ORDINANZA N.182
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO. Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 493, comma 3, e 495 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 26 maggio 2000 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel procedimento penale a carico di P.C., iscritta al n. 517 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 marzo 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 26 maggio 2000, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 493, comma 3, e 495 cod.proc.pen., "nella parte in cui non prevedono che l’imputato esprima il consenso, personalmente o a mezzo di procura speciale, in vista dell’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero";
che il rimettente premette che nel giudizio a quo, instaurato a seguito di giudizio immediato, il pubblico ministero aveva concordato con il difensore dell’imputato, ai sensi dell’art. 493, comma 3, cod.proc.pen., l’acquisizione al fascicolo del dibattimento dell’intero fascicolo delle indagini preliminari del pubblico ministero;
che di tale accordo il Presidente del collegio giudicante aveva dato atto con ordinanza a norma dell’art. 495 cod.proc.pen. e che, nel prosieguo del dibattimento, nessuna attività istruttoria era stata compiuta;
che, a parere del rimettente, il descritto iter procedurale, pienamente conforme alla disciplina prevista dagli artt. 493, comma 3, e 495 cod.proc.pen., risulterebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione;
che con l’accordo in questione, infatti, il pubblico ministero ed il difensore, chiedendo al giudice una decisione fondata esclusivamente sulle risultanze degli atti di indagine, avrebbero sostanzialmente determinato una integrale rinuncia al contraddittorio, fuori dai presupposti previsti dall’art. 111, quinto comma, della Costituzione, in forza del quale può derogarsi al principio della formazione della prova in contraddittorio solo con il consenso dell’imputato;
che, nel caso di specie, l’imputato, pur presente in aula, non é stato chiamato ad esprimere alcun preventivo consenso e ciò, peraltro, secondo una corretta esegesi dell’art. 493, comma 3, cod.proc.pen., norma che, stabilendo che "le parti possano concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero", non lascia dubbi circa la riferibilità di tale facoltà anche al difensore quale parte in senso tecnico, in forza del generale principio di cui all’art. 99, comma 1, cod.proc.pen., non essendo formulata alcuna riserva di esercizio personale della facoltà medesima da parte dell’imputato;
che, ad avviso del ricorrente, sarebbe leso altresì l’ art. 3 della Costituzione, in quanto le norme impugnate prefigurerebbero sostanzialmente un giudizio semplificato "allo stato degli atti", del tutto analogo al rito abbreviato, in rapporto al quale tuttavia - diversamente da quest’ultimo - non sarebbe previsto nè il presupposto del consenso personale dell’imputato, nè il trattamento "premiale" di riduzione della pena;
che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità e, in via subordinata, di non fondatezza della questione;
che l’Avvocatura erariale ha evidenziato, in particolare, in punto di rilevanza, come dalla presenza dell’imputato fosse ragionevole presumere l’esistenza del suo consenso e, quanto al merito, che dovesse escludersi l’assimilabilità del meccanismo processuale impugnato al giudizio abbreviato, in relazione al quale, peraltro, secondo un recente orientamento giurisprudenziale, era da ritenere ammissibile la richiesta formulata dal difensore alla presenza dell’imputato.
Considerato che il Tribunale di S. Maria Capua Vetere sottopone a scrutinio di costituzionalità disposizioni, quali l’art. 493, comma 3, ed, in relazione ad esso, l’art. 495 cod.proc.pen., che, involgendo la serie dei poteri dispositivi sulla prova, afferiscono indubbiamente all’attività di difesa tecnica svolta, nel processo penale, dal difensore dell’imputato;
che, in proposito, va premessa l’affermazione della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui "le norme che assicurano la difesa tecnica sono funzionali alla realizzazione di un ‘giusto processo’, garantendo l’effettività di un contraddittorio più equilibrato e una sostanziale parità delle armi tra accusa e difesa" (cfr. ordinanza n. 421 del 1997), poichè risulta ragionevole che, alla specifica capacità professionale del pubblico ministero, si venga a "contrapporre quella di un soggetto di pari qualificazione, che affianchi ed assista l’imputato" (cfr. sentenza n. 125 del 1979);
che, in tale prospettiva, pur se é pacifica l’esistenza di un "complesso di attività mediante le quali l’imputato, come protagonista del processo penale, ha la facoltà di eccitarne lo sviluppo dialettico contribuendo all’acquisizione delle prove ed al controllo di legalità del suo svolgimento" (cfr. sentenza n. 186 del 1973), é tuttavia indubbio che il difensore si presenti come "il garante dell’autonomia e dell’indipendenza dell’imputato nella condotta di causa", in quanto unico soggetto in grado di assicurare, per l’imputato, "quelle cognizioni tecnico-giuridiche, quell’esperienza processuale e quella distaccata serenità che gli consentono di valutare adeguatamente le situazioni di causa" (cfr. sentenza n. 498 del 1989);
che tali connotazioni dell’esercizio della difesa tecnica non possono non rilevare con riferimento all’attività di richiesta di prove nel dibattimento, della quale l’accordo tra le parti, previsto nel comma 3 dell’art. 493 cod.proc.pen., é concreta modalità di articolazione;
che al soddisfacimento delle medesime finalità sono rivolti, del resto, gli artt. 431, comma 2, e 500, comma 7, cod.proc.pen. (quest’ultimo come risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 1° marzo 2001, n. 63), relativi a momenti processuali nei quali il ruolo tecnico del difensore assume un essenziale e pressochè esclusivo risalto;
che, pertanto, non sussiste la denunciata lesione del principio del contraddittorio con riferimento all’art. 111, quinto comma, della Costituzione;
che, parimenti, non sussiste la violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di disciplina del meccanismo processuale oggetto della censura rispetto ai presupposti di accesso ed agli effetti della disciplina del rito abbreviato;
che, infatti, i due istituti processuali posti a raffronto - rito abbreviato ed accordo sulla prova - risultano assolutamente disomogenei e non assimilabili, posto che gli accordi che possono intervenire tra le parti in ordine alla formazione del fascicolo per il dibattimento non escludono affatto il diritto di ciascuna di esse ad articolare pienamente i rispettivi mezzi di prova, secondo l’ordinario, ampio potere loro assegnato per la fase dibattimentale; ciò a differenza di quanto avviene per il rito abbreviato, la cui peculiarità consiste proprio nel fatto di essere un modello alternativo al dibattimento che - oltre a fondarsi sull’intero materiale raccolto nel corso delle indagini, a prescindere da qualsiasi meccanismo di tipo pattizio - consente una limitata acquisizione di elementi integrativi, che lo configurano quale rito a "prova contratta";
che, non essendo dunque ravvisabile nelle disposizioni denunciate alcun profilo di contrasto con gli invocati parametri, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9 secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 493, comma 3, e 495 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001.