Sentenza n. 172 del 2006

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SENTENZA N. 172

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Annibale                             MARINI                                            Presidente

-  Franco                                 BILE                                                    Giudice

-  Giovanni Maria                   FLICK                                                       "

-  Francesco                            AMIRANTE                                             "

-  Ugo                                     DE SIERVO                                             "

-  Romano                              VACCARELLA                                       "

-  Paolo                                   MADDALENA                                        "

-  Alfio                                   FINOCCHIARO                                      "

-  Alfonso                               QUARANTA                                            "

-  Franco                                 GALLO                                                     "

-  Luigi                                   MAZZELLA                                             "

-  Gaetano                              SILVESTRI                                              "

-  Sabino                                 CASSESE                                                 "

-  Maria Rita                           SAULLE                                                   "

-  Giuseppe                             TESAURO                                                "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, promossi con ordinanze del 18 novembre e del 27 dicembre 2005 dal Tribunale ordinario di Parma nei procedimenti civili vertenti, rispettivamente, tra Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e H.S.B.C. Bank p.l.c., stessa Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ed altre, iscritte al n. 1 e al n. 53 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 2 e 8, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Visti gli atti di costituzione di Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, H.S.B.C. Bank p.l.c., Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Banca Toscana s.p.a., Banca popolare italiana Società Cooperativa, Bipop Carire s.p.a., Credito siciliano s.p.a., Commerzbank AG, Unicredit Banca d’Impresa s.p.a. e Unicredito Italiano s.p.a., nonché gli atti di intervento di Parmalat s.p.a., Sanpaolo-IMI s.p.a., UBS Limited e del Presidente del Consiglio dei ministri;

         uditi nell’udienza pubblica del 4 aprile 2006 i Giudici relatori Romano Vaccarella e Giuseppe Tesauro;

         uditi gli avvocati Giuseppe de’ Vergottini, Alberto Maffei Alberti, Umberto Trancanella e Giuseppe Lombardi per Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e per Parmalat s.p.a., Andrea Pisaneschi, Enrico Castellani e Marcello Clarich per H.S.B.C. Bank p.l.c., Giorgio Villani per Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Lorenzo Stanghellini e Duccio Zanchi per Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Lorenzo Stanghellini per Banca Toscana s.p.a., Piero Schlesinger e Francesco Carbonetti per Bipop Carire s.p.a., Natalino Irti e Andrea Mora per Credito siciliano s.p.a., Francesco Cerasi per la Commerzbank AG, Cristiana Maccagno Benessia e Mario Sanino per la Sanpaolo-IMI s.p.a., Piero Schlesinger e Andrea Mora per la UBS Limited e l’avvocato dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

         1. Il Tribunale ordinario di Parma, con ordinanza del 18 novembre 2005, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, e dal decreto-legge 28 febbraio 2005, n. 22 (Interventi urgenti nel settore agroalimentare), convertito, con modificazioni, nella legge 29 aprile 2005, n. 71, nella parte in cui stabilisce che le azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), possono essere proposte anche in costanza di un programma di ristrutturazione dell’impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria.

         1.1. L’ordinanza di rimessione premette che la Parmalat s.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario, adiva il Tribunale ordinario di Parma, esponendo che la società, con decreto del Ministro delle attività produttive del 24 dicembre 2003, era stata assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003 e del d.lgs. n. 270 del 1999; e che il medesimo Tribunale, con sentenza del 27 dicembre 2003, aveva dichiarato lo stato di insolvenza della società attrice, con estensione della procedura concorsuale a Parmalat Finanziaria s.p.a. ed a quasi tutte le altre società riconducibili alla famiglia Tanzi − comprese quelle operanti nel settore turistico −, alla holding Coloniale s.p.a. e ad una trentina di concessionarie di distribuzione di prodotti Parmalat.

         L’istante deduceva che il "gruppo” Parmalat aveva intrattenuto un rapporto continuativo con H.S.B.C. Bank p.l.c. (infra: HSBC), la quale aveva prestato in suo favore un’ampia gamma di servizi bancari e finanziari, e chiedeva che il Tribunale dichiarasse inefficaci, ai sensi dell’art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), le rimesse in conto corrente (per l’importo di euro 542.714,84), i pagamenti a titolo di interessi e commissioni effettuati mediante addebito sul predetto conto (per un importo di euro 90.753,91), i pagamenti a titolo di rimborso per capitale ed interessi dei finanziamenti (per l’importo di euro 1.653.109,04) eseguiti in favore della convenuta nel cosiddetto "periodo sospetto”.

         HSBC, nel costituirsi davanti al giudice a quo, deduceva l’infondatezza della domanda, sostenendo che un’interpretazione dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 conforme agli artt. 3 e 41 Cost. comporta che l’azione revocatoria sia proponibile soltanto nella fase di cessione dei beni aziendali, che, eventualmente, si apre nel caso di insuccesso della fase di risanamento. In linea gradata, la convenuta eccepiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.

         L’ordinanza di rimessione precisa, inoltre, che HSBC chiedeva che tutte le norme contenute nel decreto-legge n. 347 del 2003, o almeno il solo art. 6, fossero dichiarate incompatibili con gli artt. 87 e 88, terzo comma, o con gli artt. 3, 10 e 82 del Trattato CE.

         1.1.1.− Quanto alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata, il rimettente afferma che questa è insita «nella proposizione dell’azione revocatoria» fallimentare anche «in presenza di autorizzazione all’esecuzione del programma di ristrutturazione», ammissibile proprio in virtù della norma impugnata.

         1.1.2.− Relativamente alla non manifesta infondatezza, il Tribunale deduce che, allo scopo di accertare l’eventuale violazione del principio di eguaglianza, il quale impedisce di realizzare una diversità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche o affini, occorre individuare gli interessi sottesi alle norme poste in comparazione: una differente tutela di interessi omogenei rispetto a quelli oggetto di un’altra disposizione, in mancanza di una esigenza giustificatrice della diversità delle discipline, vulnera l’art. 3 Cost., così come nel caso in cui gli interessi sottesi alle disposizioni in comparazione non siano omogenei e, tuttavia, per le due fattispecie sia posta una identica disciplina, che non tenga conto della diversità delle situazioni.

         Secondo il rimettente, nella fattispecie in esame devono essere messi in comparazione gli artt. 6 e 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 (che riguardano la procedura di amministrazione straordinaria cosiddetta "accelerata”, introdotta da detto decreto-legge) e gli artt. 49 e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999 (che disciplina la procedura di amministrazione straordinaria "ordinaria”).

         Le procedure, come risulta dall’art. 1 del decreto-legge n. 347 del 2003 e dall’art. 2 del d.lgs. n. 270 del 1999, si differenziano per quanto attiene alle «fasi di ingresso» ed ai requisiti dimensionali concernenti il numero dei dipendenti e l’entità dei debiti, elementi la cui diversità non è sufficiente a far ritenere ragionevole la diversità delle discipline in comparazione.

         Infatti, nei casi in cui è applicabile il decreto-legge n. 347 del 2003 lo è anche il d.lgs. n. 270 del 1999 e la scelta tra le due discipline è attribuita all’imprenditore insolvente, in quanto detto decreto-legge riserva a quest’ultimo l’iniziativa per l’apertura della procedura, nell’intento di salvaguardare e perseguire con immediatezza quello stesso programma di ristrutturazione economica e finanziaria al quale il d.lgs. n. 270 del 1999 dà ingresso soltanto all’esito della fase di valutazione dell’esistenza di «concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali».

         La circostanza che il decreto-legge n. 347 del 2003 richiami il d.lgs. n. 270 del 1999 rende palese che il primo ha soltanto stabilito un’opzione ulteriore per l’imprenditore insolvente, il cui mancato esercizio non ne preclude l’assoggettamento all’amministrazione straordinaria, mirando il decreto-legge a realizzare, sia pure attraverso una differente modalità, l’identica finalità della «ristrutturazione economica e finanziaria prevista e disciplinata dall’art. 27, comma 2, lettera b)» (art. 1 del decreto-legge citato). In altri termini, le innovazioni introdotte dal decreto-legge n. 347 del 2003 tendono a garantire una maggiore celerità alla fase di ammissione dell’impresa alla procedura, senza alterarne i caratteri, comuni a quelli della procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, il quale detta la disciplina generale di riferimento, cui è fatto rinvio.

         1.1.3.Secondo il rimettente, in entrambe le procedure in comparazione è stabilita l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare, ma in presenza di differenti presupposti.

         Il Tribunale ricorda che, a seguito di alcuni arresti della Corte di cassazione, il legislatore ha modificato la disciplina dell’azione revocatoria nelle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi stabilita dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grande imprese in crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 3 aprile 1979, n. 95, escludendone la esperibilità nel corso della fase di risanamento dell’impresa e stabilendo che può essere proposta «soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» (art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 270 del 1999). Si tratta di una regola coerente con la ratio dell’azione, che, secondo la concezione indennitaria, mira a ricostituire il patrimonio dell’imprenditore, ovvero, secondo la configurazione antindennitaria, tende a distribuire le perdite all’interno di una platea di creditori più ampia rispetto a quella che comprende soltanto i soggetti che sono tali al tempo dell’apertura della procedura.

         Ad avviso del rimettente, questa duplice finalità, recuperatoria e redistributiva, non è conciliabile con una procedura strumentale alla conservazione dell’impresa, nella quale, in pendenza del risanamento, mancano un patrimonio e perdite da ripartire tra i creditori.

         La norma impugnata ha irragionevolmente esteso l’ambito di applicabilità dell’azione revocatoria fallimentare, interrompendo «immotivatamente quel legame di continuità […] tra finalità concretamente perseguita dalla procedura e strumenti alla stessa connessi», con conseguente non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma impugnata. Il d.lgs. n. 270 del 1999 aveva, infatti, realizzato un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti dal dissesto dell’impresa, escludendo la proponibilità dell’azione nella fase di ristrutturazione, in quanto il sacrificio patrimoniale dei terzi è giustificato soltanto dal fine della ripartizione fra tutti i creditori del patrimonio del debitore insolvente, a tutela della par condicio creditorum.

         L’ammissibilità dell’azione nella fase di risanamento dell’impresa ha «ampliato il sacrificio dei terzi, ribaltando la scelta consapevolmente operata con l’art. 49» del d.lgs. n. 270 del 1999, in violazione del canone di ragionevolezza, poiché le azioni disciplinate dai succitati artt. 6 e 49 riguardano procedure analoghe, che coinvolgono interessi omogenei e perseguono il medesimo obiettivo.

         D’altronde, osserva l’ordinanza di rimessione, secondo la Corte costituzionale l’azione in esame introduce una deroga al principio generale della stabilità dei diritti, allo scopo di tutelare le ragioni del concorso tra i creditori e di contemperare l’interesse dei creditori di recuperare al patrimonio del fallito la maggiore quantità di beni, in vista dell’esecuzione concorsuale, con quello al normale svolgimento dell’attività economica ed alla stabilità dei diritti (sentenza n. 379 del 2000).

         Secondo il rimettente, l’irragionevolezza della norma sarebbe confortata dalla circostanza che la scelta per l’amministrazione straordinaria "accelerata” è sostanzialmente rimessa all’imprenditore insolvente, il quale potrebbe privilegiarla proprio per giovarsi di un eterofinanziamento, insito nell’esercizio delle azioni revocatorie e precluso nella amministrazione straordinaria "ordinaria”.

         La previsione (contenuta nel comma 1 della norma impugnata), quale condizione dell’azione, che essa deve tradursi in «un vantaggio per i creditori» è pleonastica e non permette di escludere l’irragionevolezza della norma, in quanto l’interesse dei creditori costituisce l’unico ed esclusivo bene giuridico alla cui tutela detta azione è preordinata.

         1.1.4.− Secondo il rimettente, ad escludere la fondatezza della questione non giova sostenere che l’azione in esame è incompatibile con la ristrutturazione ex art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999 e con la finalità di prosecuzione e risanamento dell’impresa, nel caso in cui del risanamento benefici l’imprenditore insolvente, mentre è compatibile con la cessione dell’attività d’impresa, anche mediante patto di concordato, ad un soggetto terzo (l’assuntore o una diversa società).

         Il Tribunale non condivide questa configurazione, osservando che la norma impugnata prevede in linea generale la proponibilità dell’azione revocatoria anche qualora sia stato autorizzato il programma di ristrutturazione, indipendentemente dalla circostanza che questo sia realizzato secondo le modalità ordinarie (art. 4 del decreto-legge n. 347 del 2003), ovvero mediante concordato, che costituisce uno degli strumenti del programma di ristrutturazione (art. 4-bis, comma 1, del decreto-legge citato).

         L’ordinanza di rimessione conclude nel senso che «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura» disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003, «nell’ambito della quale l’epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell’imprenditore all’ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato (artt. 4 e 4-bis), ivi compreso il concordato con assunzione, che costituisce un’ipotesi del tutto eventuale e residuale di conclusione del programma di ristrutturazione dell’impresa, cui il legislatore assegna la sola valenza di determinare l’immediata chiusura della procedura rispetto alla fisiologica durata ed al suo naturale espletamento».

         1.1.5.− In ordine alle censure riferite all’art. 41 Cost., il Tribunale osserva che il risanamento agevolato da misure di sostegno finanziario non può considerarsi un vero e proprio risanamento in senso economico e giuridico, in quanto, a suo avviso, risanamento significa recuperata capacità dell’impresa di conseguire ricavi superiori ai costi sostenuti, e quindi di produrre ricchezza, recuperando la capacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.

         Il risanamento dell’impresa mediante l’esperimento dell’azione revocatoria fallimentare costituisce un ingiustificato privilegio per l’impresa ammessa alla procedura e realizza un effetto distorsivo della concorrenza, in quanto le permette di restare sul mercato, sfruttando risorse finanziarie precluse ai concorrenti. Questo effetto è correlato alla continuazione dell’impresa, dato che nelle procedure liquidatorie il ricavato dell’azione revocatoria è esclusivamente destinato al soddisfacimento dei creditori, mentre nel caso in esame questa azione comporta una forma di finanziamento forzoso a favore dell’impresa insolvente ed a carico dei terzi, già censurata dai giudici nazionali e dai giudici europei in riferimento alle norme recate dalla legge n. 95 del 1979.

         Secondo il rimettente, la previsione dell’azione revocatoria costituisce fattore di distorsione della libera concorrenza tra imprese e si pone in contrasto con l’art. 41 Cost., che tutela la libertà di concorrenza, garantendo quella di iniziativa economica.

         D’altronde, conclude il Tribunale, l’irragionevolezza e l’illegittimità di una disciplina che determina una discriminazione tra imprese in concorrenza è stata affermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 443 del 1997, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 4 luglio 1967, n. 580, nella parte in cui vietava alle imprese con stabilimento in Italia di utilizzare nella produzione e nella commercializzazione di paste alimentari ingredienti legittimamente impiegati, in base al diritto comunitario, nel territorio della Comunità europea.

         1.2.− Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza della questione.

         La difesa erariale premette che l’introduzione nell’ordinamento delle procedure disciplinate dal d.lgs. n. 270 del 1999 e dal decreto-legge n. 347 del 2003 è stata giustificata dalla considerazione che il fallimento non può essere l’unica soluzione alla crisi dell’impresa e dall’esigenza di permettere la ricollocazione sul mercato del relativo complesso aziendale. La procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 stabilisce, quindi, che il commissario straordinario può proporre un programma di ristrutturazione economica e finanziaria fondato su di un piano di risanamento, ovvero può predisporre un programma di cessione dei beni aziendali; nel primo caso è possibile prevedere che i creditori siano soddisfatti mediante un concordato che realizza il trasferimento delle attività ad un nuovo soggetto giuridico, che può divenire titolare delle azioni revocatorie proposte dal commissario straordinario. La mancata approvazione dei programmi proposti dal commissario straordinario, ovvero l’insuccesso degli stessi, comporta la conversione della procedura in fallimento.

         Nella fattispecie oggetto del giudizio principale, è stato approvato il programma di ristrutturazione che prevede il soddisfacimento dei creditori mediante un concordato.

         Secondo l’interveniente, fine ultimo della procedura è quello di garantire la conservazione delle strutture produttive e la parità di trattamento tra i creditori e, quindi, la norma impugnata si inscrive coerentemente nell’ordinamento, subordinando l’esperibilità dell’azione revocatoria al conseguimento di un vantaggio concreto da parte dei creditori. La finalità della revocatoria è quella di far rientrare nel patrimonio beni che non avrebbero dovuto uscirne e sia la ristrutturazione che la cessione dei beni costituiscono rimedi preordinati a fronteggiare il dissesto dell’impresa, che, tra l’altro, produce anche l’effetto di determinare, in presenza di determinati presupposti, l’inopponibilità alla massa di una serie di atti.

         Ad avviso dell’Avvocatura, l’ordinanza sarebbe carente sul punto della motivazione della rilevanza della questione, in quanto manca la valutazione degli effetti della azione in relazione alla posizione dei creditori concorsuali, nonché delle conseguenze della eventuale sentenza di illegittimità costituzionale sulla posizione giuridica della banca convenuta nel giudizio.

         1.2.1.− Nel merito, secondo la difesa erariale la questione, da ritenersi rilevante limitatamente alla fattispecie della realizzazione del programma di ristrutturazione mediante concordato, è infondata. La norma impugnata prevede, infatti, che l’azione revocatoria può essere proposta nel caso in cui permetta di soddisfare i creditori in misura maggiore, determinando un incremento della massa attiva e, in tal modo, ne risulta chiara la finalità recuperatoria a vantaggio dei creditori, mediante l’eliminazione del danno provocato dagli atti revocati, e cioè il conseguimento dello scopo tipico dell’azione revocatoria fallimentare.

         Ad avviso dell’interveniente, nella procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 il divieto di esperire l’azione revocatoria nel caso di approvazione di un piano di ristrutturazione è giustificato dalla circostanza che, in detta ipotesi, i creditori non subiscono alcuna decurtazione dei loro crediti. Nella procedura introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003 il ricorso al concordato non comporta il soddisfacimento integrale dei creditori e l’azione revocatoria garantisce loro il recupero di una percentuale più elevata di quella altrimenti conseguibile.

         Infine, la finalità dell’azione di realizzare l’interesse dei creditori fa escludere la denunciata violazione dell’art. 41 Cost., anche in quanto l’azione revocatoria non incide sulla libertà di concorrenza in misura maggiore rispetto agli altri rimedi approntati dal d.lgs. n. 270 del 1999 e dal decreto-legge n. 347 del 2003, allo scopo di garantire il recupero dell’equilibrio economico da parte dell’impresa insolvente.

         1.3.− Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario (infra: società in amministrazione straordinaria), parte del giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

         1.3.1.− La società in amministrazione straordinaria, in linea preliminare, deduce che l’ordinanza ha censurato l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, senza distinguere tra le norme contenute nel comma 1 e nel comma 1-bis. Il comma 1 stabilisce, infatti, che le azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 possono essere proposte anche nel caso di autorizzazione all’esecuzione del programma di ristrutturazione; il comma 1-bis dispone che, nel caso in cui la soddisfazione dei creditori avvenga attraverso un concordato, si applica l’art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), il quale, a sua volta, prevede che la proposta di concordato contenuta nel programma autorizzato contempli, come patto di concordato, la cessione delle azioni revocatorie all’assuntore.

         L’azione proposta nel giudizio a quo è stata, appunto, esperita dopo l’autorizzazione di un programma che, in conformità dell’art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), citato, prevede la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato, con costituzione, quale assuntore, di una società; concordato che reca un patto di cessione all’assuntore delle azioni revocatorie.

         La fattispecie oggetto del giudizio principale non riguarda, quindi, un caso di ristrutturazione con ritorno dell’imprenditore all’attività ordinaria, dato che l’imprenditore originario, attraverso la cessione delle attività all’assuntore, cessa la propria attività. Pertanto, la fattispecie non è comparabile con quella disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 per il caso di risanamento attuato mediante un programma di ristrutturazione. Inoltre, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, citato, «nella sua generalità» è irrilevante, in quanto la ristrutturazione è stata attuata mediante il concordato con assunzione.

         1.3.2.− La violazione dell’art. 3 Cost. è stata, invece, prospettata all’esito della comparazione degli artt. 6 e 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 con gli artt. 49 e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, senza che sia stato dimostrato il contrasto della norma censurata con il canone di ragionevolezza e con i principi che disciplinano l’azione revocatoria fallimentare.

         Ad avviso della società in amministrazione straordinaria, il Tribunale ha erroneamente comparato la norma impugnata con la disciplina stabilita dal d.lgs. n. 270 del 1999, denunciando la violazione dell’art. 3 Cost., sul presupposto che l’espressione «risanamento finanziario», utilizzata nell’amministrazione straordinaria "accelerata” e nell’amministrazione straordinaria "ordinaria”, riguardi «una stessa situazione sostanziale»; senza considerare che principio cardine dell’azione revocatoria fallimentare è che questa non può tradursi in un vantaggio per l’imprenditore insolvente, ma è diretta a regolare il conflitto tra i creditori, come è reso palese dall’art. 124 del r.d. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), il quale vieta la cessione delle azioni revocatorie a favore del fallito e dei suoi fideiussori.

         La cessione dell’azione revocatoria deve, invece, ritenersi ammissibile nel caso di trasferimento dell’attività di impresa ad un imprenditore diverso da quello insolvente, dato che in siffatta ipotesi non si traduce in un vantaggio per quest’ultimo.

         1.3.3.− Secondo la società in amministrazione straordinaria, nella procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 il «programma di ristrutturazione» è definito come «la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni» (art. 27, comma 2, lettera b, del d.lgs. n. 270 del 1999), la cui natura è resa chiara dalla previsione che l’amministrazione straordinaria si converte in fallimento: a) nel caso di autorizzazione del programma di ristrutturazione, qualora, alla scadenza del programma, l’imprenditore non abbia recuperato la capacità di soddisfare le proprie obbligazioni (art. 70, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 270 del 1999); b) nel caso di autorizzazione del programma di cessione, qualora alla scadenza del medesimo non sia avvenuta, in tutto o in parte, la cessione (art. 70, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 270 del 1999).

         Siffatte disposizioni distinguono il «risanamento su base soggettiva», che realizza un salvataggio dell’imprenditore, ed il «risanamento su base oggettiva», che permette di salvare l’attività dell’impresa mediante il suo trasferimento ad un diverso imprenditore.

         Il d.lgs. n. 270 del 1999, nel caso del programma di ristrutturazione finanziaria, ha riguardo all’imprenditore, non all’impresa e, quindi, ragionevolmente esclude l’ammissibilità dell’azione revocatoria, in quanto essa costituirebbe un vantaggio per l’imprenditore, permettendone l’esperimento dopo l’autorizzazione di un programma che contempli la cessione del complesso produttivo ad un diverso imprenditore.

         1.3.4.− La procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 stabilisce che il programma di ristrutturazione finanziaria, che il commissario deve presentare entro 180 giorni dalla nomina, può prevedere la soddisfazione dei creditori mediante un concordato (art. 4-bis), anche con attribuzione ad un assuntore delle attività dell’impresa (art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis). In questa ipotesi la ristrutturazione non riguarda l’imprenditore, bensì l’impresa e, in coerenza con siffatta finalità, la norma da ultimo richiamata stabilisce l’ammissibilità di un patto di concordato, avente ad oggetto il trasferimento all’assuntore delle azioni revocatorie promosse fino alla data di pubblicazione della sentenza, stabilendo una disciplina omologa a quella recata dall’art. 124 della legge fallimentare.

         La norma impugnata ribadisce, dunque, il principio generale, secondo il quale le azioni revocatorie possono essere proposte soltanto a vantaggio dei creditori, richiamando espressamente, al comma 1-bis, la disciplina stabilita per il concordato con assunzione, nel quale è in re ipsa l’impossibilità che l’azione si traduca in un vantaggio per l’imprenditore insolvente, con conseguente infondatezza delle censure sollevate nell’ordinanza di rimessione.

         Nel caso in esame, le azioni revocatorie sono state proposte dopo l’autorizzazione del programma che prevedeva un concordato con assunzione delle attività e delle passività da parte di una società costituita dal commissario, le cui azioni erano destinate ad essere attribuite ai creditori. Peraltro, se il concordato non fosse stato approvato dal Tribunale o dai creditori il commissario, ex art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge n. 347 del 2003, avrebbe potuto presentare nei successivi 60 giorni un programma di cessione dei complessi aziendali, compatibile con l’esperimento delle azioni revocatorie; qualora tale programma non fosse stato approvato, la procedura sarebbe stata convertita in fallimento, sicché nessuno dei possibili sviluppi avrebbe condotto ad un "risanamento soggettivo” e neppure l’azione avrebbe potuto tradursi in un vantaggio per l’imprenditore insolvente.

         1.3.5.− Relativamente alla censura riferita all’art. 41 Cost., la società in amministrazione straordinaria osserva che l’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 rende proponibili le azioni revocatorie dopo l’autorizzazione di un programma di cessione dei complessi aziendali, cessione che deve avvenire entro un anno dall’autorizzazione del programma (art. 27, comma 2, lettera a, e 57, comma 4, del d.lgs. citato), termine prorogabile per tre mesi se, all’originaria scadenza, risultino in corso iniziative di imminente definizione (art. 66 del d.lgs. citato).

         Dunque, nel sistema definito dal d.lgs. n. 270 del 1999 non è stabilita alcuna incompatibilità tra prosecuzione dell’attività di impresa ed esercizio delle azioni revocatorie, incompatibilità non prevista nemmeno dalla legge fallimentare, data la esperibilità di dette azioni anche nel caso di esercizio provvisorio dell’impresa.

         Il Tribunale non ha, invece, considerato, in primo luogo, che la prosecuzione dell’attività inserita in un risanamento su base oggettiva è strumentale rispetto allo scopo di garantire una liquidazione più vantaggiosa, nell’interesse dei creditori. In secondo luogo, ha omesso di valutare che l’organizzazione ha spesso un valore superiore a quello dei beni organizzati, che va salvaguardato anche nel caso di perseguimento di una finalità liquidatoria, tant’è che l’art. 2487 del codice civile, ammette nella fase della liquidazione della società di capitali l’esercizio provvisorio dell’attività, in funzione del migliore realizzo dei beni.

         In altri termini, l’azione revocatoria è compatibile con la prosecuzione dell’attività d’impresa, purché temporanea e finalizzata a realizzare una migliore liquidazione, come può appunto accadere: nel fallimento, qualora sia autorizzato l’esercizio provvisorio dell’impresa (art. 90 della legge fallimentare), ovvero nel caso di concordato fallimentare (art. 124 della legge fallimentare); nella procedura di amministrazione straordinaria "ordinaria”, se sia autorizzato un programma di cessione dei complessi aziendali; nella procedura di amministrazione straordinaria "accelerata”, nel caso in cui l’azione revocatoria si traduca in un vantaggio per i creditori, ovvero se sia stato autorizzato un concordato, nei termini sopra indicati.

         Pertanto, le azioni revocatorie sono finalizzate ad assicurare un vantaggio ai creditori, mentre la considerazione del tempo occorrente per ottenere una sentenza favorevole fa anche escludere che possa ipotizzarsi un effetto distorsivo della concorrenza.

         Infine, conclude la società in amministrazione straordinaria, il rimettente non ha considerato che l’assuntore del concordato paga un prezzo che viene determinato tenendo conto delle azioni revocatorie e che i creditori, nell’esprimere il loro voto, hanno valutato la convenienza dell’operazione anche alla luce della proponibilità delle azioni revocatorie. Dunque, l’affermazione che la società assuntrice del concordato godrebbe di un ingiustificato vantaggio rispetto alle concorrenti «sembra dimenticare del tutto il costo pagato dai creditori-azionisti, in termini di rinuncia al loro credito».

         1.4.− Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuta anche la Parmalat s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, la quale ha svolto argomentazioni coincidenti con quelle della Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, sopra riportate, e ha formulato identiche conclusioni.

         1.5.− Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita HSBC, parte convenuta nel processo principale, chiedendo che la questione sia accolta.

         HSBC, premesso un ampio excursus circa la disciplina stabilita dal decreto-legge n. 26 del 1979 e l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (secondo il quale l’azione revocatoria non è esperibile nella fase di esercizio dell’attività di impresa, in quanto ispirata a finalità recuperatorie), ricorda che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha affermato che l’applicazione del regime stabilito da detto decreto-legge ad un’impresa autorizzata a continuare la sua attività economica, in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell’ambito dell’applicazione delle regole normative normalmente vigenti in tema di fallimento, dà luogo alla concessione di un aiuto di Stato, vietato dalle norme comunitarie (sentenza 1° dicembre 1998, C. n. 200/97; sentenza 17 giugno 1999, C. n. 195/97); ricorda, altresì, che alcune corti italiane, a seguito di dette pronunce, hanno disapplicato le norme del 1979 (cosiddetta "legge Prodi”) nel caso di azione revocatoria fallimentare proposta al di fuori della fase liquidatoria di cessione dei complessi aziendali.

         Il d.lgs. n. 270 del 1999 − prosegue HSBC − è stato emanato allo scopo di porre rimedio ai vizi che inficiavano l’originaria disciplina della procedura di amministrazione straordinaria ed ha previsto due distinti modelli: il primo caratterizzato da una finalità liquidatoria, da conseguire mediante la cessione dei complessi aziendali; il secondo, avente finalità conservativa dell’impresa, mediante la sua ristrutturazione economica e finanziaria. In coerenza con i surrichiamati orientamenti della giurisprudenza, detto decreto legislativo ha stabilito che l’azione revocatoria fallimentare è proponibile soltanto nel caso di autorizzazione di un programma di cessione dei complessi aziendali.

         Il decreto-legge n. 347 del 2003, come risulta anche dai lavori preparatori − analiticamente indicati − ha inteso assicurare la conservazione dell’avviamento e della posizione di mercato dell’impresa, caratterizzandosi in quanto prevede esclusivamente l’ipotesi della ristrutturazione industriale e non la possibilità della liquidazione dei complessi aziendali, e cioè proprio la fattispecie in relazione alla quale l’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 vieta l’esercizio dell’azione revocatoria.

         1.5.1.− Secondo HSBC non è possibile dare della norma impugnata un’interpretazione adeguatrice. La tesi della società in amministrazione straordinaria, che sostiene la compatibilità dell’azione con la realizzazione del cosiddetto "risanamento oggettivo” mediante concordato, non è corretta, anzitutto in quanto la norma censurata stabilisce la proponibilità di detta azione in linea generale e, nel caso in esame, essa è stata, infatti, esperita prima della presentazione della proposta di concordato. Inoltre, la questione della legittimità della proposizione dell’azione revocatoria nell’ambito di una procedura con finalità di risanamento è logicamente e giuridicamente preliminare rispetto a quella della ammissibilità del suo trasferimento all’assuntore del concordato. Infatti, secondo alcune pronunce di merito, l’illegittimità dell’esercizio dell’azione revocatoria ex d.lgs. n. 270 del 1999 nella fase di risanamento non è esclusa dal sopravvenire, nel corso del giudizio, della fase liquidatoria, e, analogamente, la successiva proposizione di un concordato nell’ambito del quale l’azione de qua è stata trasferita all’assuntore non legittima un’azione originariamente inammissibile.

         Ad avviso di HSBC, l’approvazione del concordato non muta comunque la finalità conservativa e di risanamento della procedura in esame, come bene ha sottolineato il Tribunale rimettente nella sentenza del 1° ottobre 2005, che ha omologato il concordato in questione. In ogni caso, il concordato disciplinato dal decreto-legge n. 347 del 2003 non sarebbe comparabile con il concordato previsto dall’art. 124 della legge fallimentare, in quanto il primo è strumentale al risanamento dell’impresa, come risulta dalle stesse indicazioni contenute nella relativa proposta e nel prospetto informativo relativo all’offerta di azioni ordinarie e warrant della "nuova” Parmalat s.p.a., redatti dal commissario straordinario, nonché dalla circostanza che non è previsto alcun pagamento da parte dell’assuntore in favore dei creditori chirografari ed i crediti ammessi al concorso sono trasformati in capitale di rischio. Il concordato fallimentare mira, invece, a far cessare il fallimento, mediante il ricorso ad una modalità di liquidazione dei beni più rapida e conveniente per i creditori, come puntualmente hanno osservato giurisprudenza e dottrina. Appunto per questo, è inammissibile un concordato fallimentare mediante cessione dei beni ai creditori, in quanto non garantirebbe il recupero di una percentuale del credito superiore a quella conseguibile mediante la liquidazione fallimentare e che, invece, è proprio quanto accade con il concordato in esame. Inoltre, come ha chiarito la giurisprudenza, nel concordato fallimentare la cessione delle azioni revocatorie è strumentale al soddisfacimento dei creditori, costituendo dette azioni un elemento dell’attivo, che incide sulla misura della percentuale concordataria. Nel concordato in esame – preordinato a realizzare il risanamento e la ristrutturazione dell’impresa insolvente – non sono invece previsti pagamenti in favore dei creditori e, conseguentemente, le azioni revocatorie non sono strumentali al succitato scopo.

         1.5.2.− Secondo HSBC, la norma censurata, in violazione dell’art. 3 Cost., realizza una ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie omologhe, in relazione all’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999. A suo avviso, le due norme: a) hanno identico oggetto, in quanto regolano la procedura di amministrazione straordinaria concernente le imprese di grandi dimensioni che versano in stato di insolvenza; b) hanno identiche finalità, in quanto mirano alla ristrutturazione delle imprese; c) hanno ambiti di applicazione in larga misura coincidenti, dato che la diversità dei requisiti dimensionali per l’ammissione alle due procedure non è influente e dimostra l’identità delle situazioni sotto il profilo soggettivo, risultando applicabile il decreto-legge n. 347 del 2003 nei casi nei quali è applicabile il d.lgs. n. 270 del 1999, in virtù di una opzione rimessa allo stesso imprenditore, mentre la prima è essenzialmente connotata da una maggiore celerità; d) in riferimento all’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, riguardano procedure sostanzialmente omogenee.

         Le situazioni in comparazione sono quindi omologhe e, conseguentemente, la norma censurata, nella procedura ex decreto-legge n. 347 del 2003, irragionevolmente sacrifica il diritto dei creditori dell’imprenditore insolvente, dato che, secondo la Corte costituzionale, la deroga del principio generale della stabilità dei diritti realizzata dall’azione revocatoria è giustificata esclusivamente dallo scopo di permettere la ricostruzione del patrimonio del fallito e di ripartire tra i creditori eventuali perdite. L’irragionevolezza è confortata dalla considerazione che l’opzione per una delle due discipline è lasciata allo stesso imprenditore insolvente.

         Sotto un diverso profilo, la norma censurata realizza un’ingiustificata disparità di trattamento anche tra le imprese insolventi, dato che soltanto quelle che accedono alla procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 hanno la possibilità di ottenere eterofinanziamenti, mediante l’esperimento dell’azione revocatoria durante la fase di risanamento.

         Infine, la norma impugnata è viziata da intrinseca irragionevolezza, in quanto l’azione revocatoria fallimentare è inconciliabile con la finalità conservativa della procedura, in considerazione della ratio dell’azione, che va individuata, secondo la giurisprudenza costituzionale, nella realizzazione della par condicio creditorum (sentenze n. 379 del 2000; n. 173 del 1994; n. 100 del 1993; n. 300 del 1986) e che è inesistente qualora essa sia esercitata nel contesto della procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003, anche nel caso del concordato ex art. 4-bis.

         1.5.3.− Ad avviso della HSBC − premesso che la riforma del titolo V della Costituzione ha rafforzato la tutela della concorrenza − la norma impugnata viola l’art. 41 Cost., dato che l’azione revocatoria fallimentare permette all’imprenditore insolvente di rimanere sul mercato, avvalendosi di una sorta di finanziamento forzoso, a costo zero, in danno degli altri imprenditori ed in contrasto con le norme comunitarie, anche in considerazione della somma dei crediti oggetto di dette azioni, che rendono possibili politiche commerciali particolarmente aggressive in danno dei concorrenti.

         2.− Con successiva ordinanza del 27 dicembre 2005, il medesimo Tribunale ordinario di Parma ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, nella parte in cui consente l’esercizio delle azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 anche in costanza di un programma di ristrutturazione dell’impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria.

         2.1.− In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che il commissario straordinario della Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria ha convenuto in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e altre diciassette banche, esponendo che la Parmalat s.p.a., con decreto del Ministro delle attività produttive del 24 dicembre 2003, era stata assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003; che il Tribunale ordinario di Parma, con sentenza del 27 dicembre 2003, aveva dichiarato lo stato di insolvenza della medesima società, con estensione della procedura concorsuale a Parmalat Finanziaria s.p.a. ed a quasi tutte le altre società riconducibili alla famiglia Tanzi; che, nel dicembre 1998, la Parmalat s.p.a. aveva stipulato con un pool di banche – di cui era capofila la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. – un contratto di finanziamento per un ammontare complessivo di lire 140 miliardi con un piano di restituzione nell’arco dei successivi cinque anni; che i rimborsi alle scadenze venivano effettuati mediante ordini di bonifico; e che, tanto premesso, l’attore ha chiesto che siano revocati, ai sensi e per gli effetti dell’art. 67, secondo comma, della legge fallimentare, i pagamenti eseguiti dalla Parmalat s.p.a. a favore delle parti convenute a titolo di rimborso del predetto finanziamento nel periodo "sospetto” e, conseguentemente, che le medesime convenute siano condannate a restituire alla procedura le somme percepite, oltre agli interessi e al maggior danno da svalutazione monetaria.

         Riferisce ancora il giudice rimettente che le banche convenute, costituitesi, hanno, in via pregiudiziale, eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., nonché la incompatibilità della stessa norma con i principi di concorrenza sanciti dal Trattato CE.

         2.1.2.− Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che essa è insita nella proposizione dell’azione revocatoria ex art. 67 della legge fallimentare, richiamato dal d.lgs. n. 270 del 1999, resa possibile dalla norma denunciata nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, pur in presenza dell’autorizzazione all’esecuzione di un programma di ristrutturazione: la caducazione di quella norma comporterebbe, infatti, il rigetto delle domande attoree.

         2.1.3.− Quanto alla non manifesta infondatezza, il medesimo giudice svolge argomentazioni del tutto analoghe a quelle esposte nella precedente ordinanza di rimessione.

         2.2.− Si sono ritualmente costituite nel giudizio davanti alla Corte le convenute nel giudizio a quo Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Banca Toscana s.p.a., Banca popolare italiana Società Cooperativa, Bipop Carire s.p.a., Commerzbank AG, Unicredit Banca d’Impresa s.p.a., Unicredito Italiano s.p.a. e Credito siciliano s.p.a., per chiedere che la questione sia accolta.

         2.2.1.− Cassa di risparmio di Savona s.p.a. ricorda che la Corte di cassazione, decidendo la questione del contrasto fra la legge n. 95 del 1979, istitutiva della procedura di amministrazione straordinaria, e le regole dei Trattati comunitari, circa i divieti degli aiuti di Stato e dell’alterazione della concorrenza da parte degli Stati membri, ha statuito che nella procedura di amministrazione straordinaria, disciplinata dalla citata legge, l’azione revocatoria fallimentare non rappresenta un aiuto di Stato, e, quindi, non viola la normativa comunitaria, sempre che essa venga promossa dopo che è iniziata la fase di liquidazione; e ha osservato che l’esercizio della revocatoria «si tradurrebbe in un finanziamento forzoso delle imprese in crisi» non in ogni caso, «essendo compatibile una tale affermazione solo con la fase conservativa e non già con quella liquidatoria» (Cass. 21 settembre 2004, n. 18915).

         Questo principio di diritto è stato coerentemente seguito dal legislatore, quando ha dettato una «nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza» con il d.lgs. n. 270 del 1999, il cui art. 49, comma 1, infatti, stabilisce che «le azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare possono essere proposte dal commissario straordinario soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali, salvo il caso di conversione della procedura in fallimento».

         Ma, nell’emanare il successivo decreto-legge n. 347 del 2003, il legislatore ha completamente trascurato la necessità che la nuova procedura di amministrazione straordinaria, prevista da tale decreto-legge, fosse resa compatibile con le regole comunitarie, in quanto ha creato una procedura che – come risulta inequivocabilmente da più norme – ha la finalità esclusiva della ristrutturazione economica e finanziaria di grandi imprese in stato di insolvenza. Ciò posto, non aveva senso inserire in essa l’esperibilità delle azioni revocatorie, che sono proprie delle procedure di liquidazione e che, invece, nell’ambito di una procedura di ristrutturazione si risolvono in elementi distorsivi della concorrenza.

         2.2.1.2.− La deducente osserva, poi, che la norma denunciata – come sostenuto in dottrina – viola il principio costituzionale di eguaglianza, dal momento che di fronte a due imprese in stato di insolvenza, per le quali sia prospettabile un programma di ristrutturazione, per il solo fatto che per l’una si avvii la procedura di amministrazione straordinaria di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 (su iniziativa dei creditori) e per l’altra, invece, si instauri (su iniziativa dello stesso imprenditore) la procedura di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, si diversifica il trattamento dei creditori e dei terzi, i quali nella seconda ipotesi sono esposti al rischio dell’esercizio delle azioni revocatorie.

         E tale disparità di trattamento, non giustificabile e del tutto irragionevole, sussiste, a suo avviso, anche rispetto ai creditori dell’impresa assoggettata ad ogni altra procedura concorsuale.

         2.2.1.3.− La deducente passa, quindi, a confutare la tesi secondo cui basterebbe a giustificare l’esperibilità delle revocatorie l’inciso «purché si traducano in un vantaggio per i creditori», inserito nella norma denunciata dalla legge di conversione (del decreto-legge) n. 119 del 2004. Tale aggiunta, a suo avviso, nulla toglie alle censure di cui innanzi, sia sotto il profilo del contrasto con le norme comunitarie, sia sotto quello della violazione dell’art. 3 Cost.: quanto al primo profilo, resta la constatazione che, quand’anche la condizione sia soddisfatta, si tratta pur sempre di azioni revocatorie rese esperibili al di fuori di una procedura o di una fase liquidatoria; quanto al secondo, resta la constatazione della disparità di trattamento fra i creditori delle varie procedure concorsuali, perché, se non vi è liquidazione e distribuzione dell’attivo, quella disparità persiste.

         Nel caso di specie, poi, la condizione legale della esperibilità delle revocatorie non può verificarsi, ancorché sia previsto lo sbocco della procedura di amministrazione straordinaria della Parmalat s.p.a. in un concordato con assunzione delle attività da parte di una società costituita dal commissario straordinario e destinata ad essere totalmente partecipata dai creditori concorrenti.

         Infatti, la deducente rileva, innanzitutto, che il concordato è stato impugnato. Inoltre, essa argomenta che il «vantaggio per i creditori» non è ravvisabile, in quanto: a) una volta trasferite le azioni revocatorie alla società assuntrice, i proventi andrebbero a incrementare l’attivo della società, che, però, è destinato al pagamento dei creditori sociali, non dei soci; d’altro canto, poiché la società assuntrice, secondo il programma, proseguirà le attività imprenditoriali di numerose società del gruppo Parmalat, i medesimi proventi delle revocatorie andrebbero a finanziare quelle attività, prima che possano essere distribuiti ai soci ex-creditori di Parmalat s.p.a. sotto forma di dividendi o rimborso di azioni; b) secondo il programma, il concordato dovrebbe riguardare varie società del gruppo Parmalat e il risultato utile delle revocatorie andrà a favore dell’emittente, ossia la società assuntrice, «e, quindi, in modo indifferenziato, indirettamente a vantaggio di tutti i creditori divenuti azionisti dell’emittente stesso, quale che sia, fra le società oggetto del concordato, la società che ha proposto l’azione»; il che vuol dire che le somme ricavate dalla revocatoria di pagamenti eseguiti da una società potrebbero essere destinate alla distribuzione a favore dei creditori di altre società del gruppo.

         2.2.2.− Banca popolare italiana Società Cooperativa osserva che, prima dell’emanazione del decreto-legge n. 347 del 2003, era principio consolidato del nostro ordinamento quello che solo la definitiva cessazione dell’attività di impresa ovvero l’esercizio momentaneo di quest’ultima finalizzato alla mera liquidazione dell’attivo consente l’esperibilità delle azioni revocatorie fallimentari e che, perciò, l’esercizio di dette azioni è tassativamente da escludersi in caso di perseguimento di un programma di ristrutturazione.

         L’art. 6 del citato decreto-legge ha, invece, previsto la possibilità di esperire azioni revocatorie ex art. 67 della legge fallimentare «anche nel caso di autorizzazione all’esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori».

         Tale norma comporta una ingiustificata differenza di trattamento tra creditori di fronte ad analoghe situazioni di dissesto, a seconda che l’impresa debitrice sia sottoposta ad amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 26 del 1979 o del d.lgs. n. 270 del 1999, con un programma che contempli la continuazione e il salvataggio dell’impresa; ovvero ad amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003, essendo le revocatorie esperibili solo in quest’ultima procedura e non anche nelle prime due.

         Siffatto trattamento diseguale, pur in presenza di situazioni identiche, contrasta con l’art. 3 Cost.

         2.2.2.1.− La deducente osserva, ancora, che la norma denunciata è idonea a falsare la concorrenza, e, quindi, viola l’art. 41 Cost., perché, consentendo che le azioni revocatorie siano esperite anche in caso di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, comporta un aiuto in favore delle imprese in amministrazione straordinaria che perseguono un programma di risanamento e che, perciò, continuano a restare sul mercato, rispetto a tutte le altre imprese presenti nello stesso mercato.

         Ciò che è decisivo, nel caso di specie, è che l’amministrazione straordinaria della Parmalat s.p.a. prevede un piano di risanamento ai sensi dell’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, ossia la ristrutturazione economica e finanziaria e la prosecuzione dell’attività dello stesso complesso imprenditoriale insolvente, il che non è compatibile con le finalità recuperatorie delle azioni revocatorie.

         2.2.2.2.− Tale incompatibilità non viene meno laddove l’impresa insolvente passi di mano, come accade nella specie, in favore di una società partecipata dai creditori in quanto: a) la disciplina delle azioni revocatorie deve essere riferita al debitore e all’eventuale prosecuzione dell’attività del debitore (cioè dell’impresa nel suo complesso), e non agli azionisti del debitore; b) non esiste alcuna norma che possa dar fondamento alla tesi contraria; c) data la ratio dell’azione revocatoria fallimentare, la quale trova giustificazione nell’accettazione, da parte del creditore, del rischio connesso al ricevimento di un pagamento da un’impresa della quale egli conosce lo stato di insolvenza e, quindi, l’imminente cessazione dell’attività, laddove l’attività dell’impresa continua in modo duraturo, non v’è legittimo spazio per le revocatorie.

         2.2.2.3.− Infine, la deducente osserva che non ha fondamento l’affermazione avversaria, secondo la quale, poiché i creditori diverranno, all’esito del programma di ristrutturazione, gli azionisti della nuova Parmalat s.p.a., le revocatorie si tradurrebbero in un vantaggio per gli stessi, posto che «le società […] hanno un’autonomia patrimoniale […] rispetto ai propri azionisti»; ragion per cui le revocatorie de quibus «andranno a vantaggio di Parmalat s.p.a., e cioè dello stesso complesso imprenditoriale Parmalat dichiarato insolvente e ammesso alla procedura e non dei suoi futuri azionisti, attuali creditori di Parmalat».

         2.2.3.− Bipop Carire s.p.a. sostiene, in via preliminare, che nella vicenda della genesi della normativa di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, è ravvisabile una fattispecie di «eccesso di potere legislativo», sotto il profilo dello «sviamento (del vizio del fine o della causa)», poiché, in sostanza, le disposizioni, "correttive e integrative” del testo originario, via via emanate, sono state ispirate «al fine esclusivo di legittimazione dei contenuti di un atto amministrativo specifico (il programma di ristrutturazione predisposto dal commissario del gruppo Parmalat) onde consentirne l’approvazione in sede propria». In altri termini, «la normativa considerata, al di là del suo apparente contenuto dispositivo, è stata adottata soltanto ex postfacto al fine di sovvenire alle esigenze via via manifestate dall’amministrazione straordinaria di Parmalat, ed è, pertanto, da ritenersi incostituzionale per il fatto di aver perseguito un fine diverso da quello desumibile dal suo contenuto dispositivo». In proposito, cita le sentenze della Corte costituzionale n. 146 del 1996 e n. 195 del 1982 .

         2.2.3.1.− Nel merito della questione, come proposta dal giudice rimettente, la deducente ne afferma la fondatezza, argomentando che l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 è costituzionalmente illegittimo sotto diversi profili.

         2.2.3.2.− Innanzitutto esso «contrasta con il principio di eguaglianza in senso "tradizionale” come disparità di trattamento di situazioni eguali», poiché i creditori dell’impresa sottoposta alla procedura di cui al citato decreto-legge sono trattati differentemente rispetto ai creditori delle imprese sottoposte alla procedura di cui al d.lgs. n. 270 del 1999; corrispondentemente, anche le imprese sottoposte all’una o all’altra procedura godono di trattamenti differenziati. In entrambi i casi questa disparità di trattamento non è giustificata da un ulteriore interesse costituzionale.

         2.2.3.3.− In secondo luogo, la norma denunciata contrasta con il principio di eguaglianza inteso nel senso della ragionevolezza: l’azione revocatoria fallimentare, la cui ratio consiste nella tutela della par condicio creditorum, è, infatti, conciliabile con la finalità di liquidazione dell’impresa, perseguibile con l’amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, non anche con la finalità di risanamento dell’impresa, cui è, invece, indirizzata la procedura introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003.

         2.2.3.4.− La deducente − rilevati ulteriori profili di incostituzionalità, non sollevati dal giudice a quo − osserva che la norma in questione contrasta con l’art. 41 Cost., poiché, attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie, procura «una forma di finanziamento forzoso a favore dell’impresa insolvente» e consente ad essa di restare sul mercato, così producendo «effetti distorsivi della concorrenza e del mercato», senza che ricorrano «interessi pubblici costituzionalmente protetti che in astratto potrebbero giustificare, secondo principi di proporzionalità, deroghe al principio costituzionale di tutela della concorrenza».

         2.2.4.− Commerzbank AG deduce, in primis, la violazione del principio di uguaglianza: il decreto-legge n. 347 del 2003 (come successivamente modificato) rimette all’impresa insolvente, che abbia i requisiti da esso previsti, di scegliere fra la procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dallo stesso decreto e quella disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, perseguendo nell’uno come nell’altro caso un programma di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, ma i terzi, che, nel cosiddetto "periodo sospetto”, hanno posto in essere negozi giuridici con l’impresa insolvente o hanno da questa ricevuto pagamenti, nel primo caso, in forza della norma denunciata, sono esposti all’azione revocatoria fallimentare, nel secondo caso, invece, ne sono esenti.

         Siffatta disparità di trattamento è ingiustificata e irragionevole, posto che entrambe le procedure sono volte a consentire un risanamento aziendale in costanza di una situazione di insolvenza dell’impresa e la previsione dell’esperibilità dell’azione revocatoria all’interno di un procedura di risanamento si pone in contrasto con la funzione e la struttura stessa dell’azione, fondata sul presupposto della lesione del principio di parità di trattamento dei creditori.

         2.2.4.1.– La deducente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 41 Cost.: posto che l’amministrazione straordinaria di cui al decreto-legge n. 347 del 2003 è una procedura preordinata alla gestione dell’impresa insolvente in funzione del suo reinserimento nel mercato, la norma denunciata urta contro il principio della libertà di iniziativa economica, giacché essa consente «ad un’impresa operante sul mercato di avvantaggiarsi sul piano patrimoniale, avvalendosi dell’istituto della revocatoria, del quale non si possono avvalere gli altri operatori economici»; di talché «il vittorioso esito delle revocatorie fallimentari non rappresenta altro che una forma di finanziamento forzoso a favore dell’impresa insolvente, diventando uno strumento per sostenere l’impresa, falsando la concorrenza».

         2.2.5.− Unicredit Banca d’Impresa s.p.a. e Unicredito Italiano s.p.a. deducono che l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, si pone in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e con il principio della libera concorrenza e della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.

         2.2.5.1.− Sotto il primo profilo, infatti, la norma impugnata, prevedendo la possibilità di esperire le azioni revocatorie fallimentari nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal citato decreto-legge «anche nel caso di autorizzazione all’esecuzione di un programma di ristrutturazione», introduce una irragionevole discriminazione nei confronti delle imprese assoggettate alla procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, per le quali il rimedio revocatorio è esperibile soltanto ove sia perseguito un programma di cessione e non anche quando sia autorizzato un programma di ristrutturazione. E l’incostituzionalità della norma non può essere lenita dal fatto che il programma di ristrutturazione si attui mediante un concordato che preveda la cessione delle azioni revocatorie ad un assuntore, atteso che «il concordato e il patto di assunzione costituiscono solo una delle modalità di attuazione del piano di ristrutturazione, così da non legittimare un giudizio di costituzionalità generale relativamente all’art. 6»; peraltro, «concordato e patto di assunzione si innestano, comunque, nell’ambito di una procedura di natura risanatoria che persegue, in via diretta, l’obiettivo del rilancio dell’attività industriale dell’impresa e considera il soddisfacimento delle pretese dei creditori come obiettivo subordinato».

         2.2.5.2.− Sotto il secondo profilo, la norma impugnata, consentendo di esercitare le azioni revocatorie fallimentari, attribuisce alle imprese sottoposte alla procedura in questione un ingiustificato privilegio rispetto alle altre imprese e determina, così, un effetto distorsivo della concorrenza, in quanto permette ad imprese insolventi di restare sul mercato, usufruendo di una sorta di "finanziamento forzoso” a carico di terzi.

         2.2.6.− Credito siciliano s.p.a. svolge argomentazioni analoghe a quelle di Bipop Carire s.p.a.

         2.2.6.1.− Aggiunge che l’azione revocatoria di cui all’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 «nulla ha da vedere con il pagamento dei creditori», i quali vengono soddisfatti, ai sensi dell’art. 4-bis del medesimo decreto-legge, mediante l’assegnazione di azioni della società assuntrice del concordato (la "nuova” Parmalat s.p.a.), società alla quale sono trasferite, insieme con le attività del debitore insolvente, le azioni revocatorie già proposte dal commissario straordinario. Nella logica del citato decreto-legge «l’azione revocatoria non serve, dunque, a ricostituire la garanzia patrimoniale dell’articolo 2740 cod. civ.», essendo, invece, rivolta ad accrescere il patrimonio di un soggetto – la società assuntrice – diverso dal debitore insolvente. «Ma tale scopo è del tutto incompatibile con la natura e le caratteristiche della revocatoria fallimentare» e, perciò, non può giustificare il sacrificio dell’interesse dei terzi alla stabilità dei rapporti giuridici.

         2.2.6.2.− La deducente osserva, ancora, che, ai sensi del precitato art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), anche i convenuti eventualmente soccombenti in revocatoria potranno vedere soddisfatti i loro crediti secondo le modalità della "falcidia” concordataria, ossia con attribuzione di azioni della società assuntrice, nonostante, a differenza degli altri creditori, non abbiano avuto modo di esprimere il loro consenso.

         2.2.7.− Si sono, altresì, costituite nel giudizio di costituzionalità Parmalat s.p.a., in persona del suo presidente e legale rappresentante, e Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario, le quali – premesso che la Parmalat s.p.a. è stata sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria in data 24 dicembre 2003; che il commissario straordinario ha adottato un programma di ristrutturazione che prevede la soddisfazione dei creditori mediante un concordato; che tale concordato è stato approvato dai creditori e omologato dal Tribunale ordinario di Parma in data 1° ottobre 2005; che, in forza del medesimo concordato, le azioni revocatorie promosse dal commissario straordinario sono state trasferite all’assuntore – chiedono che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile per irrilevanza o, comunque, infondata.

         2.2.8.− E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere, sulla base di considerazioni identiche a quelle riferite in precedenza sub 1.2, che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

         2.2.9.− Sono, altresì, intervenute Sanpaolo-IMI s.p.a. e UBS Limited, società non convenute nel giudizio a quo, ma in altri analoghi giudizi pendenti dinanzi al Tribunale ordinario di Parma, promossi anch’essi dal commissario straordinario di Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, nei quali sono state sollevate identiche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003.

         Entrambe le intervenienti chiedono che sia dichiarata l’incostituzionalità della norma denunciata, osservando, in ordine all’ammissibilità dell’intervento, di essere portatrici di un interesse diretto e attuale alla relativa pronuncia, poiché da questa dipende, in via pregiudiziale, anche la decisione delle cause (così come di altre analoghe) delle quali esse sono parti, e che di tali cause è stata disposta la sospensione, non già solo in attesa della decisione della Corte, bensì a seguito del promovimento di identica questione di costituzionalità.

         3.− In prossimità dell’udienza pubblica hanno depositato memorie, nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 r.o. del 2006, il Presidente del Consiglio dei ministri, Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, Parmalat s.p.a. e HSBC.

         3.1.− La difesa erariale sottolinea che il concordato disciplinato dal decreto-legge n. 347 del 2003 realizza lo "spossessamento” definitivo dell’imprenditore insolvente, determinando la falcidia dei crediti, e che tanto rende ragione dell’ammissibilità dell’azione revocatoria. A suo avviso, l’ordinanza di rimessione è viziata da due errori: il primo consiste nel ritenere che il programma di ristrutturazione menzionato dalla norma impugnata debba essere soltanto quello previsto dall’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999; il secondo risiede nel ritenere che il concordato sia una mera modalità di attuazione del piano di ristrutturazione. Infatti, il Tribunale non si è avveduto della circostanza che, nell’impossibilità di realizzare il risanamento soggettivo dell’impresa ed il ritorno in bonis dell’imprenditore, è stato necessario procedere allo "spossessamento” dell’imprenditore sottoposto alla procedura concorsuale e soddisfare non integralmente i creditori. Per questa considerazione, la questione è irrilevante nella parte in cui è impugnato l’art. 6, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003 e non il comma 1-bis, che è, invece, la disposizione applicabile nella specie.

         Inoltre, è errata la comparazione con la fattispecie disciplinata dall’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, perché in quest’ultima la circostanza che l’imprenditore insolvente continua l’attività e non è spossessato dei beni giustifica l’inammissibilità dell’azione revocatoria fallimentare.

         Relativamente al parametro dell’art. 41 Cost., una volta ritenuta la legittimità della norma che rende ammissibile l’azione revocatoria fallimentare, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale è evidente.

         3.2.− Parmalat s.p.a. e Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria hanno depositato due distinte memorie, di contenuto sostanzialmente coincidente, allegando la proposta di concordato e la sentenza di omologazione del concordato stesso.

         3.2.1.− La Parmalat s.p.a. deduce che, in quanto assuntore del concordato e cessionaria delle azioni revocatorie, è titolare di un interesse qualificato che legittima l’intervento spiegato nel giudizio di costituzionalità.

         3.2.2.− Entrambe le società premettono che il programma di ristrutturazione, il quale prevede che la possibilità di soddisfare i creditori avvenga mediante un concordato con attribuzione all’assuntore delle attività delle imprese interessate dalla proposta, è stato approvato il 23 luglio 2004 e l’azione oggetto del giudizio principale è stata proposta con citazione notificata il 5 ed il 31 gennaio 2005. In base al programma di ristrutturazione il commissario straordinario ha costituito una società propostasi quale assuntore del concordato; le azioni di questa sono state integralmente attribuite ai creditori e, inoltre, quale patto di concordato, è stato previsto: il conferimento da parte dei creditori chirografari di un mandato alla Fondazione costituita dal commissario a sottoscrivere l’aumento di capitale dell’assuntore, compensando i crediti di quelli, ridotti dalla falcidia concordataria, con il debito derivante dalla sottoscrizione delle azioni; la cessione all’assuntore delle attività delle società interessate dalla proposta di concordato, nonché delle azioni revocatorie e delle azioni di responsabilità promosse dal commissario straordinario.

         Le società reiterano le argomentazioni già svolte negli atti di costituzione e di intervento a conforto del difetto di rilevanza della questione nella parte in cui censura l’intero art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, senza considerare che, nella specie, la norma applicabile è soltanto quella del comma 1-bis di detto articolo. Inoltre, ribadiscono gli argomenti esposti per censurare il provvedimento di rimessione, in quanto in esso si è omesso di verificare la possibilità di offrire un’interpretazione della norma impugnata conforme a Costituzione, sottolineando che, in riferimento al principio di ragionevolezza, il rimettente neppure ha considerato che detta disposizione realizza in modo equilibrato la tutela dei creditori e l’interesse alla continuità dell’attività dell’impresa. Infatti, l’esercizio dell’azione revocatoria e il suo trasferimento all’assuntore del concordato sono stati correttamente previsti all’interno di un programma di risanamento oggettivo, coerente con l’azione revocatoria, da reputarsi inammissibile solo nel caso di risanamento soggettivo.

         Peraltro, la norma impugnata è parte di un atto normativo che mira a conservare il valore dell’impresa, principio al quale si è ispirata anche la recente riforma della legge fallimentare, che ha previsto meccanismi idonei ad assicurare il risanamento oggettivo anche riproducendo, in alcune parti, la disciplina introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003 (in particolare, sono richiamate le norme in tema di vendita ed affitto dell’azienda, nonché la nuova disciplina del concordato fallimentare).

         3.2.3.− Secondo le società, l’ordinanza di rimessione, nel comparare le discipline recate dal decreto-legge n. 347 del 2003 e dal d.lgs. n. 270 del 1999, fa riferimento all’art. 27, comma 2, lettera b), di quest’ultimo, senza avvedersi che detta norma ha ad oggetto un programma di ristrutturazione strumentale rispetto allo scopo di permettere il ritorno in bonis dell’imprenditore insolvente, mentre l’art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 ha ad oggetto un programma di risanamento relativo all’impresa, e non già all’imprenditore: sicché il riferimento alla proponibilità dell’azione revocatoria soltanto qualora comporti un vantaggio per i creditori vuol dire, appunto, che tale azione non può mai tradursi in un vantaggio per l’imprenditore. Tanto accade nel caso in esame, e di ciò l’ordinanza di rimessione non si è avveduta, in quanto non ha correttamente distinto tra imprenditore ed impresa e tra risanamento concernente il primo o la seconda.

         3.2.4.− Questa confusione tra i due concetti permette di evidenziare l’infondatezza della censura riferita all’art. 41 Cost., dato che nel caso del concordato resta sul mercato un nuovo imprenditore, il quale ha pagato un prezzo per l’acquisto dell’azienda, riferito anche alle azioni revocatorie. Nella specie, la società assuntrice è Parmalat s.p.a. che non è la società dei signori Tanzi, ma è una società partecipata esclusivamente dai suoi creditori.

         Peraltro, anche nell’ordinamento francese è previsto il redressement judiciaire, nel quale è ammissibile l’azione revocatoria nel caso di prosecuzione dell’attività finalizzata alla cessione dell’attività d’impresa ad un nuovo imprenditore.

         Analogamente, nell’ordinamento tedesco è previsto l’Insolvenzplan, nel quale è stabilita la compatibilità dell’azione revocatoria con la prosecuzione dell’attività di impresa.

         3.2.5.− In riferimento alle argomentazioni svolte da HSBC, le società deducono che l’azione revocatoria è stata proposta dopo l’autorizzazione del programma di ristrutturazione e tanto è sufficiente a renderla ammissibile, in quanto ciò che rileva è appunto detta autorizzazione, non l’esecuzione del programma, atteso che è la prima a far imboccare alla procedura una strada obbligata, che può condurre soltanto alla approvazione del concordato, ovvero ad un programma di cessione, oppure al fallimento.

         Inoltre, a loro avviso, la comparazione con l’art. 124 della legge fallimentare è pertinente, in quanto anche il concordato previsto dal decreto-legge n. 347 del 2003 ha finalità liquidatoria e mira al soddisfacimento dei creditori, sia pure mediante compensazione con il debito di sottoscrizione dell’aumento di capitale dell’assuntore. Infine, le argomentazioni sopra svolte dimostrano l’inesattezza della tesi svolta dalla HSBC, al fine di sostenere che la norma impugnata viola l’art. 41 Cost.

         3.3.− HSBC ha depositato memoria nella quale sostiene che Parmalat s.p.a., nonostante la crisi e la riduzione del fatturato, è ancora titolare di rilevanti quote di mercato in riferimento ad alcuni prodotti per i quali, secondo un provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha una posizione dominante (provvedimento 30 giugno 2005, n. 14452). L’esperimento delle azioni revocatorie permetterà alla società di incassare somme rilevanti che, in forza dello statuto della società, le consentiranno di rafforzare struttura e competitività.

         3.3.1.− HSBC deduce che la questione è rilevante, sia in quanto il rimettente ha espressamente e plausibilmente motivato sul punto e tanto basta al fine del controllo "esterno” che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, va effettuato nel giudizio di costituzionalità, sia in quanto la norma applicabile è proprio l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 e non il solo comma 1-bis di detto articolo. Infatti, alla data di proposizione dell’azione, «il concordato non esisteva ancora» ed inoltre il combinato disposto dell’art. 6, comma 1-bis, citato, e dell’art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), dello stesso decreto-legge rende chiaro che la possibilità di trasferimento all’assuntore delle azioni revocatorie implica che dette azioni siano state promosse in base al medesimo art. 6.

         3.3.2.− La banca, sintetizzata la giurisprudenza costituzionale in tema di principio di eguaglianza, afferma che essa conforta la denunciata violazione di detto principio sia in riferimento ai principi generali che governano la materia concorsuale, sia in riferimento al tertium comparationis, correttamente individuato nella disciplina dell’amministrazione straordinaria recata dal d.lgs. n. 270 del 1999. A suo avviso, l’azione revocatoria è ammissibile soltanto qualora il relativo provento entri nella disponibilità dei creditori mediante la liquidazione concorsuale dell’attivo dell’impresa insolvente e sia ridistribuito ai creditori secondo le regole della legge fallimentare, mentre non può ritenersi esperibile quando il ricavato sia destinato all’impresa, che continua ad operare sul mercato in vista del proprio risanamento, in virtù di un principio enunciato dalla Corte di cassazione che ha ispirato la formulazione dell’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, secondo il quale nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria detta azione è esperibile soltanto in relazione alla fase liquidatoria.

         Ne discende che il rimettente avrebbe correttamente individuato il tertium comparationis nell’amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, richiamata dalle norme del decreto-legge n. 347 del 2003 ed indicata anche nei relativi lavori preparatori quale disciplina generale di riferimento, senza che la modalità della ristrutturazione realizzata nel caso in esame – mediante concordato – permetta di ritenere che il tertium evocabile sia l’art. 124 della legge fallimentare. Infatti, il concordato concluso all’interno dell’amministrazione straordinaria "accelerata” non muta il carattere conservativo della procedura, nella quale non sussiste un rapporto di funzionalità fra trasferimento delle azioni revocatorie ed incremento della percentuale di recupero del credito, mentre nel concordato fallimentare l’azione è strumentale a consentire il soddisfacimento dei creditori.

         In altri termini, il concordato previsto dall’art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 non è preordinato al soddisfacimento dei creditori mediante il riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo e costituisce un elemento accidentale della legge.

         D’altronde, se la comparazione dovesse essere effettuata sulla base della disciplina del concordato, essa dovrebbe avere riguardo al concordato disciplinato dagli artt. 78 e 74, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 270 del 1999, all’interno del quale, ad avviso della banca, non sarebbe proponibile l’azione revocatoria e la sua cessione all’assuntore, appunto perché il concordato in questo caso si inserisce in un piano di ristrutturazione.

         3.3.3.− Secondo la banca, sarebbe erroneo distinguere tra risanamento soggettivo e risanamento oggettivo, in quanto la distinzione rilevante è quella tra conservazione dell’impresa e liquidazione dei beni aziendali allo scopo di pagare i creditori, e con il concordato in esame non è attuata una siffatta liquidazione, ma si realizza il risanamento e la rimessione in bonis dell’imprenditore. Nella specie, che ciò sia accaduto è confermato dai risultati raggiunti dall’assuntore e dalle argomentazioni svolte in un’altra ordinanza dello stesso Tribunale, che ha sollevato una questione di costituzionalità identica a quella in esame.

         In conclusione, la norma impugnata e l’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 disciplinano fattispecie omogenee in modo difforme, realizzando una disparità di trattamento in danno dei creditori ed in contrasto con le linee generali della revocatoria fallimentare, stante l’incompatibilità funzionale tra detta azione ed il programma di ristrutturazione.

         3.3.4.− Relativamente al parametro dell’art. 41 Cost., la banca sottolinea che l’effetto distorsivo della concorrenza è correlato alla continuazione dell’attività di impresa ed alla possibilità della stessa di rimanere sul mercato soltanto grazie ai proventi dell’azione revocatoria, come risulta da una relazione economica allegata alla memoria.

         4.− In prossimità dell’udienza pubblica hanno depositato memorie − nel giudizio di cui all’ordinanza n. 53 r.o. del 2006 − Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a., Bipop Carire s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e Banca Toscana s.p.a., Credito siciliano s.p.a., Cassa di risparmio di Savona s.p.a. e il Presidente del Consiglio dei ministri.

         4.1.− Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a. svolgono deduzioni in tutto identiche a quelle svolte nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 r.o. del 2006.

         4.2.− Bipop Carire s.p.a. mette in evidenza che la norma impugnata, nel prevedere la possibilità dell’esercizio di azioni revocatorie nell’ambito di una procedura di risanamento, si pone «in stridente contraddizione» con la normativa del d.lgs. n. 270 del 1999, la quale vieta tali azioni «quando una parallela procedura di amministrazione straordinaria, in condizioni sostanzialmente identiche, sia autorizzata a svolgere un programma di ristrutturazione».

         4.2.1.− La deducente contesta la fondatezza della distinzione fra risanamento "oggettivo” (ovvero "dell’impresa”) e risanamento "soggettivo” (ovvero "dell’imprenditore”).

         Osserva, in primo luogo, che non è «neppure configurabile un siffatto netto sdoppiamento di ipotesi, che, al contrario, si configurano necessariamente in una irrilevante pluralità di situazioni che si differenziano tra loro soltanto mediante ipotetiche successive marginali graduali sfumature, che peraltro non sono idonee a delineare alcun tipo di reali contrapposizioni binarie, che viceversa possono agevolmente collocarsi secondo una scala in cui non sono mai individuabili nette situazioni antitetiche».

         Osserva, in secondo luogo, che la relazione che accompagna il decreto-legge n. 347 del 2003 metteva ab initio chiaramente in luce che lo scopo del provvedimento legislativo «era solo quello di consentire un più rapido avvio e svolgimento della procedura, onde garantire "la efficace e razionale ristrutturazione dell’impresa”, così da "conservare l’avviamento e la posizione di mercato dell’impresa” ed assicurando la ristrutturazione di attività "coerenti con l’oggetto principale dell’attività economica svolta”».

         Osserva, in terzo luogo, che l’esperibilità delle azioni revocatorie era stata prevista e voluta fin dal momento dell’emanazione del decreto-legge n. 347 nel dicembre del 2003, quando nel testo del provvedimento legislativo ancora non era stato inserito l’art. 4-bis (ai sensi del quale «nel programma di ristrutturazione il commissario straordinario può prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato, di cui deve indicare dettagliatamente le condizioni e le eventuali garanzie»).

         4.2.2.− La deducente contesta, poi, la fondatezza dell’assunto, secondo cui la «ristrutturazione» prevista dal d.lgs. n. 270 del 1999 e quella prevista dal decreto-legge n. 347 del 2003 non sarebbero fattispecie identiche, rilevando che esso «si scontra con l’inequivoco tenore letterale delle disposizioni poste a raffronto, che non consentono di distinguere fra un risanamento "ex legge Prodi-bis” ed un risanamento "ex legge Parmalat”», come è reso evidente, in particolare, dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003, a tenore del quale «le disposizioni del presente decreto si applicano alle imprese soggette alle disposizioni sul fallimento in stato di insolvenza che intendono avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’articolo 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270».

         Tale norma dimostra che è proprio la stessa "legge Parmalat” «ad avere fin dalla sua prima formulazione qualificato ed assimilato la procedura di ristrutturazione da essa stessa disposta come null’altro che una species di quella procedura» di cui al d.lgs. n. 270 del 1999.

         Nemmeno è sostenibile, a suo avviso, che vi sarebbe diversità fra le due procedure, allorché il «programma di ristrutturazione» ex decreto-legge n. 347 del 2003 sia realizzato mediante il concordato previsto dall’art. 4-bis dello stesso decreto-legge.

         Rileva nuovamente, a tale proposito, che la facoltà di esperire le azioni revocatorie era stata prevista già nel testo originario del decreto-legge n. 347 del 2003, ancor prima, quindi, che venisse aggiunta, ben più tardi, la previsione di una proposta di concordato.

         Si può, dunque, a suo avviso, affermare che «la distinzione fra risanamento oggettivo e soggettivo (a seconda della presenza o meno del concordato) rappresenta null’altro che una escogitazione a posteriori».

         Osserva, inoltre, che il concordato con assuntore non è affatto una innovativa peculiarità della "legge Parmalat”, ma era già espressamente previsto dagli artt. 74, comma 1, lettera c), e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, sicché la presenza di un concordato «rappresenta un elemento del tutto neutro al fine della qualificazione dell’indirizzo della procedura di amministrazione straordinaria».

         Sostiene, poi, che non è ammissibile alcuna analogia rispetto al concordato previsto in sede fallimentare dall’art. 124, secondo comma, della legge fallimentare: in detta sede l’esperibilità delle azioni revocatorie «non dipende certo dalla previsione di un concordato, ma dal fatto che il fallimento è, tipicamente, una procedura liquidatoria».

         4.2.3.− La deducente, infine, confuta la tesi, secondo cui la ratio del divieto delle revocatorie di cui all’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 starebbe nel fatto che con la procedura prevista da tale decreto legislativo l’imprenditore insolvente resterebbe a capo dell’impresa, di talché gli effetti vantaggiosi delle revocatorie sarebbero sempre a suo favore.

         Essa sostiene che non è vero che la ristrutturazione di cui alla "legge Prodi-bis” consenta all’imprenditore insolvente di restare nella titolarità e nella gestione dell’azienda, poiché simile affermazione non solo non risponde alla realtà, ma è smentita dalla circostanza che anche nell’ambito della ristrutturazione di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 è perfettamente ammissibile un concordato per assunzione, «che appunto fisiologicamente comporta lo "spossessamento” del "vecchio” imprenditore insolvente».

         Osserva, poi, che la ratio del divieto delle revocatorie nelle procedure di ristrutturazione consiste «nell’evitare che la stessa impresa, che resta in vita nella sua oggettiva consistenza e funzionalità, indipendentemente da qualche modifica dei singoli soci, tale e quale a prima, prosegua la propria attività godendo di un vantaggio che è precluso a tutte le sue concorrenti».

         Da questo punto di vista, appare, a suo avviso, inconferente l’analogia con la cessione all’assuntore dell’azienda nell’ambito del concordato fallimentare: «in questo caso, infatti, la revocatoria è consentita non certo perché l’assuntore si sostituisce al "vecchio” imprenditore insolvente, bensì perché, ovviamente, siamo nell’ambito di una procedura tipicamente liquidatoria (il concordato fallimentare) che persegue l’obiettivo del pagamento dei creditori in concorso, essendo ad essa estranea qualsiasi finalità di risanamento dell’impresa».

         La ristrutturazione della Parmalat «non ha nulla da spartire col concordato fallimentare con assunzione», posto che in essa, «a differenza che nel concordato fallimentare, manca qualsiasi ripartizione dell’attivo a favore dei creditori».

         Il concordato della procedura in questione «non prevede, infatti, alcun pagamento da eseguirsi da parte dell’assuntore», ma una sorta di datio in solutum, attribuendosi ai creditori azioni ordinarie dell’assuntore, ossia della "nuova” Parmalat s.p.a., la quale, «in realtà, dal punto di vista oggettivo, è identica alla "vecchia”».

         4.3.− Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e Banca Toscana s.p.a. contestano anch’esse la fondatezza della distinzione fra risanamento "oggettivo” (ossia "dell’impresa”) e risanamento "soggettivo” (ossia a beneficio dell’imprenditore insolvente), essendo chiaro che l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 prevede l’esperibilità delle azioni revocatorie in ogni caso.

         4.3.1.− Tale disposizione è costituzionalmente illegittima, innanzitutto, perché determina «una ingiustificata disparità di trattamento fra fattispecie analoghe»: da un lato, essa «crea un ingiustificato privilegio per l’impresa che si trova in amministrazione straordinaria» ai sensi del medesimo decreto-legge, con finalità di risanamento (l’unica finalità che legittima l’accesso alla procedura), rispetto alle imprese sottoposte all’amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999; dall’altro lato, «produce un ingiustificato trattamento deteriore per i terzi che abbiano avuto rapporti contrattuali» con la prima impresa rispetto a coloro che hanno avuto rapporti con le seconde.

         L’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, infatti, consente l’esercizio delle azioni revocatorie «soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» e, dunque, solo ove l’amministrazione straordinaria abbia finalità liquidatoria, e non conservativa.

         Tale differenza di trattamento è irragionevole, atteso che la circostanza che in amministrazione straordinaria si trovino "grandi” imprese (con almeno duecento dipendenti) ovvero "grandissime” imprese (con almeno cinquecento dipendenti) «è del tutto ininfluente circa la funzione demandata all’azione revocatoria, che mai può essere diretta a facilitare – attraverso la deroga alle regole generali – un sostanziale arricchimento dell’impresa che ne beneficia».

         4.3.2.− Né la differenza di disciplina può essere giustificata dal requisito del «vantaggio per i creditori» previsto dalla norma impugnata: infatti, la disparità di trattamento non viene meno se i proventi delle azioni revocatorie vanno a beneficio dei creditori, «perché anche in tal caso è violato il principio fondamentale per il quale l’imprenditore deve far fronte alle proprie obbligazioni con i proventi dell’attività di impresa».

         Peraltro, la locuzione «vantaggio per i creditori» è «priva di autonoma portata normativa», essendo insita nella natura dell’azione revocatoria «la sua strumentalità al vantaggio dei creditori».

         4.3.3.− La norma impugnata viola, altresì, il principio di libertà della concorrenza di cui all’art. 41 Cost., atteso che gli altri soggetti economici, che operano in concorrenza con l’impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria ex decreto-legge n. 347 del 2003, «non avendo a disposizione il rimedio dell’azione revocatoria per reintegrare il proprio patrimonio, si trovano ingiustificatamente in posizione di inferiorità sul mercato, e di conseguenza non possono svolgere la propria attività in condizioni di parità».

         Anche sotto questo profilo, il requisito del «vantaggio per i creditori» è irrilevante, poiché sono i creditori dell’impresa insolvente e non le imprese concorrenti che debbono «subire il pregiudizio derivante dall’insolvenza», avendo essi «fatto credito ad un’impresa che non lo meritava».

         4.3.4.− Le deducenti prospettano, in alternativa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata.

Il requisito del «vantaggio per i creditori» può rendere ammissibili le revocatorie solo se interpretato nel senso che «il commissario di un’impresa in ristrutturazione deve distribuire ai creditori, senza trattenerlo a beneficio dell’impresa, tutto quanto incassi dalle azioni revocatorie; oppure, se l’impresa conclude un concordato, è necessario che i proventi delle azioni revocatorie, attraverso l’assuntore che le prosegue, siano integralmente destinati ai creditori, in via immediata e diretta, e quindi in denaro». Inoltre, è necessario che «il riparto di tutti i proventi di ciascuna singola azione revocatoria avvenga a favore dei soli creditori della specifica società che ha compiuto l’atto revocabile».

         4.3.5.− Le deducenti osservano, poi, che, nello specifico caso del concordato della Parmalat, in cui si è prevista la cessione delle azioni revocatorie ad una società assuntrice e il soddisfacimento dei creditori mediante attribuzione di titoli azionari di detta società, le azioni revocatorie non sono state considerate nei recovery ratios (ossia nelle percentuali che i creditori avrebbero potuto recuperare dal patrimonio delle società debitrici in caso di liquidazione); e che, comunque, le revocatorie arrecheranno «un vantaggio netto all’assuntore, del quale potranno (eventualmente) trarre beneficio i relativi azionisti, ma soltanto in tale veste ed a prescindere dalla qualità o meno di creditori originariamente rivestita».

         4.3.6.− Le deducenti, passando a confutare le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, osservano che, avendo la parte attrice promosso l’azione revocatoria sulla base dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, ove tale norma venisse espunta dall’ordinamento, «la domanda diverrebbe inammissibile», donde la indubbia rilevanza della questione ai fini della decisione del giudizio a quo.

         La questione, inoltre, è rilevante anche con riferimento all’ipotesi di ristrutturazione senza concordato, per il fatto che la sentenza di omologazione del concordato non è ancora passata in giudicato; non è, quindi, possibile escludere che l’azione revocatoria, in difetto di omologazione, «sia proseguita dalla sola Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, sulla base della legittimazione ordinaria prevista dal primo comma dell’art. 6 in esame», e, dunque, nell’ambito, extraconcordatario, di «una ristrutturazione industriale che ha come traguardo finale il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali» (come si esprime l’Avvocatura dello Stato), ossia proprio quel contesto in cui, secondo la difesa erariale, l’azione revocatoria sarebbe costituzionalmente illegittima.

         Nel merito, le deducenti osservano che è infondato l’assunto, secondo cui la norma impugnata sarebbe costituzionalmente legittima limitatamente alla parte in cui ammette l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare nella procedura di amministrazione straordinaria mediante ristrutturazione industriale definita con un concordato, poiché in tal caso, facendosi luogo ad una "falcidia” concorsuale, l’azione revocatoria manterrebbe le sue tipiche funzioni (recuperatoria e ridistributiva).

         Tale assunto non è compatibile con l’impianto del decreto-legge n. 347 del 2003, posto che l’assuntore non può autonomamente proporre le revocatorie, ma può solo proseguire quelle promosse dal commissario straordinario. Di conseguenza, si avrebbe una «struttura dell’azione revocatoria davvero anomala», in quanto «unico legittimato a proporla sarebbe un soggetto (il commissario straordinario) che a seguito del concordato non sarebbe legittimato a proseguirla; l’azione proposta dal commissario straordinario sarebbe contraria ai principi costituzionali fino a quando non fosse proseguita dall’assuntore; nonostante l’intervento dell’assuntore a seguito della sentenza di primo grado di approvazione del concordato (come nella specie), la legittimità dell’intervento, e quindi dell’azione revocatoria stessa non sussisterebbe fino al passaggio in giudicato della sentenza stessa». Una volta, poi, passata in giudicato detta sentenza, non si comprenderebbe come l’azione possa divenire ammissibile nel corso del giudizio.

         D’altro canto, l’asserita compatibilità fra ristrutturazione con "falcidia” dei crediti e azioni revocatorie è smentita dal fatto che anche nell’amministrazione straordinaria di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 la ristrutturazione può essere effettuata mediante concordato (art. 56, comma 3, ultima parte, del citato decreto legislativo) e nonostante ciò l’esperibilità dell’azione revocatoria è preclusa: «segno evidente che detta esperibilità non richiede (solo) il mancato integrale pagamento dei creditori, ma presuppone anche l’eliminazione dell’impresa dal mercato», proprio ciò che, invece, il decreto-legge n. 347 del 2003 «si proponeva di evitare».

         4.4.− Credito siciliano s.p.a., premesso che l’azione revocatoria – come è stato chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 379 del 2000) – è strumentale al soddisfacimento dei creditori e non può perseguire finalità diverse, osserva che il concordato proposto dal commissario straordinario di Parmalat, sulla base dell’art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003, prevede il soddisfacimento dei creditori chirografari mediante assegnazione di azioni della società assuntrice, con il che i creditori «perdono la qualità di creditori ed assumono quella di azionisti». «In questa prospettiva, l’esito favorevole delle domande revocatorie non è più destinato a reintegrare la garanzia dell’articolo 2740 cod. civ. (i debiti delle imprese insolventi sono, infatti, estinti), ma ad attribuire valore alle azioni della società assuntrice». Le azioni revocatorie, dunque, non servono a garantire il pagamento dei creditori, ma rappresentano un diverso beneficio patrimoniale, «un "plusvalore”, e, cioè, un vantaggio "ulteriore” e diverso, che nulla ha da vedere con il pagamento dei crediti», il quale «si esaurisce nell’assegnazione dei titoli azionari». I risultati utili delle azioni revocatorie entrano nel patrimonio di un soggetto diverso dal debitore insolvente, la società assuntrice, e di essi beneficiano, in via mediata, i suoi azionisti, i quali, però, «non coincidono necessariamente con i creditori chirografari».

         Con ciò il decreto-legge n. 347 del 2003, «discostandosi irragionevolmente dai principi che regolano la materia, piega la revocatoria fallimentare ad esigenze del tutto improprie».

         4.4.1.− La deducente osserva, poi, che i convenuti soccombenti nei giudizi revocatori, ammessi al concorso per il credito conseguente alla restituzione di quanto avevano ricevuto, saranno anch’essi soddisfatti mediante assegnazione di titoli azionari della società assuntrice e saranno, dunque, costretti a diventare soci di questa, «pur non avendovi consentito», e a differenza di quanto previsto dal d.lgs. n. 270 del 1999 per i soccombenti nelle revocatorie promosse nell’ambito delle procedure da esso disciplinate.

         Di talché il decreto-legge n. 347 del 2003 determina «una evidente violazione della libertà di iniziativa economica (articolo 41 Cost.) e del principio di uguaglianza (articolo 3 Cost.)».

         4.4.2.− La deducente osserva, infine, «come nel caso di specie sia ravvisabile un vizio di eccesso di potere legislativo sotto il profilo dello sviamento dell’attività legislativa; da un lato, infatti, la normativa, al di là del suo apparente contenuto generale, è stata adottata al fine specifico di supportare esigenze proprie dell’amministrazione straordinaria di Parmalat, perseguendo con ciò un fine diverso da quello proprio dello strumento legislativo. Dall’altro essa manifesta, in ogni caso, una altrettanto evidente contraddizione tra fini perseguiti e mezzi predisposti, che si risolve in sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa».

         4.5.− Cassa di risparmio di Savona s.p.a., nel ribadire le sue conclusioni, segnala che il Tribunale ordinario di Parma, con ordinanza del 1° marzo 2006, ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 1-ter, del decreto-legge n. 347 del 2003.

         4.6.− L’Avvocatura generale dello Stato, per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, ha anch’essa depositato memoria, di contenuto identico a quello della memoria depositata nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 r.o. del 2006.

         4.7.− Ha, altresì, depositato memoria Sanpaolo-IMI s.p.a., non costituita nel giudizio a quo, ma intervenuta nel giudizio di costituzionalità.

         5.− In data 31 marzo 2006, Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a. hanno depositato una ulteriore memoria della quale, per la sua tardività, è stato disposto lo stralcio dagli atti.

Considerato in diritto

         1.− Il Tribunale ordinario di Parma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, assumendone il contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui consente l’esercizio delle azioni revocatorie, previste dagli articoli 49 e 91 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), in costanza di un programma di ristrutturazione dell’impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria.

         In proposito va precisato che né il decreto-legge 28 febbraio 2005, n. 22 (Interventi urgenti nel settore agroalimentare), né la relativa legge di conversione 29 aprile 2005, n. 71, hanno inciso, contrariamente a quanto si afferma nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, sulla norma censurata (ma soltanto sull’art. 4-bis, comma 6, ultimo periodo, del decreto-legge n. 347 del 2003).

         Va, altresì, precisato che, nei giudizi a quibus, non si pone in concreto alcuna questione concernente le azioni revocatorie cosiddette "infragruppo” di cui all’art. 91 del d.lgs. n. 270 del 1999.

         2.− L’identità delle argomentazioni svolte dalle ordinanze di rimessione impone la riunione dei giudizi.

         3.− Preliminarmente, deve essere ribadito quanto statuito con ordinanza − della quale è stata data lettura in udienza e che viene allegata alla presente sentenza − circa l’ammissibilità dell’intervento spiegato da Parmalat s.p.a. nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 r.o. del 2006 e l’inammissibilità dell’intervento spiegato, nel giudizio di cui all’ordinanza n. 53 r.o. del 2006, da Sanpaolo-IMI s.p.a. e da UBS Limited.

         4.− Le questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. non sono fondate.

         4.1.− La violazione dell’art. 3 Cost. è ravvisata dai rimettenti nella irragionevole disparità tra il trattamento riservato all’impresa che abbia in corso un programma di ristrutturazione, da un lato, dall’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni (cosiddetta "legge Marzano”), e, dall’altro lato, dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 (cosiddetta "legge Prodi-bis); ciò in quanto l’una consente e le altre escludono − anche nel caso di concordato autorizzato ex art. 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, nonostante oggetto di disciplina sia sempre la procedura di amministrazione straordinaria di grandi imprese in crisi, ed anzi il d.lgs. n. 270 del 1999 costituisca la «normativa generale di riferimento cui la "legge Marzano” fa espresso riferimento» − l’esperimento delle azioni revocatorie fallimentari, quando sia perseguita «la ristrutturazione economica e finanziaria» dell’impresa insolvente.

         Ricordato che l’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, prevedendo che le azioni revocatorie «possono essere proposte dal commissario straordinario soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» e rilevato che «detta previsione normativa ha reso il nostro ordinamento nuovamente in linea con le finalità connaturate all’azione revocatoria fallimentare» (di ricostruzione del patrimonio del debitore ovvero di ripartizione della perdita tra tutti i creditori), le ordinanze de quibus escludono che procedure miranti alla conservazione, e non già alla liquidazione dell’impresa, siano compatibili con le funzioni − recuperatoria e ridistribuiva − dell’azione revocatoria.

         Irragionevolmente la norma censurata avrebbe «ribaltato la scelta consapevolmente operata con l’art. 49 della legge "Prodi-bis», e tale irragionevolezza «risulta amplificata, ove si consideri come l’opzione a favore della "Marzano” sia sostanzialmente rimessa dal legislatore all’unilaterale iniziativa dell’impresa insolvente, la quale potrebbe essere opportunisticamente motivata dalle possibilità di eterofinanziamento insito nell’esercizio di azioni revocatorie».

         Del tutto pleonastico ed inconcludente sarebbe l’inciso per cui occorre che le azioni «si traducano in un vantaggio per i creditori» ed irrilevante sarebbe la circostanza che, nel caso di specie, il «risanamento» abbia ad oggetto l’impresa − ceduta, a seguito di concordato, ad un assuntore − e non già l’imprenditore: ed infatti, osservano i rimettenti, il concordato costituisce solo una delle modalità del programma di ristrutturazione (laddove l’art. 6 «assicura lo strumento revocatorio alla procedura di amministrazione straordinaria in quanto tale»), sicché «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura […] nell’ambito della quale l’epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell’imprenditore all’ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato, ivi compreso il concordato con assunzione che costituisce un’ipotesi del tutto eventuale e residuale di conclusione del programma di ristrutturazione dell’impresa, cui il legislatore assegna la sola valenza di determinare l’immediata chiusura della procedura rispetto alla sua fisiologica durata ed al suo naturale espletamento».

         4.2.− Deve osservarsi, in primo luogo − e salvo quanto diffusamente si osserverà circa gli sviluppi e gli esiti della procedura (rectius: delle procedure) di cui alla "legge Marzano” −, che è priva di riscontro normativo la tesi secondo la quale «l’opzione a favore della "Marzano” sia sostanzialmente rimessa dal legislatore all’unilaterale iniziativa dell’impresa insolvente», se con ciò si intende affermare − come sembra presupporre il riferimento al fine di giovarsi di eterofinanziamenti altrimenti preclusi − che la scelta in favore della procedura speciale sia rimessa all’impresa insolvente. Se è vero, infatti, che l’impresa insolvente è legittimata a proporre l’istanza (art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003), è anche vero che l’istanza stessa, «motivata e corredata di adeguata documentazione», deve essere vagliata dal Ministro, prima (ai fini dell’emissione del decreto), e dal tribunale, poi (ai fini della dichiarazione dello stato di insolvenza), e che l’intervento del tribunale deve essere sollecitato con «contestuale ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza» (art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003) e con immediata comunicazione del decreto del Ministro (comma 3).

         L’ammissione alla procedura de qua, quindi, è subordinata ad una verifica − dapprima in sede amministrativa, e quindi in sede giurisdizionale − della sussistenza dei requisiti "dimensionali” previsti dall’art. 1 del decreto-legge n. 347 del 2003; alla stessa verifica, cioè, alla quale è subordinata − ma in ordine inverso − l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999.

         È del tutto evidente che tale iter − che mira ad «accelerare la definizione dei relativi procedimenti, assicurando la continuazione ordinata delle attività industriali senza dispersione dell’avviamento» (così la premessa del decreto-legge n. 347 del 2003) − non altera, rispetto alla procedura "ordinaria” di cui al d.lgs. n. 270 del 1999, le garanzie di controllo commesse dalla legge all’autorità giudiziaria ed a quella amministrativa, discendendo l’applicazione dell’una o dell’altra procedura esclusivamente dai requisiti "dimensionali” che ne costituiscono il presupposto.

         4.3.− Muovendo dalla corretta premessa − avallata anche da questa Corte (sentenza n. 379 del 2000) − secondo la quale il sacrificio che l’azione revocatoria impone ai terzi «trova adeguata giustificazione nelle esigenze di tutela della par condicio» e che, pertanto, di essa non può giovarsi l’imprenditore insolvente, le ordinanze di rimessione fanno di tale premessa, attraverso un’interpretazione angustamente letterale del combinato disposto dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 6, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003, un’applicazione inaccettabile.

         Ed infatti, poiché la prima norma fa riferimento alle imprese «che intendono avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’art. 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270» e la seconda norma consente «le azioni revocatorie previste dagli articoli 49 e 91 del decreto legislativo n. 270 anche nel caso di autorizzazione all’esecuzione del programma di ristrutturazione», se ne deduce che l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 consente all’imprenditore insolvente di ristrutturarsi − e di tornare in bonis − a spese dei terzi assoggettati a revocatoria: ciò che, da un lato, l’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 esclude e ciò che, dall’altro lato, non sarebbe impedito dall’inciso finale – "pleonastico”, si dice − dello stesso art. 6, comma 1 («purché si traducano in un vantaggio per i creditori»).

         In realtà, deve escludersi che quella appena riferita non solo sia l’unica possibile, ma anche che essa sia la corretta interpretazione delle norme in questione, e cioè che la "legge Marzano” abbia attribuito all’azione revocatoria, in spregio delle sue funzioni recuperatoria e redistributiva, il compito di consentire all’imprenditore insolvente di ristrutturare l’impresa a spese dei terzi assoggettati − per atti in sé legittimi, ma posti in essere nel periodo sospetto − alle revocatorie esperite (sostanzialmente, anche se non formalmente) dal debitore per consentirgli di tornare in bonis.

         L’erroneità dell’interpretazione adottata dai rimettenti è rivelata, in primo luogo, dal costante uso promiscuo − quasi si trattasse di sinonimi − delle locuzioni «imprenditore insolvente» e «impresa insolvente»; commistione di termini (e di concetti) dalla quale deriva, in secondo luogo, l’asserita indifferenza delle «modalità» attraverso le quali si può realizzare il «risanamento» (considerato in sé) e, ancora, la pretesa di censurare «la disciplina generale della procedura», prescindendo dall’esame delle singole disposizioni di cui si compone la "legge Marzano” e acriticamente assimilando gli esiti (ben diversi) della procedura ed i contenuti che può assumere il programma di ristrutturazione.

         4.4.− In realtà il decreto-legge n. 347 del 2003 introduce una procedura speciale, che si articola in vari sub-procedimenti, nell’ambito di quella prevista dal d.lgs. n. 270 del 1999, della quale condivide la natura («concorsuale») e le finalità («conservative del patrimonio produttivo»), enunciate dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 270 del 1999.

         Tale decreto legislativo persegue quelle finalità (art. 27) attraverso due strumenti alternativi: il programma di cessione, nel quale la finalità conservativa è associata ad una modalità liquidatoria, che di quella finalità sia rispettosa (l’art. 63 chiarisce che, ai fini della scelta dell’acquirente, sul criterio dell’ammontare del prezzo offerto prevale quello dell’affidabilità ai fini della prosecuzione dell’attività e del mantenimento dei livelli occupazionali), ed il programma di ristrutturazione, nel quale la finalità conservativa dell’impresa mira a far sì che l’imprenditore recuperi «la capacità di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni», come prevedono gli artt. 70, lettera b), e 74, lettera b).

         La "legge Marzano”, a sua volta, indica tra i «requisiti per l’ammissione» alla procedura (così la rubrica dell’art. 1) l’intento dell’impresa insolvente di «avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’articolo 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270» (e cioè del programma di ristrutturazione che, nella "Prodi-bis”, è alternativo rispetto a quello, liquidatorio-conservativo, di cessione), ma non esclude affatto che la procedura si evolva − fin dalla redazione del programma, o anche successivamente − verso programmi aventi un indirizzo ed un esito diversi da quello indicato nella sua istanza dall’impresa insolvente. Ed infatti, l’art. 4, comma 4, del decreto-legge n. 347 del 2003 chiarisce inequivocabilmente che il programma di ristrutturazione di cui all’art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999 può essere sostituito − se è possibile adottarlo − da uno di cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del medesimo decreto legislativo, e che, ove questo non sia adottabile, può farsi luogo alla dichiarazione di fallimento: dove è evidente che il requisito indicato dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003 connota l’istanza di ammissione, e non già (e tanto meno indefettibilmente) la procedura, la quale può evolversi verso esiti conservativo-liquidatori (cessione) ovvero liquidatori tout court (fallimento).

         In questo contesto − che esclude alla radice la correttezza del sillogismo secondo il quale, non essendo ammissibili azioni revocatorie nelle procedure conservative ed avendo sempre la procedura de qua carattere conservativo, sarebbe illegittima la norma che quelle azioni consente − si inserisce il disposto dell’art. 4-bis della "legge Marzano”, la cui specificità sta in ciò, che esso prevede che il concordato possa far parte, ed anzi costituire elemento essenziale, del programma approntato dal commissario straordinario. Il tenore letterale della norma, peraltro, rende evidente che il concordato può essere con assunzione ovvero senza, e cioè o con l’intervento di un terzo al quale sia ceduto l’intero patrimonio dell’imprenditore insolvente e che «si accolla l’obbligo di adempiere il concordato», ovvero senza alcun intervento di terzi e con la previsione, al più, che un terzo garantisca l’adempimento delle obbligazioni assunte, con il concordato, dall’imprenditore insolvente.

         È del tutto evidente che le due possibili modalità del concordato − individuate nel citato art. 4-bis, comma 1: quello senza assuntore alla lettera c) e quello con assuntore alla lettera c-bis) − rispondono, l’uno (senza assuntore), all’indirizzo conservativo di cui alla lettera b) dell’art. 27 del d.lgs. n. 270 del 1999 e, l’altro, all’indirizzo di «cessione dei complessi aziendali» di cui alla lettera a) della medesima norma (quale liquidazione forfetaria del patrimonio del debitore).

         In sintesi, un esame dell’intero sistema normativo delineato dalla "legge Marzano” rende chiaro come questo, muovendo sempre da un proposito (dell’impresa insolvente) di conservazione del patrimonio produttivo in vista del ritorno in bonis, consenta, da un lato, di dare attuazione a tale proposito attraverso il programma di ristrutturazione (e, nell’ambito di questo, valendosi anche dello strumento del concordato, nel quale un terzo può assumere, al più, il ruolo di garante) ovvero, dall’altro lato, di evolversi verso la liquidazione (pur sempre conservativa) del patrimonio produttivo, attuabile o con la cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 o con il concordato con assuntore ovvero, ancora, verso esiti esclusivamente liquidatori con il fallimento.

         È appena il caso di rilevare come le due modalità del concordato previste dall’art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 corrispondano perfettamente a quelle già previste dall’art. 124 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), il quale consente la cessione delle azioni revocatorie «già proposte dal curatore» all’assuntore («a favore del terzo che si accolla l’obbligo di adempiere il concordato»: comma secondo) e la esclude (comma terzo) «a favore del fallito e dei suoi fideiussori» (e, quindi, anche nel caso di concordato con garanzia del terzo); così come è agevole rilevare che il medesimo art. 124 − come modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80) − ammette modalità di soddisfazione dei creditori del tutto identiche a quelle previste dalla "legge Marzano”.

         Quanto all’argomento che le ordinanze di rimessione tentano di trarre dall’art. 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, è agevole osservare che il concordato al quale tale norma fa riferimento certamente non prevede, né può prevedere, cessione alcuna di azioni revocatorie se esso è conclusivo di una procedura di ristrutturazione ex art. 27, comma 2, lettera b) (essendo evidente che tali azioni non potevano essere esperite dal commissario, per il divieto di cui all’art. 49), mentre altrettanto certamente esso può prevedere una tale cessione se, avendo il commissario iniziato azioni revocatorie prima della proposta di concordato, questo intervenga a chiusura di una procedura con programma di cessione dei beni ex art. 27, comma 2, lettera a), e l’obbligo di adempiere le obbligazioni derivanti dal concordato sia stato assunto da un terzo: il carattere "neutro”, insomma, dell’art. 78 non consente di affermare l’estraneità della cessione delle azioni revocatorie al "concordato”, monoliticamente considerato, della "legge Prodi-bis.

         4.5.− Il quadro normativo che si è appena delineato, quale risulta dall’esame dell’intero contenuto del decreto-legge n. 347 del 2003, comporta l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente esclusivamente sulla base della locuzione con la quale, nell’art. 1, comma 1, del medesimo decreto-legge è definito il programma nel momento in cui è proposta l’istanza di ammissione alla procedura speciale.

         Una adeguata considerazione di quel quadro normativo, infatti, non consente certamente di qualificare "pleonastico” l’inciso finale dell’art. 6, comma 1, ma, al contrario, di attribuirgli valore e significato ben precisi, idonei a fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati: è evidente, infatti, che quell’inciso − in una norma la cui prima parte (derivante dall’originaria stesura del provvedimento normativo) sembra ammettere sempre ed in ogni caso l’esperibilità delle azioni revocatorie − ben può (e deve) essere inteso nel senso che quelle azioni sono ammissibili solo quando la procedura si sia evoluta in senso liquidatorio, e cioè o verso la cessione di cui all’art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 o verso il concordato con assunzione ovvero, ancora, verso il fallimento. L’infondatezza della questione, come sollevata dai rimettenti, è confermata non solo dall’oscurità dell’affermazione, apodittica, per la quale sarebbe "dubbio” il parametro costituito dall’art. 124 del r.d. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), ma anche, e soprattutto, dall’affermazione finale secondo la quale «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura, nell’ambito della quale l’epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell’imprenditore all’ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato (artt. 4 e 4-bis)»: passo dal quale emerge limpidamente come l’asserita irrilevanza dell’indirizzo assunto in concreto dalla procedura discenda dall’impostazione "nominalistica” della questione, fondata sulla sola lettera dell’art. 1, comma 1, della "legge Marzano”, e comporti l’arbitraria attribuzione alla procedura, quali che siano le «modalità» attraverso le quali si svolge, di un «epilogo naturale» («ritorno dell’imprenditore all’ordinaria operatività industriale») che è estraneo proprio alla «modalità» (e non solo ad essa) assunta nell’ipotesi oggetto dei giudizi a quibus. Tanto poco il «ritorno dell’imprenditore all’ordinaria operatività industriale» costituisce l’«epilogo naturale» della procedura de qua che, ove il concordato con assuntore non fosse stato approvato dai creditori o non fosse stato omologato dal tribunale, sarebbe stata possibile − ex art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge n. 347 del 2003 − la presentazione di un piano di cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 e, in caso di mancata presentazione o di mancata approvazione, la dichiarazione di fallimento; sicché una «modalità» liquidatoria segue, sempre e necessariamente, non solo alla (iniziale) impraticabilità del piano di ristrutturazione (art. 4, comma 4), ma anche alla mancata approvazione del concordato, conservativo se con garanzia, o liquidatorio se con assuntore.

         5.− Le questioni sollevate in riferimento all’art. 41 Cost. non sono fondate.

         5.1.− Premesso che «il risanamento agevolato da misure di sostegno finanziario non può considerarsi un vero e proprio risanamento né in senso economico né giuridico», i giudici rimettenti deducono che «il risanamento dell’impresa mediante l’esperimento dell’azione revocatoria costituisce un ingiustificato privilegio […] e determina un effetto distorsivo della concorrenza», in quanto le somme riscosse a seguito delle revocatorie non sono destinate alla soddisfazione dei creditori, ma ad «una forma di finanziamento forzoso a favore dell’impresa insolvente»; sicché «l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare nell’ambito di una procedura di ristrutturazione aziendale determina una forte e strutturale distorsione della libera concorrenza tra imprese con conseguente violazione dell’art. 41 Cost.», il quale «garantisce che ogni operatore economico possa operare sul mercato in una situazione di parità con gli altri imprenditori e che il profitto, e quindi il successo, dell’impresa dipenda dal giudizio insito nelle dinamiche di mercato».

         5.2.− Le considerazioni in precedenza svolte circa l’incomparabilità dell’impresa (rectius: dell’imprenditore) oggetto di «risanamento» a norma del d.lgs. n. 270 del 1999 e di quella "risananda” a mezzo di concordato con assuntore ex art. 4-bis della "legge Marzano” sono sufficienti per dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, laddove questa sembra prospettare una irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie sostanzialmente identiche, e in particolare − secondo quanto sottolineano le parti private convenute nei giudizi a quibus − nei confronti dei terzi assoggettabili a revocatoria per aver posto in essere atti revocabili nel periodo sospetto ove coinvolti nell’una ovvero nell’altra procedura. Ora, a parte la considerazione che la censura è estranea all’art. 41 Cost., la lamentata disparità di trattamento tanto poco è irragionevole che essa può verificarsi − ma anche stavolta per la decisiva ragione che nel primo caso, se esse fossero esperibili, beneficiario delle azioni revocatorie sarebbe l’imprenditore insolvente − anche nelle ipotesi di concordato fallimentare con garanzia del terzo e di quello con assunzione.

         5.3.− Non fondata è anche la questione sollevata sotto il profilo del turbamento alla concorrenza ed alla parità di condizioni tra imprenditori sul mercato per la possibilità, che l’esperimento di azioni revocatorie consentirebbe, per l’impresa insolvente di giovarsi del «finanziamento forzoso» costituito dal recupero di somme erogate ai terzi nel periodo sospetto.

         5.3.1.– Occorre premettere, in proposito, che la "legge Marzano” costituisce una procedura speciale rispetto a quella, generale, disciplinata dalla "legge Prodi-bis”: specialità, si è già sottolineato, consistente in una diversa modulazione della fase iniziale e nella previsione di una maggiore articolazione degli strumenti utilizzabili – e del momento in cui sono utilizzabili – per conseguire il (comune) fine conservativo del «patrimonio produttivo».

         La constatazione − condivisa, ovviamente, dai rimettenti − che, per tutto quanto non esplicitamente derogato, trova applicazione la "legge Prodi-bis (ed in particolare le norme – profondamente innovative rispetto a quanto prevedeva il decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, "Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”, convertito, con modificazioni, nella legge 3 aprile 1979, n. 95 – di cui agli artt. 55, comma 2, e 58, comma 1) rende evidentemente inconferenti i cenni dedicati dalle ordinanze di rimessione a problematiche sorte nei confronti della normativa del 1979.

         In ogni caso, va ribadito che i presupposti per l’ammissione al concordato sono gli stessi – nulla disponendo in proposito la "legge Marzano”, se non (come poi ha fatto, in generale, il d.lgs. n. 5 del 2006) che la proposta può essere avanzata anche prima che sia ultimato l’accertamento del passivo – previsti dalla legge fallimentare per l’ammissione del fallito al concordato fallimentare; che identica è la disciplina, quanto alla cedibilità delle azioni revocatorie, dei concordati fallimentari con e senza assuntore; che identica è la disciplina procedimentale – ed in particolare, quella relativa al voto dei creditori e alla loro approvazione della proposta, costituente condicio sine qua non – per la sua omologazione da parte del tribunale.

         5.3.2.− Ciò precisato, è agevole rilevare l’inconferenza – a prescindere dalla correttezza dell’affermazione − di quanto i rimettenti sottolineano circa la mancata destinazione del ricavato dalle azioni revocatorie alla ripartizione tra i creditori: dimenticando che, nel concordato (anche fallimentare) con assunzione, i creditori chirografari − a differenza di quelli muniti di cause di prelazione, che devono essere (come anche nel caso di specie) integralmente soddisfatti − vedono estinto il loro credito con la corresponsione di quanto previsto nella proposta (da loro accettata) di concordato omologato dal tribunale. Sicché la circostanza che il ricavato delle revocatorie non sia oggetto di riparto – nel senso, di cui agli artt. 113 e 117 della legge fallimentare, di distribuzione di somme di danaro − tra i creditori è un naturale del concordato, e cioè rispecchia il fatto che la proposta solutoria avanzata dall’assuntore – così come l’accettazione dei creditori − è misurata anche, ove il patto sottoposto all’approvazione dei creditori preveda la cessione a lui delle revocatorie, sul prevedibile esito di tali azioni, costituendo esse parte del corrispettivo del prezzo pagato dal medesimo assuntore.

         Nel concordato con assuntore, peraltro, le azioni revocatorie assolvono la loro tipica funzione redistributiva, assoggettando al medesimo trattamento dei chirografari i creditori integralmente soddisfatti nel periodo sospetto, e recuperatoria, in quanto concorrono a comporre il patrimonio in relazione al quale viene determinato il quantum da corrispondere ai creditori chirografari e, conseguentemente, a ridurre la falcidia del loro credito; ciò che deve a fortiori affermarsi quando i creditori chirografari accettino, come nella specie, di essere pagati con azioni della società assuntrice, e pertanto con la prospettiva, a parziale riduzione della falcidia subita, di ricevere "vantaggio”, quali azionisti, dall’esito vittorioso delle revocatorie. Dal che discende l’irrilevanza dell’argomento – sul quale insistono le parti private convenute – secondo cui il ricavato dalle revocatorie andrebbe a beneficio non già dei creditori, ma degli azionisti: argomento che trascura la decisiva circostanza che la destinazione dei proventi dalle revocatorie va considerata al momento dell’approvazione della proposta, in quanto i creditori, approvando il concordato con la falcidia dei loro crediti, hanno accettato di diventare azionisti di una società nel cui patrimonio sarebbe confluito il ricavato dalle azioni revocatorie, puntualmente individuate, promosse dal commissario straordinario, dopo la formulazione della proposta ma prima della sua approvazione.

         A loro volta, i terzi assoggettati a revocatoria − il cui credito, è appena il caso di rilevare, risorge ex tunc ai sensi dell’art. 71 della legge fallimentare per effetto della restituzione a seguito dell’accoglimento della revocatoria − non altro diritto possono vantare, in base ai principi generali propri delle procedure concorsuali, se non quello di essere trattati paritariamente rispetto ai creditori concorsuali, e pertanto di essere soddisfatti in modo identico ai primi e subendo la medesima falcidia.

         Questo, e null’altro che questo, discende − analogamente a quanto previsto in via generale dalla legge fallimentare per il concordato con assuntore − dalla "legge Marzano”; la cui disciplina, pertanto, si sottrae anche sotto questo profilo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         riuniti i giudizi,

         dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Parma, con le ordinanze in epigrafe.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,  il 5 aprile 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Romano VACCARELLA, Giuseppe TESAURO, Redattori

Depositata in Cancelleria il 21 aprile 2006.

 

 


Allegato:

Ordinanza letta all’udienza del 4 aprile 2006

 

ORDINANZA

         Rilevato che nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 del 2006 (R.O.) è intervenuta la Parmalat s.p.a. e che nel giudizio di cui all’ordinanza n. 53 del 2006 (R.O.) sono intervenute la U.B.S. Limited e la s.p.a. San Paolo IMI;

         considerato che nel giudizio di cui all’ordinanza n. 1 del 2006, promosso dalla Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, la Parmalat s.p.a. – pur non avendo assunto, ai sensi dell’art. 111, comma terzo, cod. proc. civ., la qualità di parte, la quale allo stato compete esclusivamente alla Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria (comma secondo) – è destinataria diretta, ai sensi del comma quarto dell’art. 111 citato, degli effetti della emananda decisione di questa Corte (sentenza n. 345 del 2005);

         che le società U.B.S. e San Paolo IMI sono parti convenute in altri giudizi, nel corso dei quali è stata sollevata questione di legittimità costituzionale analoga a quella oggetto dei presenti giudizi;

         che tale circostanza non è idonea, secondo la giurisprudenza di questa Corte, a rendere ammissibile l’intervento, in quanto «la contraria soluzione si risolverebbe nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale» (sentenze n. 179 del 2003 e n. 270 del 2002), impedendo a questa Corte il suo doveroso controllo sulla rilevanza della questione;

         che tale rilievo non può essere superato in considerazione del vulnus che si assume recato al diritto di difesa, in quanto nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale il thema decidendum – con i relativi parametri costituzionali – è fissato esclusivamente dall’ordinanza di rimessione e le parti del giudizio a quo, così come il Presidente del Consiglio dei ministri, non possono che illustrare, in senso adesivo o contrario, le loro posizioni in relazione a quanto dedotto dal giudice rimettente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         dichiara ammissibile l’intervento di Parmalat s.p.a.;

         dichiara inammissibili gli interventi di U.B.S. Limited e di San Paolo IMI s.p.a.

 

F.to: Annibale MARINI, Presidente