Sentenza n. 207 del 2002

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SENTENZA N. 207

 

ANNO 2002

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Massimo                                             VARI                                Presidente

 

- Riccardo                                             CHIEPPA                           Giudice

 

- Gustavo                                              ZAGREBELSKY                  "

 

- Valerio                                                ONIDA                                  "

 

- Carlo                                                   MEZZANOTTE                     "

 

- Guido                                                 NEPPI MODONA                 "

 

- Piero Alberto                                      CAPOTOSTI                         "

 

- Annibale                                             MARINI                                "

 

- Franco                                                BILE                                       "

 

- Giovanni Maria                                  FLICK                                    "

 

- Francesco                                            AMIRANTE                           "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA       

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del 3 novembre 1998 della Camera dei deputati relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vittorio Sgarbi nei confronti dell’on. Massimo D’Alema, promosso con ricorso del Tribunale di Roma - V sezione stralcio, notificato il 5 gennaio 2001, depositato in cancelleria l’8 successivo e iscritto al n. 1 del registro conflitti 2001.

 

            Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

 

            udito nell’udienza pubblica del 12 marzo 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;

 

            udito l’avvocato Sergio Panunzio per la Camera dei deputati.

 

Ritenuto in fatto

 

            1. – Con ricorso del 23 giugno-3 luglio 2000, depositato presso la Corte costituzionale il successivo 31 luglio, formulato nell'ambito di un procedimento civile per risarcimento del danno da dichiarazioni diffamatorie promosso dal deputato Massimo D'Alema nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, il Tribunale di Roma - V sezione stralcio ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera dell'Assemblea del 3 novembre 1998 (Doc. IV-ter, n. 49/A), secondo la quale le dichiarazioni per le quali è pendente il procedimento civile concernono opinioni espresse dal membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, con conseguente insindacabilità, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

 

Come riferisce il ricorso, l'attore nel procedimento civile lamenta che il deputato convenuto, nel corso della trasmissione televisiva «Sgarbi quotidiani», irradiata in data 4 maggio 1993 dalla rete televisiva Canale 5, avrebbe pronunciato nei suoi confronti frasi lesive dell'onore e della reputazione, affermando in particolare: «Un altro pentito, comunque persona indagata, ha detto di aver versato tangenti al secondo del Partito comunista, del PDS, Massimo D’Alema. Allora cominciamo a stare attenti che questi che urlano hanno fatto esattamente lo stesso di quelli contro cui stanno urlando».

 

Ciò premesso, il Tribunale, ricostruiti la finalità e il contenuto della prerogativa dell'insindacabilità, richiama la giurisprudenza della Corte (in particolare le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000), per affermare che l'art. 68, primo comma, della Costituzione non si estende a tutti i comportamenti di chi sia membro delle Camere, ma solo a quelli funzionali all'esercizio delle attribuzioni proprie del potere legislativo.

 

Il discrimine tra i giudizi e le critiche che anche il parlamentare manifesta nel più esteso ambito dell'attività politica - per i quali non vale l'immunità - e le opinioni coperte da tale garanzia sarebbe costituito, prosegue il ricorrente, dall'inerenza delle opinioni all'esercizio delle funzioni parlamentari, non potendosi comunque ricondurre alla funzione parlamentare l'intera attività politica svolta dal membro del Parlamento.

 

Nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprime fuori dai compiti e dalle attività propri delle assemblee - prosegue il ricorrente - rappresentano esercizio della libertà di espressione comune a tutti i cittadini: a esse, dunque, non potrebbe estendersi, senza snaturarla, una immunità che la Costituzione ha voluto, in deroga al generale principio di legalità e giustiziabilità dei diritti, riservare alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari. Nel caso di specie, le affermazioni del deputato Sgarbi sarebbero state rese, ad avviso del Tribunale ricorrente, «da persona che, pur essendo rivestita di incarichi di rappresentanza popolare, non aveva nella veste indicata alcuna funzione politico-parlamentare» e non potrebbero quindi essere ricomprese nell’ambito di applicazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

 

Il ricorrente chiede pertanto che la menzionata delibera della Camera, in quanto non conforme all'ordinamento costituzionale, sia annullata.

 

2. – Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 498 del 2000 di questa Corte.

 

3. – Nel giudizio così instaurato si è costituita la Camera dei deputati.

 

Nell’atto di costituzione si deduce in primo luogo l’inammissibilità del ricorso «per difetto di notificazione, rilevabile d'ufficio dalla Corte», riservando ad una successiva memoria un più approfondito esame di questo profilo.

Nel merito del conflitto la Camera deduce l'infondatezza del ricorso (a) alla luce del particolare «contesto parlamentare» in cui sarebbero maturate le dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi e (b) in considerazione del nesso funzionale che collegherebbe le medesime dichiarazioni alle funzioni parlamentari.

 

La difesa della Camera sottolinea innanzitutto come le affermazioni del parlamentare, rese nel corso della trasmissione televisiva «Sgarbi quotidiani» del 4 maggio 1993, traessero spunto dalla circostanza che pochi giorni prima l'on. Craxi era stato fatto oggetto di invettive e lanci di monetine all'esterno dell'albergo presso il quale alloggiava.

 

Muovendo da tale episodio di cronaca, il deputato Sgarbi - al di là degli «eccessi verbali connessi alla forma polemica e paradossale» adottata nel corso della trasmissione - si sarebbe limitato a rammentare che anche esponenti del PCI, e poi del PDS, erano stati coinvolti nelle inchieste giudiziarie in corso, riferendo specificamente di alcuni episodi di corruzione e affermando inoltre, a tale proposito, come un pentito avesse accusato il deputato D'Alema di aver ricevuto tangenti; affermazioni, queste ultime, che ad avviso della difesa della Camera si sarebbero inserite nel più ampio contesto di «una complessiva riflessione sulle indagini giudiziarie e sui fenomeni di corruzione e di malcostume politico che, in quegli anni, segnavano il dibattito politico e parlamentare».

 

Ciò premesso, la difesa della Camera reputa necessario enucleare con esattezza l'oggetto delle dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi nel corso della già citata trasmissione, non al fine di accertarne l'eventuale contenuto offensivo e diffamatorio - verifica, quest'ultima, di competenza del giudice ordinario -, ma per coglierne il nesso funzionale rispetto a numerosi atti di esercizio della funzione parlamentare, specie di sindacato ispettivo, cui anche l'on. Sgarbi aveva partecipato. Tale oggetto non dovrebbe individuarsi, prosegue la Camera, negli addebiti di corruzione che, rivolti da un pentito alla persona dell'on. D'Alema, il deputato Sgarbi si era limitato a riportare nel corso del proprio monologo, con una affermazione de relato che non postulava alcun giudizio di valore circa la verità sostanziale di tali dichiarazioni; esso andrebbe invece individuato, sempre a giudizio della Camera, nella più ampia e complessiva riflessione sulle indagini giudiziarie e sui fenomeni di corruzione «che avevano coinvolto, in quegli anni, esponenti di numerosi partiti politici, compreso il PCI e poi il PDS; nonché sull'uso politico dei pentiti da parte di un settore della magistratura, asseritamente vicino alle posizioni politiche di quel partito»; il coinvolgimento del PCI-PDS nelle vicende di «Tangentopoli» costituirebbe dunque il vero «epicentro» delle considerazioni dell'on. Sgarbi, e il riferimento della sua intensa attività politico-parlamentare.

 

Spogliate della loro veste paradossale (caratteristica questa, secondo la difesa della Camera, ravvisabile in generale negli interventi politici del parlamentare convenuto), le affermazioni fatte nel corso della già citata trasmissione televisiva, al di là della mera citazione delle parole accusatorie di un pentito, rivelerebbero il loro «senso genuino», consistente in realtà da un lato nello stigmatizzare l'uso «politico» dei cosiddetti pentiti a opera di una parte della magistratura, dall’altro nel ribadire il coinvolgimento anche del PCI-PDS nelle vicende di «Tangentopoli»; argomenti entrambi posti al centro della sua attività politico-parlamentare.

 

A conferma dell'impostazione volutamente eccessiva, sul piano espressivo, delle dichiarazioni del deputato Sgarbi, la difesa della Camera ricorda come nel corso di quella stessa trasmissione televisiva il parlamentare avesse detto di avere chiesto il giorno precedente «che venisse ucciso Craxi», perché solo in tal modo - a suo avviso - l'attenzione generale avrebbe potuto rivolgersi anche ad esponenti di altri partiti coinvolti in episodi di corruzione.

 

Così inquadrato il «contenuto reale» delle dichiarazioni, la difesa della Camera fa riferimento a diversi atti parlamentari, prevalentemente di carattere ispettivo, sia precedenti che successivi alle dichiarazioni in parola, i quali attesterebbero l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese nel corso della trasmissione televisiva del 4 maggio 1993 e il tenore degli atti medesimi, taluni dei quali a firma anche dell'on. Sgarbi, atti da cui si evincerebbe l'interesse sia per la problematica dell'uso politico dei pentiti sia per il coinvolgimento del PCI-PDS nelle vicende di «Tangentopoli».

 

L'impegno politico-parlamentare dell'on. Sgarbi su tali materie, prima delle dichiarazioni del 4 maggio 1993, sarebbe in particolare confermato (a) dalla risoluzione n. 6/00024 del 16 marzo 1993 – firmata anche dal deputato in questione e avente ad oggetto la richiesta di un impegno comune di Parlamento e Governo per stabilire, tra l'altro, una nuova normativa in materia di finanziamento pubblico dei partiti e l'obbligo, per i membri di tutte le assemblee elettive, nonché per i componenti dei loro nuclei familiari, di dimostrare, in ogni atto commerciale che li riguardasse, la provenienza dei mezzi finanziari utilizzati -, (b) dall'interrogazione n. 3/00937 del 28 aprile 1993 - con cui si sollecitavano il Presidente del Consiglio dei ministri e i Ministri dell'interno e della giustizia a informare le Camere circa le iniziative assunte «per far sì che il fenomeno del pentitismo continui a fornire efficaci supporti nella lotta contro organizzazioni criminali, ma non si presti ad essere gestito e politicamente utilizzato in modo disinvolto per interessi di parte» - , e (c) dalla dichiarazione di voto resa nella seduta della Camera del 25 febbraio 1993, in riferimento a una risoluzione presentata da altro parlamentare, in cui l'on. Sgarbi, nel contesto di considerazioni di carattere generale sulle vicende di «Tangentopoli», osservava che avvisi di garanzia al riguardo erano stati indirizzati dalla magistratura a rappresentanti di quasi tutti i partiti italiani, ivi compreso il PCI.

 

La difesa della Camera ricorda quindi, alla luce di una ampia disamina della giurisprudenza costituzionale in materia di conflitti tra potere giudiziario e Camere: (a) come sia il nesso funzionale a costituire il discrimine tra l'area delle dichiarazioni ed opinioni protette dalla insindacabilità e le altre manifestazioni dell'attività genericamente politica dei parlamentari, non protette dal primo comma dell'art. 68 della Costituzione; (b) come tale nesso consista nell'identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare; e (c) come nel caso di dichiarazioni rese al di fuori della sede parlamentare - anch'esse potenzialmente coperte dalla garanzia fornita dall'art. 68 della Costituzione - sia necessario ravvisare una «sostanziale corrispondenza di significati» tra le dichiarazioni rese al di fuori dell'esercizio delle attività tipiche svolte in Parlamento e le opinioni già espresse nell'ambito di queste ultime  (sentenze n. 321 e n. 320 del 2000), non essendo da un lato necessaria una «puntuale coincidenza testuale» tra le diverse dichiarazioni poste a raffronto (sentenza n. 10 del 2000), né apparendo dall'altro lato sufficiente «una semplice comunanza di argomento» tra le stesse (sentenza n. 420 del 2000).

 

Alla stregua di tali premesse, la difesa della Camera ribadisce l'esistenza di una «sostanziale corrispondenza di significati» tra il – come sopra precisato - «contenuto reale» delle dichiarazioni rese dall'on. Sgarbi il 4 maggio 1993 e le precedenti attività parlamentari tipiche poste in essere dal deputato, affermando a tale proposito che «l'ambito della “politica parlamentare” - cioè l'ambito della comunicazione politica racchiuso nel “campo applicativo del diritto parlamentare” cui le dichiarazioni di un parlamentare debbono essere “immediatamente collegabili” per potere essere identificate e qualificate come espressioni di attività parlamentare [...] come tali insindacabili - non si esaurisce soltanto nei puntuali atti di esercizio attivo di poteri del parlamentare, ma può ricomprendere anche l'intera comunicazione politico-parlamentare di cui egli è stato partecipe: anche ascoltando, leggendo e valutando dichiarazioni rese da altri parlamentari».

 

Ricordato infine che dalla stessa giurisprudenza della Corte è ricavabile una presa d'atto della profonda trasformazione della comunicazione politica che si è avuta nella società (sentenza n. 11 del 2000), con il logico corollario che «ciò che conta non è il mezzo dell'espressione dell'opinione, ma è l'opinione in sé e, soprattutto, il suo nesso con l'attività parlamentare», la difesa della Camera ritiene privo di pregio l'argomento, formulato nel ricorso del Tribunale, secondo cui, essendo le dichiarazioni in esame rese da persona che, pur rivestita di incarichi di rappresentanza popolare, non aveva nella veste di opinionista televisivo alcuna funzione politico-parlamentare, le medesime non potrebbero essere ricondotte all’ambito di applicazione della prerogativa prevista dal primo comma dell'art. 68 della Costituzione.

4. - Con una memoria depositata in prossimità dell’udienza la Camera dei deputati ha svolto ulteriori argomentazioni a sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza del ricorso.

 

In particolare, quanto alla inammissibilità del ricorso, dedotta nell’atto di costituzione «per difetto di notificazione», la difesa della Camera precisa di avere preso cognizione, successivamente alla propria costituzione in giudizio (19 dicembre 2000), «di circostanze ulteriori che hanno in parte modificato i presupposti su cui l’eccezione si fondava». A tale proposito la Camera osserva che con l’ordinanza di ammissibilità del conflitto (n. 498 del 2000) la Corte aveva assegnato al Tribunale ricorrente un termine di sessanta giorni, a far data dalla comunicazione dell’ordinanza stessa (comunicazione avvenuta il 17 novembre 2000), per la notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità alla Camera dei deputati. Dopo che il Tribunale ricorrente aveva inviato, a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, una comunicazione di cancelleria, pervenuta alla Camera il 30 novembre 2000, cui erano allegate sia la propria ordinanza-ricorso sia l’ordinanza di ammissibilità della Corte costituzionale, la Camera dei deputati, «nonostante il ricorso del Tribunale [...] fosse manifestamente inammissibile», aveva provveduto, «per scrupolo difensivo», a costituirsi in giudizio con proprio atto del 19 dicembre 2000. Solo in un secondo momento il Tribunale ricorrente assolveva agli oneri imposti dalla citata ordinanza della Corte, notificando alla Camera dapprima (21 dicembre 2000) la sola ordinanza di ammissibilità e successivamente (5 gennaio 2001) sia l’ordinanza di ammissibilità che la propria ordinanza-ricorso, provvedendo infine, in data 8 gennaio 2001, al deposito previsto dal terzo comma dell’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

A fronte dell’esposta sequenza di atti adottati dal ricorrente per completare gli adempimenti e dare avvio alla seconda fase del giudizio sul conflitto, la Camera rimette al «prudente apprezzamento» della Corte ogni valutazione circa l’ammissibilità del ricorso.

 

Nel merito, la difesa della Camera, richiamandosi alla più recente giurisprudenza della Corte relativa a quelli che devono essere i criteri di verifica per appurare la sussistenza del nesso funzionale fra le dichiarazioni rese extra moenia e quelle espresse nell’esercizio di funzioni propriamente parlamentari, e ribadendo in particolare la sussistenza del citato nesso funzionale anche quando esso intercorra tra le dichiarazioni di un parlamentare e atti tipici direttamente riferibili ad altri parlamentari, insiste per una pronuncia di infondatezza del ricorso.

 

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Roma - V sezione stralcio, investito di un giudizio civile promosso dal deputato Massimo D’Alema per risarcimento del danno determinato da dichiarazioni ritenute diffamatorie rilasciate dal deputato Vittorio Sgarbi, solleva conflitto costituzionale di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati, in riferimento alla delibera del 3 novembre 1998 con la quale la Camera stessa ha dichiarato l’insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, di tali dichiarazioni. Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 498 del 2000 di questa Corte.

 

2. – Nell’atto di costituzione in giudizio, la Camera dei deputati eccepisce l’inammissibilità del ricorso, per difetto di notificazione a norma degli artt. 37, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 26, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. In effetti, la costituzione in giudizio della resistente (19 dicembre 2000), avvenuta «per puro scrupolo difensivo», secondo le parole dell’atto defensionale, ha fatto seguito non alla notificazione del ricorso e dell’ordinanza della Corte costituzionale che lo dichiara ammissibile ma a una mera comunicazione di cancelleria.

Sennonché, in momenti successivi, tutti rientranti nel termine stabilito nell’ordinanza di ammissibilità della Corte costituzionale, il Tribunale ricorrente ha provveduto a notificare alla Camera dei deputati, prima, la sola ordinanza di ammissibilità del ricorso e, poi, l’ordinanza e il ricorso, secondo quanto previsto dalle disposizioni della legge n. 87 del 1953 e delle norme integrative sopra menzionate.

 

Preso atto di questa sequela di atti, la Camera resistente, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, si rimette al prudente apprezzamento della Corte costituzionale la quale non può non constatare che, con l’ultima notificazione (cui è seguito il deposito degli atti presso la Corte medesima, nel termine previsto dal terzo comma dell’art. 26 delle norme integrative), si sono completati gli adempimenti richiesti per la valida instaurazione del giudizio. La costituzione in giudizio della resistente, avvenuta prima del completamento degli adempimenti richiesti al ricorrente, d’altro canto, non viola alcuna disposizione procedurale e non ha compromesso l’esercizio del suo diritto di difesa, esplicabile (ed esplicato) senza limitazioni tramite il deposito di memorie fino al termine di dodici giorni liberi prima dell’udienza, come previsto dall’art. 10 delle norme integrative. Non sussistono pertanto ragioni per escludere l’ammissibilità del ricorso.

3. – Nel merito, il ricorso è fondato.

Le dichiarazioni che la Camera dei deputati ha ritenuto coperte dalla garanzia del primo comma dell’art. 68 della Costituzione consistono - secondo le espressioni ricordate testualmente nell’esposizione dei fatti - nell’asserzione, ripresa da quanto si riferisce affermato da un soggetto «pentito» o comunque indagato, che il deputato che si reputa diffamato è stato destinatario di finanziamenti illeciti («tangenti»), nella sua qualità di «numero due» del suo partito politico, con la conclusione che i moralizzatori non sono diversi da quelli che essi vorrebbero moralizzare.

 

Contrariamente a quanto ritenuto dalla Camera dei deputati, le predette dichiarazioni, rese fuori dell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, cioè nel corso di una trasmissione televisiva di cui il deputato era conduttore, a tali funzioni non possono essere ricondotte e quindi la garanzia del primo comma dell’art. 68 della Costituzione non può essere invocata nella specie.

 

La Camera dei deputati, con la delibera che ha dato luogo al presente conflitto, pare persistere nel ritenere che la garanzia costituzionale «copra» ogni affermazione collegata tematicamente a questioni comunque oggetto di  attività parlamentare. In conseguenza di questa convinzione, essa ha ritenuto che le dichiarazioni sopra richiamate, «ancorché espresse in forme e toni [...] non condivisibili, possono [...] essere considerate una proiezione estrema delle [...] funzioni parlamentari» (Camera dei deputati, XIII legislatura, Relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, Doc. IV-ter, n. 49/A), poiché il tema del finanziamento del partito di appartenenza del deputato che si ritiene diffamato era stato oggetto di numerosi atti di controllo ispettivo, alcuni dei quali promossi dallo stesso deputato chiamato a rispondere per diffamazione nel giudizio civile. In questo modo, però, si è trascurato di considerare che, per poter identificare dichiarazioni rese al di fuori dell’esercizio di attività parlamentari con espressioni di attività rientranti nella garanzia dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, non basta la semplice comunanza di argomenti né, tantomeno, la semplice riconducibilità a un medesimo contesto politico. Occorre invece che tali dichiarazioni possano essere qualificate propriamente come esercizio di attività parlamentare, il che normalmente accade se e in quanto sussista una sostanziale corrispondenza di significato con le opinioni già espresse nell’ambito dell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche. Solo in tal caso, il richiamo all’art. 68, primo comma, della Costituzione è giustificato.

 

Alla luce di tale giurisprudenza, che questa Corte ha elaborato a partire dalle sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, la Camera dei deputati, con la deliberazione del 3 novembre del 1998 che ha dato origine al presente conflitto di attribuzione, ha male inteso il significato della garanzia stabilita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, così violando le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria ricorrente.

 

Infatti, pur essendo numerosi gli atti parlamentari, anche a firma del deputato chiamato a rispondere per diffamazione, richiamati dalla Camera resistente, i quali hanno per oggetto, in genere, il sistema di finanziamento del partito di appartenenza del deputato che si ritiene diffamato e, in specie, il sospetto del suo carattere illegale, in nessuno di essi è dato individuare un’ascrizione di responsabilità penale personale, puntuale come quella contenuta nella dichiarazione resa in televisione. Questa considerazione è decisiva ed esime la Corte dal prendere posizione sull’argomentazione prospettata dalla difesa della Camera dei deputati, circa la rilevanza del «contesto comunicativo parlamentare», nel quale il deputato o il senatore sia inserito anche solo in posizione ricettiva, al fine di determinare l’ambito delle opinioni della cui divulgazione essi, in quanto coinvolti in tale contesto, non possano essere chiamati a rispondere.

Nessun rilievo, infine, può essere attribuito in questa sede al preteso «carattere paradossale» che, secondo la difesa della Camera, è tipico del modo di esprimersi del deputato chiamato in giudizio per risarcimento del danno: un carattere che potrebbe eventualmente essere valutato in questo altro giudizio.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati dichiarare l’insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi, per le quali è in corso davanti al Tribunale di Roma - V sezione stralcio, il giudizio indicato in epigrafe;

 

annulla conseguentemente la delibera adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 3 novembre 1998.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2002.

 

Massimo VARI, Presidente

 

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2002.