Sentenza n. 379/2000

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SENTENZA N. 379

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Franco BILE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1999 dal Tribunale di Monza nel procedimento civile vertente tra il Fallimento “Progetto Cam” s.r.l. e la Banca popolare di Milano, iscritta al n. 590 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso del giudizio civile promosso dalla curatela del fallimento della P.C. s.r.l. nei confronti di una banca il Tribunale di Monza in composizione monocratica ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo e secondo comma e 41, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui tale norma assoggetta a revocatoria fallimentare anche atti leciti e doverosi come i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati dal fallito, nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, con mezzi normali di pagamento.

Osserva innanzitutto il giudice a quo che la questione è rilevante ai fini della decisione, perché la domanda sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi impone l’applicazione della norma impugnata; oltre a ciò, la domanda non sembra poter essere respinta ictu oculi, perché da un lato il curatore del fallimento ha già dimostrato che la banca convenuta era a conoscenza dello stato di decozione del debitore, dall’altro i pagamenti eseguiti da quest’ultimo in favore della banca risultano compiuti in presenza di scoperti di conto corrente, sicché dovrebbero considerarsi revocabili in base alla pacifica giurisprudenza della Cassazione.

Ciò posto in punto di rilevanza, il Tribunale di Monza ritiene che la norma impugnata sia in conflitto con i citati parametri costituzionali.

La violazione dell’art. 3 Cost. consegue all’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 11 novembre 1998, n. 11350, ormai da assumersi in termini di diritto vivente, secondo cui le imprese esercenti un’attività in regime di monopolio legale sono escluse dalla revocatoria fallimentare, in quanto il monopolista non può rifiutarsi di contrarre con chiunque glielo chieda. Sostiene il giudice a quo che le argomentazioni usate dalle Sezioni unite, peraltro da lui non condivise in relazione al caso del monopolista, consentono di ravvisare una violazione del principio di uguaglianza, perché, trattandosi della revoca di atti solutori, non c’è motivo per differenziare il pagamento compiuto in favore del monopolista legale rispetto a quello eseguito in favore di qualsiasi altro creditore. La revocatoria si giustifica per gli atti previsti dall’art. 67, primo comma, legge fallimentare; ma tutti i pagamenti di cui al secondo comma di detto articolo debbono ritenersi atti dovuti, indipendentemente dalla situazione di chi li riceve, perché il debitore è obbligato ad eseguirli ed anche il creditore è tenuto a riceverli, a meno di non voler incorrere nella mora credendi; da tanto deriva che la diversificazione compiuta dalle Sezioni unite si risolve in una violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Quanto agli ulteriori parametri costituzionali invocati, il rimettente osserva che il sistema attualmente vigente priva tutti i creditori, senza distinzioni, della possibilità di fruire di una tutela processuale preventiva contro il rischio di revocatoria dei pagamenti ricevuti. Ed infatti, nonostante una certa giurisprudenza riconosca al creditore il diritto di avvalersi dell’art. 1461 cod. civ. in presenza di una situazione di dissesto economico della controparte, vero è che, qualora il debitore, benché in difficoltà, offra regolarmente il proprio adempimento, il creditore deve accettarlo, perché l’art. 1461 citato non può essere, in realtà, applicato in un caso del genere. Ne deriva che l’unico strumento a disposizione del creditore per evitare le conseguenze della revocatoria fallimentare è quello di rifiutare l’adempimento, incorrendo negli effetti della mora credendi, anche se il creditore, per costante giurisprudenza, non può mai ritenersi obbligato a tale comportamento, essendo l’adempimento un atto comunque lecito.

E’ evidente, perciò, che ammettere l’esercizio della revocatoria fallimentare nei confronti dei pagamenti eseguiti con mezzi normali è irrazionale e non risulta in sintonia con la struttura tipica di quest’azione, che si fonda sul principio della frode alle ragioni dei creditori; né costituisce adeguata tutela di questi ultimi il fatto che la curatela del fallimento sia onerata della prova circa la cosiddetta scientia decoctionis. Il sacrificio delle ragioni creditorie in funzione dell’attuazione della par condicio potrebbe legittimamente giustificarsi, a detta del Tribunale di Monza, soltanto in relazione ai pagamenti eseguiti successivamente alla dichiarazione di fallimento, secondo il dettato dell’art. 44 della legge fallimentare, perché l’esistenza di una procedura già aperta dà ragione della deroga alle regole comuni che impongono al debitore l’adempimento dei debiti scaduti ed al creditore l’accettazione di tale adempimento. E d’altronde il debitore, benché ormai prossimo al fallimento, è tenuto all’adempimento delle proprie obbligazioni secondo quanto risulta indirettamente dagli artt. 54 e 55 della legge fallimentare, che pongono a suo carico l’onere di ristorare gli interessi moratori maturati prima della dichiarazione di fallimento a causa dell’eventuale inadempimento.

Nella norma impugnata, infine, il giudice a quo ravvisa anche una violazione dell’art. 41 Cost., poiché la stessa “pone un limite insormontabile alla autodeterminazione dei terzi contraenti del fallito anche nel libero esercizio di un’attività economica perfettamente lecita, non già impedendola direttamente (...), ma sanzionandola successivamente nella fase del rapporto riguardante l’esecuzione satisfattiva”.

2.— E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la sollevata questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Considerato in diritto

1.— Viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, secondo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui assoggetta a revocatoria fallimentare anche atti leciti e doverosi come i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, effettuati dal fallito nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, con mezzi normali di pagamento.

Il giudice del Tribunale di Monza ravvisa un contrasto della predetta norma con gli articoli 3, 24 e 41 Cost.:

a) per lesione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in relazione all’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 11 novembre 1998, n. 11350), assunto in termini di diritto vivente, secondo cui le imprese esercenti un’attività in regime di monopolio legale sono escluse dalla revocatoria fallimentare, non esistendo in subiecta materia un’effettiva distinzione tra la posizione del legalmonopolista e quella di qualsiasi altro creditore;

b) per mancanza di una tutela processuale adeguata per il creditore di prestazioni liquide ed esigibili, che si trova costretto a scegliere tra l’accettazione dell’adempimento offertogli dal debitore, con conseguente esposizione al rischio della revocatoria, ed il rifiuto del medesimo, con applicazione delle norme sulla mora credendi; il tutto in presenza di un pagamento che il debitore aveva l’obbligo di compiere e che il creditore aveva il pieno diritto–dovere di ricevere;

c) per lesione della libertà d’iniziativa economica, in quanto la norma “pone un limite insormontabile alla autodeterminazione dei terzi contraenti del fallito anche nel libero esercizio di un’attività economica perfettamente lecita, non già impedendola direttamente (...), ma sanzionandola successivamente nella fase del rapporto riguardante l’esecuzione satisfattiva”.

2.— La questione è infondata.

3.— L’azione revocatoria fallimentare, pur collocandosi sulla linea della revocatoria ordinaria e pur essendo, perciò, un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, si inserisce nel particolare àmbito della procedura fallimentare, la quale ha connotati peculiari che danno ragione delle notevoli diversità esistenti tra i due tipi di azione. E’ noto che principi animatori della materia fallimentare sono quelli dell’universalità dell’esecuzione (che si rivolge contro l’intero patrimonio del fallito anziché contro uno o più singoli beni) e della sua concorsualità, da intendersi nel senso che tutti i creditori hanno diritto di partecipare all’attività di liquidazione e di soddisfarsi sul ricavato in posizione di tendenziale parità.

La centralità della par condicio creditorum – rafforzata dalla previsione, in certi casi, del reato di bancarotta – è stata ribadita anche da questa Corte (v. sentenze n. 32 del 1992 e n. 204 del 1989), costituendo nell’attuale disciplina la chiave di lettura di vari istituti, fra i quali la revocatoria fallimentare. E’ quindi evidente che tutelare le ragioni del concorso tra i creditori può significare anche derogare alle regole generali, per consentire la ricostruzione del patrimonio del fallito e ripartire tra tutti i creditori, nel rispetto delle cause legittime di prelazione, eventuali perdite.

In relazione alle esigenze ora descritte, il legislatore ha costruito l’azione revocatoria fallimentare per contemperare l’interesse dei creditori di recuperare al patrimonio del fallito la maggiore quantità di beni, in vista dell’esecuzione concorsuale, con quello al normale svolgimento dell’attività economica ed alla stabilità dei diritti. La legge, perciò, ha modulato la revocatoria in relazione alla diversità degli atti compiuti dal fallito nel cosiddetto periodo “sospetto” che precede la dichiarazione di fallimento – periodo che può essere di uno oppure di due anni – graduando l’onere della prova della conoscenza o dell’ignoranza dello stato di insolvenza a seconda della maggiore o minore idoneità dell’atto a suscitare il ragionevole dubbio che possa essere stato compiuto allo scopo di favorire o danneggiare certi creditori.

Rispetto a tale coerente disegno normativo, altre leggi ritengono tuttavia giustificate varie deroghe all’art. 67, espressamente disponendo che determinati atti o pagamenti non siano assoggettati a revocatoria fallimentare (così l’art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52, richiamato anche dal giudice a quo, e l’art. 4, comma 3, della legge 30 aprile 1999, n. 130).

4.— L’ordinanza di rimessione, anche in considerazione dell’esistenza di questi casi legali di esclusione delle normali regole della revocatoria fallimentare, invoca – a sostegno della presunta lesione del principio di eguaglianza ed al fine di una generale esclusione della revocatoria prevista dal secondo comma dell’art. 67 – l’ulteriore deroga del monopolista legale, riconosciuta dalla citata sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Da quest’ultima esclusione, di derivazione giurisprudenziale, il Tribunale di Monza, pur dimostrando di non condividere le argomentazioni della Corte suprema, deduce che gli atti di pagamento eseguiti con mezzi normali nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento non dovrebbero essere mai revocabili, poiché nessuna sostanziale differenza è ravvisabile tra il monopolista legale e qualsiasi altro creditore.

La censura del giudice rimettente in riferimento al principio di eguaglianza è priva di fondamento. Egli, infatti, invoca un tertium comparationis consistente non in una norma derogatoria, ma in un’interpretazione della giurisprudenza su una particolare ipotesi di esonero della revocatoria fallimentare (quella del monopolista), per farne discendere la necessità, sul piano costituzionale, della caducatoria della stessa regola prevista dalla norma impugnata per tutte le ipotesi di pagamento di debiti liquidi ed esigibili con mezzi normali. Ed è altresì innegabile che le due situazioni giuridiche messe a confronto non sono omogenee.

A quest’ultimo proposito, senza prendere posizione sulla delicata questione, dibattuta dinanzi ai giudici ordinari e prospettata nell’ordinanza di rimessione, circa la possibilità o meno di riconoscere una differenza tra creditore legalmonopolista ed altri creditori in relazione al diritto di avvalersi dell’art. 1461 cod. civ. in caso di crisi patrimoniale del debitore, certo è che, ai sensi dell’art. 2597 cod. civ., il monopolista, a differenza degli altri imprenditori, ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, con il consequenziale affidamento sulla controprestazione.

5.— In ordine alla censura di irragionevolezza della norma, è sufficiente osservare che l’assoggettabilità degli atti leciti di pagamento alla revocatoria prevista dal secondo comma dell’art. 67 legge fallimentare trova adeguata giustificazione nelle esigenze di tutela della par condicio cui sopra si è fatto cenno. Il legislatore non ha trascurato di considerare le differenze rispetto alle ipotesi di cui al primo comma di detta norma (pagamenti con mezzi anormali e atti a titolo oneroso viziati da grave squilibrio nella controprestazione), riservando per i debiti scaduti e per gli atti normali di pagamento un trattamento meno rigoroso, che si concretizza nella maggior brevità del periodo sospetto e nell’onere della prova della scientia decoctionis posto a carico del curatore.

Appare improprio, inoltre, prospettare l’alternativa degli strumenti a disposizione del creditore nel rifiuto dell’adempimento, con la conseguente mora credendi, o nell’accettazione del pagamento col rischio della revocatoria; e ciò per farne discendere una violazione dell’art. 24 della Costituzione. Da un lato, invero, questa norma costituzionale riguarda le garanzie processuali e non quelle sostanziali; dall’altro, il creditore non incorre nella mora quando non riceve il pagamento per un motivo legittimo (art. 1206 cod. civ.). In ogni caso, se egli accetta detto pagamento, potenzialmente soggetto al rischio della revocatoria, non necessariamente dovrà soccombere nell’eventuale giudizio che il curatore dovesse promuovere, proprio in considerazione delle precedenti osservazioni sull’onere della prova.

6.— Ugualmente priva di fondamento è la censura proposta dal rimettente, peraltro in via residuale, relativa all’art. 41 della Costituzione.

Deve in proposito considerarsi che tale norma, dopo avere proclamato la libertà dell’iniziativa economica privata, soggiunge che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Invero questa Corte ha precisato, in altra e diversa situazione, che l’attuale regolazione della revocatoria fallimentare “rientra comunque nel bilanciamento - non irragionevolmente operato dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità - con la utilità sociale correlata alla esigenza di un sano e corretto funzionamento del mercato e con la parità di trattamento tra tutti i creditori in presenza della crisi dell’impresa debitrice” (sentenza n. 110 del 1995).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo e secondo comma e 41, primo comma, della Costituzione, dal Giudice unico del Tribunale di Monza con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 27 luglio 2000.