze del 2007, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2006, edizione straordinaria del 2 novembre 2006, e nn. 12 e 22, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto1. – Il Tribunale di Perugia in composizione monocratica, con ordinanza del 21 marzo 2006 (r.o. n. 415 del 2006), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione, previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applichi anche agli ulteriori reati di competenza del giudice di pace.
Il rimettente illustra come si proceda, nel giudizio principale, per reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, commessi in epoca antecedente all’entrata in vigore del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), e dunque rimessi, secondo la disciplina transitoria dello stesso d.lgs. n. 274 del 2000, alla cognizione del tribunale in composizione monocratica. Per i reati in questione sono peraltro già applicabili, in forza della citata disciplina transitoria (artt. 63 e 64), le «nuove» sanzioni introdotte con riguardo, appunto, agli illeciti penali attribuiti alla competenza del giudice di pace. Nel caso di specie – secondo l’ulteriore premessa del Tribunale – la dichiarazione di apertura del dibattimento è intervenuta dopo l’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione, se più favorevole, la nuova disciplina dei termini prescrizionali (comma 3 dell’art. 10 della stessa legge n. 251 del 2005).
Il giudice a quo ritiene che il termine triennale previsto dal testo riformato del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. – che si riferisce ai reati per i quali «la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria» – riguardi proprio gli illeciti attribuiti alla competenza del giudice di pace, se punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità (sanzioni cosiddette «para-detentive», in quanto né detentive né pecuniarie). Infatti, ove diversamente intesa, «la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento».
Il Tribunale assume, in particolare, che dovrebbe farsi applicazione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. anche nei casi in cui la sanzione «para-detentiva» sia prevista in alternativa a quella pecuniaria: il fatto che in concreto il giudice possa irrogare solo la seconda non esclude infatti, a parere del rimettente, che la previsione edittale investa anche la sanzione «diversa», e che valga pertanto il termine prescrizionale di tre anni, in luogo di quello più lungo che il primo comma dello stesso art. 157 cod. pen. prevede per i reati puniti con pene detentive o con la sola pena pecuniaria.
Tutto ciò premesso, il giudice a quo rileva che la disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace sarebbe «platealmente irragionevole». Infatti, per i fatti puniti unicamente con la sanzione pecuniaria, il termine sarebbe pari a quattro anni o a sei anni (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sarebbero suscettibili di estinzione nell’arco di un triennio. Ciò in specifico contrasto con l’aspettativa di un «oblio sociale dell’illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell’offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità.
Il Tribunale pone in rilievo come la denunciata anomalia si riscontri anche per sequenze di progressione nell’offesa ad un medesimo bene: nel caso di percosse senza lesioni – fatto punibile a norma dell’art. 581 cod. pen. con la sola pena pecuniaria – il reato si prescrive in sei anni, mentre, se le stesse percosse provocassero lievi lesioni personali (punibili anche con la permanenza domiciliare, o con il lavoro di pubblica utilità, a norma dell’art. 582 cod. pen.), il termine per l’estinzione del reato sarebbe ridotto a tre anni.
Secondo il giudice a quo, l’irrazionalità della disciplina dovrebbe essere eliminata attraverso una parificazione dei termini prescrizionali per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, in particolare estendendo a tutti la previsione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. L’allineamento del termine sui valori più elevati sarebbe infatti precluso dall’inammissibilità di interventi manipolativi in malam partem, trattandosi nella specie di materia interessata da riserva di legge. Una prescrizione particolarmente sollecita, d’altra parte, sarebbe congrua con quella connotazione di «diritto mite» che segnerebbe, appunto, la giurisdizione penale di pace.
Il Tribunale illustra, da ultimo, la rilevanza della questione nella fattispecie sottoposta al suo giudizio. All’imputato è ascritto un reato di lesioni personali per il quale, essendo comminata anche la sanzione «para-detentiva», dovrebbe pervenirsi ad una sentenza dichiarativa dell’intervenuta prescrizione. Gli ulteriori reati contestati (minaccia ed ingiuria), puniti con la sola pena della multa, non sarebbero invece ancora prescritti, pur presentando rilievo minore. L’invocata pronuncia di illegittimità del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. implicherebbe che anche i fatti meno gravi, tra quelli ascritti all’imputato, resterebbero esenti da pena per la sopravvenuta prescrizione.
1.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 13 novembre 2006.
Secondo la difesa erariale, la questione proposta è «inammissibile e infondata», pur prescindendo «dall’irrilevanza in questo stato del procedimento […] posto che il procedimento non si trova avanti il giudice competente e posto che non viene concretamente in discussione l’entità della effettiva pena e la sua applicabilità».
Il rimettente – a giudizio dell’Avvocatura generale – muoverebbe da una soluzione interpretativa non ineluttabile, e cioè che i reati di competenza del giudice di pace, quando puniti con la sola pena pecuniaria, si prescrivano nei termini indicati al primo comma dell’art. 157 cod. pen. Al contrario, anche in chiave di interpretazione «adeguatrice», dovrebbe ritenersi che la norma appena citata non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice di pace, e che anche i reati sanzionati con tali pene ricadano, di conseguenza, nella previsione del quinto comma del citato art. 157.
A sostegno del proprio assunto, la difesa erariale osserva come il legislatore, fin dall’approvazione della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell'articolo 593 del codice di procedura penale), abbia inteso creare per la giustizia penale di pace un «microsistema sanzionatorio», con caratteristiche di forte peculiarità. Da questa scelta sarebbe scaturito il sostanziale superamento della distinzione tra delitti e contravvenzioni, ed avrebbe preso vita un sistema di pene principali (sanzione pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità) con un autonomo regime di applicazione nella fase cognitiva come in quella dell’esecuzione. Per i reati trasferiti alla cognizione del giudice di pace, il legislatore non avrebbe semplicemente previsto un meccanismo di sostituzione delle sanzioni, ma avrebbe operato una novazione delle disposizioni sanzionatorie per ciascuna delle fattispecie incriminatrici interessate. Dunque la pena pecuniaria inflitta dal giudice di pace non consisterebbe in una multa o in un’ammenda, quanto piuttosto in un novum, ancora non collocato come tale in norme di carattere generale ma non per questo meno originale rispetto alle sanzioni regolate dal codice penale.
A conferma dell’assunto, tra l’altro, il rilievo che, in caso di omissione del pagamento, non si dà luogo alla conversione nelle pene della libertà controllata o del lavoro sostitutivo – secondo quanto disposto per la multa e per l’ammenda dal combinato disposto dell’art. 136 cod. pen. e dell’art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ed opera invece un autonomo meccanismo di conversione, che investe le sanzioni «para-detentive» applicabili dallo stesso giudice di pace (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000). La circostanza che la sanzione pecuniaria inflitta dal magistrato di pace non possa mai dar luogo all’esecuzione di pene detentive dimostrerebbe, a parere dell’Avvocatura, la sua sostanziale estraneità alla «previsione unificante» dell’art. 17 cod. pen.
Sarebbe significativa, nella prospettazione della difesa erariale, anche la previsione che, ricorrendo determinate aggravanti per alcuni reati, la competenza del giudice di pace venga meno e restino applicabili, correlativamente, le sanzioni «ordinarie» già comminate dalla legge (comma 3 dell’art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000).
In definitiva, il primo comma dell’art. 157 cod. pen. farebbe «riferimento ai soli reati che sono devoluti alla competenza del giudice ordinario, per i quali rimane ferma la distinzione fra delitti e contravvenzioni e fra pene detentive e pene pecuniarie di cui al combinato disposto degli artt. 17 e 29 cod. pen.». Per converso, riferendosi a reati puniti con pene diverse da quella detentiva o pecuniaria, il quinto comma del citato art. 157 comprenderebbe «tutti i reati per i quali il legislatore ha previsto un sistema sanzionatorio del tutto autonomo rispetto a quello previsto dal codice penale, dovendosi ritenere del tutto irrilevante il ricorso ad una terminologia simile, come nel caso della pena pecuniaria».
2. – Il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica, con ordinanza del 27 aprile 2006 (r.o. n. 436 del 2006), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria.
Il rimettente, che procede per i reati di ingiuria e minaccia, chiarisce che la propria competenza è radicata dalla disciplina transitoria di cui all’art. 64 del d.lgs. n. 274 del 2000 (la quale prevede, in combinazione con il successivo art. 65, che i reati trasferiti alla competenza del giudice di pace siano conosciuti dal giudice ordinario se commessi prima del 2 gennaio 2002, data di entrata in vigore del citato decreto legislativo). Sempre a titolo di premessa, poi, il Tribunale illustra alcuni enunciati a carattere interpretativo.
Le sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità sarebbero comprese nella previsione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen., in quanto diverse da quelle detentive e da quelle pecuniarie. Risulterebbe irrilevante, a tale proposito, l’eventuale previsione cumulativa o alternativa di pene pecuniarie, dato che il quarto comma dello stesso art. 157 dispone in tal senso con norma a carattere generale.
Neppure potrebbe essere proposta, a parere del rimettente, una assimilazione delle pene «para-detentive» a quelle detentive, con conseguente inapplicabilità del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. Il primo comma dell’art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, in effetti, dispone che «per ogni effetto giuridico la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria». Tuttavia, nel testo attualmente vigente, il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. dovrebbe qualificarsi come legge posteriore e speciale rispetto alla norma appena evocata, prevalendo su di essa e stabilendo di conseguenza, per i più gravi tra i reati assegnati alla competenza del giudice di pace, un termine di prescrizione triennale. Una diversa soluzione, capace di sottrarre i reati di competenza del giudice di pace alla nuova disposizione in tema di prescrizione, varrebbe ad escludere per la stessa ogni ambito di concreta applicazione, e potrebbe essere adottata solo a fronte di segnali ermeneutici insuperabili, che nella specie farebbero difetto.
Per i fatti più gravi, tra quelli rimessi alla cognizione del magistrato onorario, il termine prescrizionale sarebbe dunque pari a tre anni. La soluzione opposta si imporrebbe, in modo altrettanto ineluttabile, quanto ai reati puniti con la sola pena pecuniaria, riconducibili alla previsione del primo comma dell’art. 157 cod. pen. e dunque suscettibili di prescrizione in un tempo pari almeno a quattro anni.
Una tale disciplina, per la sua palese irrazionalità, violerebbe l’art. 3 Cost. Prosegue allora il Tribunale: «se è vero […] che la Corte costituzionale non può sostituirsi al legislatore e alla sua discrezionalità nell’individuare il congruo termine di prescrizione per tale tipologia di reati, è pur vero che, per ricondurre il sistema a un minimo di razionalità – che consenta di ritenere rispettato il principio di uguaglianza – è sufficiente che il termine di prescrizione per i reati puniti con la sola pena pecuniaria di competenza del giudice di pace sia non maggiore di quello previsto per gli altri e più gravi reati rientranti nella medesima competenza».
In punto di rilevanza, il rimettente osserva che solo l’eventuale dichiarazione di illegittimità della norma censurata, nel senso auspicato nell’ordinanza di rimessione, comporterebbe un immediato effetto estintivo per i reati contestati nel giudizio a quo.
2.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 21 novembre 2006.
A parere della difesa erariale, la questione proposta è «inammissibile e infondata», pur prescindendo «dall’irrilevanza in questo stato del procedimento della questione posto che nel procedimento non viene concretamente in discussione l’entità della effettiva pena e la sua applicabilità».
Dovrebbe infatti ritenersi che il primo comma dell’art. 157 cod. pen., a differenza di quanto sostenuto dal rimettente, non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice di pace, e che, di conseguenza, anche i reati sanzionati con tali pene ricadano nella previsione del quinto comma dello stesso art. 157. A sostegno dell’assunto vengono proposti rilievi essenzialmente coincidenti con quelli illustrati nell’atto di intervento prodotto per il giudizio r.o. n. 415 del 2006, cui già sopra si è fatto riferimento.
3. – La Corte di cassazione, sezione feriale, con ordinanza del 6 settembre 2006 (r.o. n. 112 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria.
Il giudizio principale è stato introdotto dal ricorso proposto contro una decisione di merito con la quale è stata dichiarata, in applicazione della norma censurata, l’intervenuta prescrizione dei reati di ingiuria e minaccia. Secondo il pubblico ministero ricorrente, per evitare il paradosso di un termine prescrizionale particolarmente breve proprio per i più gravi tra i reati di competenza del giudice di pace, dovrebbe per essi ritenersi applicabile la disposizione del primo comma dell’art. 157 cod. pen.
Il giudice a quo non ritiene esistano margini per una interpretazione «adeguatrice», che escluda i reati punibili con la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità dall’ambito di applicazione della norma censurata. L’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 istituirebbe una sorta di summa divisio tra i reati già puniti con la multa e l’ammenda, per i quali continuano ad applicarsi le pene previgenti, e gli ulteriori reati trasferiti alla competenza del giudice di pace, per i quali soltanto sono state introdotte, appunto, pene diverse in luogo di quelle detentive. D’altro canto la disposizione del successivo art. 58, secondo cui le sanzioni di nuova introduzione «per ogni effetto giuridico si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria», sarebbe destinata ad operare in sede «squisitamente applicativa», e non sul piano edittale.
Non a caso, si osserva dalla Corte rimettente, in epoca antecedente alla riforma dell’art. 157 cod. pen. la giurisprudenza aveva più volte stabilito che, per i reati di competenza del giudice di pace puniti in via alternativa con la pena pecuniaria o quella «paradetentiva», dovesse applicarsi il termine prescrizionale previsto dal quinto comma della norma, che all’epoca riguardava le contravvenzioni punite con la pena dell’arresto.
In definitiva, l’attuale disciplina collegherebbe ai reati più gravi, tra quelli attribuiti alla cognizione del magistrato onorario, un termine prescrizionale più breve di quello previsto per i fatti meno gravi. Si tratterebbe di una scelta priva di razionalità intrinseca e tale da vulnerare, nel contempo, il principio di ragionevolezza ed il canone della uguaglianza, presidiati dall’art. 3 Cost. L’aporia introdotta nel sistema non sarebbe sorretta da alcun «valore, esigenza o ratio essendi intrinseca alla intera disciplina che il legislatore ha inteso novellare». Proprio l’assenza di «causa» renderebbe «irragionevole», e per ciò stesso arbitraria, la scelta di un regime che necessariamente finisce per omologare tra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe (è citata qui la sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 1996).
In base a tali premesse la Corte di cassazione manifesta il dubbio che il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. sia illegittimo nella parte in cui prevede che, quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applichi il termine prescrizionale di tre anni.
Da ultimo il rimettente – riferendosi alle date del commesso reato e della sentenza dichiarativa della prescrizione, separate da un lasso di tempo inferiore ai sei anni – evidenzia come la questione sia rilevante nel giudizio a quo.
3.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 5 aprile 2007.
Secondo la difesa erariale, la questione proposta è «inammissibile e infondata». Dovrebbe infatti ritenersi che il primo comma dell’art. 157 cod. pen., a differenza di quanto sostenuto dal rimettente, non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice di pace, e che, di conseguenza, anche i reati sanzionati con tali pene ricadano nella previsione del quinto comma dello stesso art. 157. A sostegno dell’assunto vengono proposti rilievi essenzialmente coincidenti con quelli illustrati nell’atto di intervento prodotto per il giudizio r.o. n. 415 del 2006, cui già sopra si è fatto riferimento.
4. – Il Tribunale di Grosseto in composizione monocratica, con ordinanza del 14 febbraio 2007 (r.o. n. 399 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria.
Nel giudizio principale si procede per il reato di cui al primo comma dell’art. 612 cod. pen. (minaccia non aggravata), rimesso alla competenza del giudice di pace (anche se giudicato dal tribunale per effetto delle disposizioni transitorie concernenti i fatti antecedenti all’entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000).
Il rimettente osserva che, per i delitti attribuiti alla cognizione del magistrato onorario e puniti con la sola pena pecuniaria, il primo comma dell’art. 157 cod. pen. prevede un termine prescrizionale di sei anni, mentre lo stesso termine sarebbe pari a tre anni, in applicazione del successivo quinto comma, per i reati puniti anche mediante la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità. Le sanzioni citate da ultimo, infatti, sono «diverse» da quelle detentive e da quelle pecuniarie. In nulla rileverebbe, d’altra parte, l’equiparazione di effetti giuridici stabilita dal primo comma dell’art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000: a parte il rilievo che ogni «equiparazione» marca la differenza fra gli elementi posti a raffronto, la norma in questione presenterebbe natura «generale e suppletiva», e dunque troverebbe applicazione solo in assenza di una disciplina espressa, dovendo invece soccombere di fronte alla previsione del nuovo quinto comma dell’art. 157 cod. pen., definito quale «norma speciale prevalente» per quanto concerne il regime della prescrizione.
La disposizione dettata per le «pene diverse», secondo il rimettente, sarebbe priva di significato applicativo se non riferita, appunto, ai reati di competenza del giudice di pace. D’altronde la legge differenzia sotto molti profili gli «effetti giuridici» della pena detentiva e quelli delle sanzioni «para-detentive», escludendo ad esempio la sussistenza del delitto di evasione in caso di violazione delle prescrizioni inerenti alla permanenza domiciliare (art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000), o precludendo la sospensione condizionale per l’esecuzione delle pene inflitte dal giudice di pace (art. 60 dello stesso d.lgs.).
L’applicazione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. non potrebbe neppure essere esclusa, secondo il giudice a quo, sul presupposto che le sanzioni «para-detentive» sarebbero sempre irrogabili in alternativa a quelle pecuniarie, per le quali è previsto un più lungo termine prescrizionale. Nei casi di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale, a norma del comma 3 dell’art. 52 del d.lgs. n. 274, sono infatti applicabili le sole pene «para-detentive». Se è vero che la disposizione può essere superata, agli effetti del trattamento sanzionatorio, mediante il giudizio di comparazione con attenuanti, va considerato, a parere del rimettente, che il concorso dell’aggravante con circostanze di segno opposto è irrilevante nel computo dei termini prescrizionali (terzo comma dell’art. 157 cod. pen.).
A parere del Tribunale, la constatazione evidenzia nella massima misura l’irrazionalità del sistema, coinvolgendo reati particolarmente gravi, anche nei profili inerenti alla persona del colpevole, in una previsione di termini prescrizionali ben più favorevole di quella concernente i reati di gravità più ridotta.
Il rimettente non ignora come la Corte di cassazione, muovendo dal medesimo presupposto interpretativo, abbia ritenuto che l’aporia del sistema debba essere emendata espungendo la disposizione sul termine prescrizionale più breve (è richiamata espressamente l’ordinanza r.o. n. 112 del 2007). Egli ritiene però che due considerazioni impongano, al contrario, l’estensione di tale termine a tutti i reati di competenza del giudice di pace. In primo luogo, infatti, una manipolazione che implicasse un effetto peggiorativo violerebbe la riserva di legge in materia penale. D’altra parte una soluzione che estendesse i termini brevi sarebbe ben più congrua, per gli illeciti in questione, di quella che li parificasse ai termini previsti per i reati di competenza del giudice professionale. Non solo, infatti, i reati attribuiti alla cognizione del magistrato onorario sono generalmente meno gravi degli altri. La prescrizione più veloce corrisponderebbe anche alla più breve durata delle indagini preliminari, ed alla generale snellezza delle forme e degli adempimenti che caratterizzano il procedimento innanzi al giudice di pace.
Di qui l’opinione del rimettente che la censura non debba riguardare il quinto comma dell’art. 157 cod. pen., bensì il primo, nella parte in cui non prevede che, per i reati puniti con sanzione pecuniaria e rimessi alla competenza del magistrato onorario, il termine prescrizionale sia pari a tre anni (sia identico, cioè, a quello previsto dal quinto comma per gli ulteriori reati di analoga competenza).
Ad avviso del Tribunale lo stesso risultato non potrebbe essere raggiunto con una «interpretazione adeguatrice», che estenda analogicamente il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. ai reati puniti con sanzione pecuniaria, se attribuiti alla cognizione del giudice di pace. L’analogia presuppone che la materia da regolare sia priva di specifica disciplina, mentre il primo comma dell’art. 157 cod. pen. contiene una disposizione direttamente e chiaramente riferibile ai reati in questione.
4.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 giugno 2007.
Secondo la difesa erariale, la questione proposta è infondata. Dovrebbe ritenersi, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, che il primo comma dell’art. 157 cod. pen. non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice di pace, e che anche i reati sanzionati con tali pene ricadano, di conseguenza, nella previsione del quinto comma dello stesso art. 157. A sostegno dell’assunto vengono proposti rilievi essenzialmente coincidenti con quelli illustrati nell’atto di intervento prodotto per il giudizio r.o. n. 415 del 2006, cui già sopra si è fatto riferimento.
Considerato in diritto1. – Il Tribunale di Perugia dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione, previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applichi anche a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace.
Il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. è oggetto di censura, sempre in rapporto all’art. 3 Cost., anche da parte della Corte di cassazione, in quanto prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, così sottraendo alla disciplina generale, che configura termini più lunghi, una parte soltanto dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, e segnatamente i più gravi.
I Tribunali di Reggio Emilia e Grosseto dubitano della legittimità costituzionale del primo comma dell’art. 157 cod. pen., come a sua volta sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, poiché la norma, in asserito contrasto con l’art. 3 Cost., assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in essa previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria.
2. – Tutte le questioni sollevate, sebbene riferite in parte a norme diverse, e per quanto segnate da sostanziali differenze nel petitum, sono riconducibili allo stesso oggetto, cioè al regime dei termini prescrizionali scaturito dalla riforma dell’art. 157 cod. pen. per ciò che concerne i reati di competenza del giudice di pace. I relativi giudizi, dunque, possono essere trattati congiuntamente.
3. – Preliminarmente devono essere disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa erariale. La rilevanza della questione nei rispettivi giudizi a quibus è plausibilmente motivata nelle ordinanze di rimessione, sia con riferimento alla competenza dei giudici rimettenti, radicata in base alla disciplina transitoria per i fatti anteriori all’entrata in vigore del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999 n. 468), sia con riguardo all’immediata efficacia delle previsioni sanzionatorie di cui all’art. 52 dello stesso decreto legislativo, dalla quale discende la necessità di applicare, in ipotesi, la normativa concernente la prescrizione dei reati puniti con pene diverse da quelle detentive o pecuniarie.
4. – Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione e dai Tribunali di Perugia, Reggio Emilia e Grosseto non sono fondate nei sensi di seguito specificati.
4.1. – Il dubbio di costituzionalità sottoposto dai rimettenti a questa Corte nasce dalla ritenuta irragionevolezza della disciplina che scaturirebbe dalla formulazione dell’art. 157 cod. pen., come novellato dalla legge n. 251 del 2005: alcuni tra i reati di competenza del giudice di pace, quelli di minore gravità, in quanto puniti con la sola pena pecuniaria, si prescriverebbero in quattro o sei anni (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), in base alla previsione del primo comma dell’articolo citato, mentre gli altri, di maggiore gravità, in quanto puniti con pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, sarebbero assoggettati al più breve termine prescrizionale di tre anni, previsto dal quinto comma del medesimo articolo.
Questa Corte deve rilevare che il dubbio di cui sopra è frutto di un erroneo presupposto interpretativo.
4.2. – Il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. dispone che il termine di tre anni si applica ai reati per i quali «la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria». Nel diritto vigente le pene cosiddette «para-detentive» non sono previste dalla legge come sanzioni applicabili in via esclusiva per determinati reati, secondo la testuale dizione della norma codicistica appena richiamata, ma costituiscono l’oggetto di un’opzione che il giudice può compiere in alternativa ad altre: alla irrogazione della pena pecuniaria, secondo le prescrizioni contenute nel comma 2 dell’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000, oppure all’applicazione congiunta della sanzione detentiva e pecuniaria, come per la detenzione illegale di stupefacenti di lieve entità da parte del tossicodipendente o del consumatore (comma 5-bis dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», introdotto dall’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante «Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309», convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49).
La considerazione che precede induce a ritenere che i reati di competenza del giudice di pace, per i quali la previsione edittale concerne invariabilmente la pena pecuniaria (in alternativa alla quale può essere discrezionalmente irrogata, in alcuni casi soltanto, una pena «para-detentiva»), non costituiscono oggetto della norma di cui al quinto comma dell’art. 157 cod. pen. Né varrebbe obiettare che il comma 3 dell’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 prevede l’applicazione esclusiva ed obbligatoria delle pene «para-detentive» nei casi di recidiva reiterata infraquinquennale, giacché non si tratta di previsione legislativa corrispondente ad una o più fattispecie di reato, bensì di una disposizione particolare, legata ad una specifica condizione soggettiva e indipendente dal titolo del reato in contestazione. Tale norma non contraddice pertanto la regola generale, ancora valida nell’ordinamento vigente, secondo cui i reati di competenza del giudice di pace si contrassegnano per essere sempre punibili con la pena pecuniaria (sia pur suscettibile, in dati casi e a certe condizioni, di cedere il passo ad una sanzione «para-detentiva»).
Il quinto comma dell’art. 157 cod. pen., con la relativa previsione di un termine triennale per la prescrizione, si riferisce invece a reati che non siano puniti con una pena detentiva o pecuniaria, e quindi, in definitiva, a reati per i quali le pene «para-detentive» siano previste dalla legge in via diretta ed esclusiva.
Quanto alla recidiva reiterata infraquinquennale, sarebbe illogico ritenere che la sua ricorrenza nel caso concreto comporti, senza peraltro implicare variazioni qualitative o quantitative della previsione sanzionatoria, la configurazione di un’autonoma fattispecie di reato, caratterizzata in punto di prescrizione da un regime più mite di quello del reato semplice corrispondente.
4.3. – L’irrilevanza della previsione edittale della pena pecuniaria, a fini di applicazione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen., non potrebbe essere desunta da una pretesa eterogeneità della multa o dell’ammenda applicabili per i reati di competenza del giudice di pace rispetto ai corrispondenti modelli sanzionatori cui si riferisce l’art. 17 cod. pen. Per quanto l’istituzione della competenza penale del giudice di pace abbia segnato l’introduzione di nuove logiche sanzionatorie nel sistema penale, non può dirsi che abbia determinato la creazione di nuove specie di pena fondate sul pagamento di una somma di danaro. Basti ricordare, in proposito, come il primo comma dell’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 abbia stabilito testualmente che, per i reati trasferiti alla competenza del giudice di pace già puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda, «continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti». Dunque nessuna novazione è intervenuta, come si desume anche dal fatto che – a differenza di quanto accaduto con riguardo alle pene «para-detentive» – il legislatore non ha dovuto introdurre una disciplina di raccordo, utile per le molte previsioni che collegano conseguenze di natura sostanziale o processuale alla specie della pena comminata.
Va pure notato, per altro verso, che la lettera del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. non si riferisce alla multa ed all’ammenda, ma genericamente a «pene pecuniarie», genus al quale dovrebbe essere ricondotta, in ogni caso, la sanzione applicabile dal giudice di pace.
4.4. – L’orientamento interpretativo basato sui dati testuali trova ulteriore e decisiva conferma nell’argomento sistematico.
L’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 stabilisce che, «per ogni effetto giuridico», le pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro socialmente utile si considerano detentive cioè della specie corrispondente a quella della pena originaria. Si tratta di una norma di natura speciale, cioè appositamente dettata per i reati di competenza del giudice di pace, sorretta da una ratio unitaria e mirata ad omologare i reati in questione, quando siano per essi previste anche le pene «para-detentive», alla generalità dei reati puniti con pene detentive. Tale criterio di ragguaglio è posto senza distinzioni, per tutti i casi in cui l’applicabilità di una norma o di un istituto dipende dalla durata e dalla specie della pena.
Non è condivisibile, a tale riguardo, l’assunto di uno dei rimettenti, tendente a riferire la norma suddetta alla fase applicativa della pena, quasi che fosse estranea alla sua definizione edittale. Al contrario, è proprio il carattere alternativo delle previsioni riguardanti le pene «para-detentive» che mette in rilievo la natura edittale delle medesime. Esse non sono sostitutive, in fase di applicazione, rispetto a quelle originariamente previste, ma sono frutto di un meccanismo di conversione preventivamente e astrattamente stabilito dal legislatore. Del resto, la norma di equiparazione è destinata ad operare anche per istituti di carattere sostanziale che non riguardano la fase applicativa della sanzione, come nel caso che si debba stabilire se per un reato di competenza del giudice di pace sia ammesso o non il ricorso all’oblazione.
Il quinto comma del novellato art. 157 cod. pen. stabilisce invece un termine prescrizionale di carattere generale, che non riguarda specificamente i reati di competenza del giudice di pace né si riferisce in particolare alle pene «para-detentive». Sul piano logico-giuridico spiega dunque piena efficacia il tradizionale brocardo «lex generalis posterior non derogat priori speciali», che, pur in mancanza di una precisa copertura costituzionale (ex plurimis sentenze n. 503 del 2000 e n. 29 del 1976) e pur avendo valore non assoluto, ma di mero criterio interpretativo, destinato a cedere di fronte ad una precisa voluntas legis in senso contrario (ex plurimis, sentenze n. 58 del 1993, n. 41 del 1992 e n. 345 del 1987), esprime l’esigenza di valutare caso per caso la permanenza della ratio che ha ispirato la norma precedente e l’assenza di una chiara volontà abrogativa desumibile dalla norma successiva.
Non emergono, nel caso oggetto del presente giudizio, elementi di alcun genere per affermare che il legislatore abbia voluto allontanarsi da quel criterio di ragguaglio previsto specificamente per le ipotesi contemplate dall’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, utile a fini pratici e sistematici di raccordo del micro-sistema dei reati di competenza del giudice di pace al sistema penale complessivo.
Si deve ritenere, in definitiva, che il novellato quinto comma dell’art. 157 cod. pen. abbia inteso porre le premesse per un futuro sistema sanzionatorio caratterizzato da pene diverse da quelle detentiva e pecuniaria, non più ragguagliato, con riferimento agli effetti giuridici, a quello generale, ma munito, quanto meno ai fini della prescrizione, di una norma generale del tutto peculiare. Senza forzature interpretative, non si può ritenere che tale nuovo sistema sia stato ancora costruito, con la duplice conseguenza che la sanzione pecuniaria rimane elemento comune a tutti i reati di competenza del giudice di pace (con facoltà per lo stesso di avvalersi, in via alternativa, delle sanzioni «para-detentive»), e che i criteri di ragguaglio dettati dall’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 sono ancora operativi, poiché tale disposizione non è stata abrogata né esplicitamente né implicitamente.
4.5. – In definitiva, il regime prescrizionale dei reati di competenza del giudice di pace deve essere ricondotto all’ambito applicativo del primo comma dell’art. 157 cod. pen.. Tale conclusione, del resto, è conforme all’orientamento assunto sul tema dalla prevalente e più recente giurisprudenza di legittimità.
Il dubbio di costituzionalità espresso dai rimettenti origina, quindi, da una lettura della normativa censurata che non è necessaria alla luce dei criteri correnti dell’interpretazione.
Ne consegue che le questioni sollevate non sono fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi
dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Emilia e dal Tribunale di Grosseto, con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Perugia, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2008.