Sentenza n. 443/97

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SENTENZA N.443

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 28, 30, 31 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari), promossi con n. 3 ordinanze emesse il 15 giugno 1996 dal Pretore di Pordenone, rispettivamente iscritte ai nn. 960, 961 e 1145 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 40 e 43, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 maggio 1997 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso di un giudizio di opposizione avverso ordinanza-ingiunzione emessa nei confronti del legale rappresentante di un pastificio, per avere prodotto e commercializzato pasta alimentare secca, denominata "specialità gastronomica alle erbe aromatiche", contenente ingredienti non consentiti (aglio e prezzemolo) dalle vigenti disposizioni di legge, il Pretore di Pordenone ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 30, 31 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari).

Il giudice a quo muove da due premesse: la prima è costituita dal rilievo che, a seguito della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, sulla base del principio di libera circolazione delle merci, i divieti posti dagli articoli impugnati non trovano più applicazione nei confronti degli importatori di paste alimentari, ai quali quindi è consentito introdurre e commercializzare, nel territorio italiano, paste secche prodotte all'estero utilizzando ingredienti non consentiti dalla legislazione italiana, sempreché tali produzioni siano conformi alle leggi nazionali e non contrastino con i divieti sanciti in generale, a tutela della salute, dagli artt. 30 e 36 del trattato CEE. La seconda si fonda sull'osservazione che la stessa legge n. 580 del 1967, all'art. 50, consente, previa autorizzazione dell'autorità competente, la produzione di pasta avente requisiti diversi da quelli prescritti dalla stessa legge, dal regolamento di esecuzione e dai provvedimenti dell'autorità amministrativa, purché si tratti di prodotti destinati all'esportazione e non nocivi alla salute umana.

Conseguentemente, sempre secondo il giudice a quo, la pasta, cui si riferisce l'ordinanza-ingiunzione opposta, potrebbe essere senz'altro legittimamente importata da uno degli Stati membri della Comunità ovvero prodotta per l'esportazione, mentre non potrebbe essere prodotta da un imprenditore italiano per il mercato interno. Di qui il contrasto della normativa impugnata con l'art. 3 della Costituzione, dal momento che risulterebbe evidente la irragionevole disparità di trattamento:

a) tra produttori e importatori del medesimo prodotto, in quanto i primi, se l'alimento è destinato al mercato interno, non potrebbero produrre e commercializzare pasta contenente ingredienti non consentiti, laddove l'importatore potrebbe invece introdurre e vendere in Italia pasta con tali ingredienti;

b) tra produttori che destinino l'alimento al mercato interno e produttori che invece lo destinino all'esportazione, i quali ultimi potrebbero legittimamente commercializzare all'estero un tipo di pasta contenente ingredienti non consentiti in Italia;

c) tra chi utilizzi alcuni ingredienti non autorizzati per l'impasto e chi, viceversa, secondo quanto permesso dall'art. 3 del d.m. 27 settembre 1967, emanato ai sensi dell'art. 30 della legge n. 580, destini gli stessi ingredienti alla preparazione del ripieno della pasta.

Le medesime disposizioni, inoltre, sarebbero lesive, ad avviso del remittente, dell'art. 41, primo comma, della Costituzione, dal momento che le limitazioni all'utilizzazione di taluni ingredienti si tradurrebbero in illegittimi limiti alla iniziativa economica dei produttori italiani, la cui attività verrebbe ad essere irragionevolmente compressa.

Quanto alla rilevanza, infine, il giudice a quo osserva che l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate determinerebbe l'annullamento dell'ordinanza oggetto di opposizione.

2. Identica questione è stata sollevata dallo stesso Pretore di Pordenone in un altro giudizio di opposizione avverso un'ordinanza-ingiunzione emessa in relazione alla commercializzazione di pasta secca non conforme alla normativa vigente per la presenza di aglio e prezzemolo nell'impasto.

3. Un'altra questione, identica nelle argomentazioni, ma limitata agli artt. 28, 30 e 36 della legge n. 580 del 1967, è stata sollevata dallo stesso Pretore di Pordenone nel corso di un giudizio di opposizione avverso un'ordinanza-ingiunzione emessa per la produzione e la commercializzazione di paste alimentari (denominate, rispettivamente, Specialità al peperaglio, Specialità al nero di seppia e Specialità del Chianti) contenenti ingredienti non consentiti, quali l'aglio, il peperoncino, il nero di seppia e la barbabietola.

4. E' intervenuto nei giudizi introdotti con la prima e con la terza ordinanza il Presidente del Consiglio dei ministri, con atti di identico contenuto, sostenendo che la questione sarebbe priva di fondamento, dal momento che le situazioni poste a raffronto dal giudice a quo apparirebbero disomogenee, mentre il quadro normativo sarebbe univoco nello stabilire che chiunque (italiano, comunitario o straniero) produca pasta alimentare in Italia è obbligato a utilizzare soltanto gli ingredienti consentiti dalla normativa nazionale. L'Avvocatura osserva, infatti, che, per quanto riguarda la prospettata disparità di trattamento tra produttori nazionali e importatori, il trattamento riservato dalla legge italiana ai produttori di pasta alimentare sarebbe esclusivamente collegato all'ubicazione dello stabilimento di produzione, e che ciò costituirebbe un dato rispetto al quale il fatto che nel mercato italiano, in virtù dell'art. 30 del trattato CEE, debba circolare pasta prodotta in altri Paesi apparirebbe del tutto irrilevante.

Analogamente, ad avviso dell'Avvocatura, non potrebbero essere poste a raffronto la posizione del produttore per il mercato interno e del produttore per l'esportazione, né l'operazione di preparazione dell'impasto con quella di preparazione del ripieno. A quest'ultimo proposito l'Avvocatura rileva, comunque, che la questione sarebbe inammissibile, dal momento che la disciplina della preparazione del ripieno è posta da un decreto ministeriale e non dalle disposizioni impugnate.

Infondata, sarebbe, infine, sempre ad avviso dell'Avvocatura, la dedotta violazione dell'art. 41, primo comma, della Costituzione, posto che le disposizioni censurate mirerebbero a favorire la qualità del prodotto e, quindi, la sua affermazione sui mercati con beneficio dell'economia nazionale. Non si avrebbe, dunque, nel caso di specie, una compressione dell'iniziativa economica, bensì una sua regolamentazione ispirata al conseguimento di risultati economici discrezionalmente valutati.

Considerato in diritto

1. La questione di legittimità costituzionale, sollevata con diverse ordinanze dal Pretore di Pordenone, ha ad oggetto gli artt. 28, 30, 31 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580, nella parte in cui prescrivono che per la produzione industriale di paste alimentari secche non possono essere utilizzati ingredienti diversi da quelli da essi stessi indicati o autorizzati con il decreto del Ministro della sanità previsto dall'art. 30.

Ad avviso del giudice a quo, tali disposizioni contrasterebbero con gli artt. 3 e 41, primo comma, della Costituzione. Quanto all'art. 3, il remittente denuncia la disparità di trattamento tra i produttori nazionali, ai quali viene imposto di produrre e vendere in Italia pasta confezionata unicamente con gli ingredienti autorizzati, e gli importatori, ai quali è consentito introdurre in Italia per la vendita prodotti di altri Paesi comunitari realizzati, secondo le regole del Paese di origine, con materie prime anche diverse. Eguale disparità di trattamento sussisterebbe poi tra i produttori che destinino l'alimento al mercato interno e quelli che, invece, lo esportino, ai quali ultimi è consentito produrre per l'esportazione nella Comunità prodotti realizzati, secondo le regole del Paese a cui sono destinati, con materie prime anche diverse da quelle autorizzate in Italia. Il giudice a quo rileva, infine, un'ulteriore irragionevole discriminazione tra i produttori che utilizzino alcuni ingredienti per il ripieno delle paste e quelli che gli stessi ingredienti utilizzino per l'impasto, essendo la prima ipotesi consentita e la seconda vietata dal decreto ministeriale di cui si è detto.

Il remittente deduce anche la violazione dell'art. 41, primo comma, della Costituzione, perché risulterebbe ingiustificatamente compresso il diritto di iniziativa economica dei produttori nazionali.

Poiché le ordinanze di rimessione hanno ad oggetto le medesime disposizioni, i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. Deve innanzitutto essere dichiarata l'inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione concernente l'art. 28 della legge n. 580 del 1967, dal momento che tale disposizione si limita a prescrivere le caratteristiche di fabbricazione dei prodotti denominati pasta di semola di grano duro e pasta di semolato di grano duro, mentre nei giudizi a quibus non si pone un problema di denominazione dei prodotti ai quali si riferiscono gli illeciti amministrativi oggetto di contestazione, ma solo di presenza, in quei prodotti, di ingredienti diversi da quelli autorizzati con decreto del Ministro della sanità ai sensi dell'art. 30 della medesima legge.

Inammissibile è, altresì, la questione relativa all'art. 31, in quanto tale disposizione ha ad oggetto la produzione di pasta con impiego di uova e ne prescrive le caratteristiche, mentre la possibilità di utilizzare anche nella fabbricazione delle paste all'uovo ingredienti diversi risulta disciplinata e sottoposta a limitazioni dal precedente art. 30.

3. Delle residue disposizioni censurate nelle ordinanze di rimessione, solo all'art. 30 sono astrattamente ascrivibili i vizi denunciati. Tale disposizione, invero, nel consentire la produzione di paste speciali contenenti vari ingredienti alimentari, subordinatamente all'autorizzazione del Ministro della sanità di concerto con i Ministri per l'agricoltura e foreste (oggi Ministro per le politiche agricole) e per l'industria, per il commercio e per l'artigianato (primo comma, secondo periodo), prevede che nel decreto siano stabilite le norme e le modalità per l'impiego e, nel caso, per la produzione, il commercio e la conservazione; e stabilisce per quest'ultima che, ove necessario, sia prescritta l'indicazione della data di fabbricazione e della durata di conservabilità degli ingredienti autorizzati (primo comma, ultima parte). L'art. 36 invece, prevedendo il divieto di vendere o di detenere per la vendita pasta avente caratteristiche diverse da quelle stabilite nella stessa legge, non assume, per la parte che rileva nel presente giudizio (in cui si tratta di una fattispecie di impiego di ingredienti diversi da quelli autorizzati), un rilievo autonomo, discendendo il suo contenuto prescrittivo da quello di altre disposizioni tra le quali, appunto, l'art. 30. Le censure che investono l'art. 36 devono, pertanto, ritenersi assorbite in quelle concernenti l'art. 30, e in questo senso devono essere ritenute prive di fondamento.

4. Così individuato l'oggetto scrutinabile nel merito, la questione è fondata.

Come già questa Corte ha riconosciuto, fin dalla sentenza n. 20 del 1980, la disciplina posta dalla legge 4 luglio 1967, n. 580, in materia di produzione e di vendita di paste alimentari, ha lo scopo di proteggere caratteristiche qualitative proprie della tradizione nazionale ritenute dal legislatore meritevoli di essere salvaguardate. La stessa materia è tuttavia assoggettata anche alle qualificazioni del diritto comunitario, alla luce delle quali quella finalità resta largamente frustrata. In assenza di regolamenti comunitari o di direttive di armonizzazione delle diverse discipline vigenti negli Stati membri, il principio operante in ambito europeo è quello della libera circolazione delle merci (fissato dagli artt. 30 e seguenti del trattato istitutivo della Comunità europea). In forza di tale principio, quale esso si è concretizzato nella giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità, non è consentito ad uno Stato membro applicare una normativa nazionale che limiti l'importazione di merci prodotte e messe in commercio secondo le leggi dello Stato membro di provenienza. E così, in base al diritto comunitario, lo Stato italiano, salvo che per le finalità di cui ora si dirà, non può porre ostacoli a che in uno Stato membro vengano prodotte e destinate al consumo in Italia paste alimentari contenenti ingredienti diversi da quelli autorizzati dalla legge nazionale ma consentiti dal diritto comunitario. Se questo è il contesto nel quale le imprese nazionali sono chiamate ad operare, è di tutta evidenza che ogni limitazione imposta dalla legislazione nazionale alla fabbricazione e alla commercializzazione delle paste alimentari nel territorio italiano, che non rinvenga nel trattato o, più in generale, nel diritto comunitario il proprio fondamento giustificativo, così da poter essere applicata egualitariamente nei confronti di tutta la produzione commercializzata in Italia, si risolve in uno svantaggio competitivo e, in ultima analisi, in una vera e propria discriminazione in danno delle imprese nazionali. Queste vengono ad essere per legge vincolate all'osservanza di regole finalizzate alla salvaguardia delle tradizioni alimentari italiane, laddove è consentito (o meglio, non può essere impedito) all'impresa comunitaria destinare al mercato italiano prodotti aventi caratteristiche difformi da quelle tradizionali.

Proprio in materia di interscambio comunitario di merci, deroghe al principio di libera circolazione dei beni potrebbero in astratto trovare nello stesso trattato il proprio titolo di legittimazione: l'art. 36 giustifica, infatti, restrizioni all'importazione per specificati motivi di interesse pubblico, tra i quali assumono preminente rilievo, in materia di circolazione di prodotti alimentari, la tutela della salute umana e, nell'interpretazione della giurisprudenza comunitaria, la tutela dei consumatori.

Ma, nel nostro caso, in cui la stessa Corte di giustizia, nella sentenza 14 luglio 1988 in causa 90/86, Zoni, ha escluso che la disciplina introdotta dalla legge n. 580 del 1967 sia necessaria per rispondere ad esigenze imperative come la difesa dei consumatori o la lealtà dei negozi commerciali o la tutela della salute pubblica, la questione è se vincoli di protezione di tradizioni alimentari possano essere legislativamente imposti dalle leggi nazionali anche al di là di quanto giustificabile alla stregua del diritto comunitario.

5. Quello al quale si è ora accennato è il tema delle cosiddette "discriminazioni a rovescio": situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell'applicazione del diritto comunitario. Va chiarito che in questa sede non interessa accertare quale sia il regime comunitario di simili discriminazioni, chiedersi se ed entro quali limiti esse siano rilevanti e possano essere denunciate di fronte agli organi della Comunità europea, come da taluno si sostiene, o se restino ancor oggi, in quell'ordinamento, del tutto irrilevanti come indurrebbe a ritenere un'analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia. E' peraltro significativo che proprio nella citata sentenza in causa Zoni, che riguarda specificamente la legge della quale oggi si discute, si afferma che "il diritto comunitario non esige che il legislatore abroghi la legge per quanto attiene ai produttori di pasta stabiliti sul territorio italiano". Ed in effetti, risponde ad una ben nota visione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno ispirata alla separazione dei due ordinamenti, comunitario e nazionale, della quale la citata sentenza della Corte di giustizia non è la sola espressione, che provvedimenti legislativi discriminatori in danno delle imprese nazionali siano di regola irrilevanti nel diritto comunitario. Salvaguardato il principio di libera circolazione delle merci ed assicurata, nei rapporti tra Stati, l'attuazione del divieto di restrizioni quantitative all'importazione o di misure di effetto equivalente, gli Stati membri resterebbero liberi di adottare, unilateralmente, una normativa che, senza toccare i prodotti importati, tenda a migliorare la qualità della produzione nazionale o a mantenerla conforme alle tradizioni alimentari interne, anche oltre quanto necessario per assicurare la tutela della salute umana e degli altri valori che, nel trattato, fungono da limite al principio di libertà della circolazione delle merci. Un eventuale atteggiamento di tolleranza nei confronti delle "discriminazioni a rovescio" rientrerebbe, insomma, per il diritto comunitario, tra le scelte consentite agli Stati membri, interamente rimesse alla loro libera autodeterminazione di Stati sovrani.

Ma  si diceva  in questa sede non è il punto di vista comunitario che interessa. Anche a voler ritenere che, nell'attuale fase evolutiva del processo di integrazione europea, sia questo un portato del rapporto di separazione che tuttora sussiste tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, è certo che all'impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principî costituzionali e, nella materia di cui si tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli artt. 3 e 41 della Costituzione, che sono stati invocati a parametro dal giudice remittente.

6. La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non potendo essere da questo risolta mediante l'assoggettamento delle seconde ai medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il principio comunitario di libera circolazione delle merci, la sola alternativa praticabile dal legislatore in assenza di altre ragioni giustificatrici costituzionalmente fondate è l'equiparazione della disciplina della produzione delle imprese nazionali alle discipline degli altri Stati membri nei quali non esistano vincoli alla produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti nel nostro Paese.

In definitiva, in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principî stabiliti nel trattato agli artt. 30 e seguenti; opera, quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l'applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare.

7. Va infine chiarito che il vizio di legittimità costituzionale investe immediatamente la legge e non potrebbe essere imputato all'eventuale regolamento adottato ai sensi dell'art. 30 dal Ministro della sanità, di concerto con il Ministro per l'agricoltura e foreste (oggi Ministro per le politiche agricole) e con il Ministro dell'industria. Ed invero, l'interpretazione letterale e sistematica della legge 4 luglio 1967, n. 580, conduce alla univoca soluzione che questa, non solo non ha recepito il divieto, imposto dagli articoli 3 e 41 della Costituzione, di discriminare la produzione nazionale delle paste alimentari, ma lo ha del tutto ignorato, lasciando, sul punto, ampia discrezionalità alla fonte regolamentare nel contesto di una disciplina ispirata alla protezione delle tradizioni alimentari nazionali. La stessa idea che l'utilizzazione di ingredienti ulteriori, anche se leciti nella legislazione dei Paesi membri dell'Unione, debba essere sottoposta a una autorizzazione nella quale possono essere tutelati interessi diversi dall'igiene e dalla salute umana o da altri valori cogenti per il trattato e per la Costituzione italiana, rende la disposizione che tale autorizzazione prevede senz'altro incompatibile con il principio costituzionale di non discriminazione della produzione interna.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari), nella parte in cui non prevede che alle imprese aventi stabilimento in Italia è consentita, nella produzione e nella commercializzazione di paste alimentari, l'utilizzazione di ingredienti legittimamente impiegati, in base al diritto comunitario, nel territorio della Comunità europea;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 36 della suindicata legge 4 luglio 1967, n. 580, sollevata dal Pretore di Pordenone, in riferimento agli artt. 3 e 41, primo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 31 della suindicata legge 4 luglio 1967, n. 580, sollevata dal Pretore di Pordenone, in riferimento agli artt. 3 e 41, primo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.