ORDINANZA N. 409
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 260 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 12 gennaio 1999 dal Tribunale militare di Torino nei procedimenti penali riuniti a carico di MARTINO Walter, iscritta al n. 246 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio del ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 12 gennaio 1999 nel corso di un procedimento nei confronti di persona imputata del reato di allontanamento illecito, previsto dall’art. 147 del codice penale militare di pace, il Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 260 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede che la richiesta di procedimento del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole — alla quale é subordinata la perseguibilità dei reati puniti con la reclusione militare non superiore a sei mesi — debba essere motivata;
che il rimettente premette che, nel giudizio a quo, l’azione penale é stata promossa — così come consentito, allo stato, dalla norma denunciata — sulla base di due richieste di procedimento del tutto prive di motivazione;
che, ad avviso del rimettente, la richiesta di procedimento del comandante del corpo non potrebbe essere assimilata alla querela — in quanto volta alla tutela di interessi pubblicistici, e non privatistici — ma andrebbe qualificata come atto oggettivamente amministrativo, concretandosi in una manifestazione di volontà proveniente da un organo della pubblica amministrazione, avente rilevanza esterna, riferita ad un caso concreto ed indirizzata ad un destinatario determinato;
che, in tale ottica, la norma impugnata violerebbe, in parte qua, i principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa, giacchè la mancata previsione dell’obbligo di motivazione impedirebbe il controllo giurisdizionale sul corretto esercizio del potere discrezionale attribuito al comandante e l’eventuale disapplicazione della richiesta, ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, nel caso di accertata insussistenza dell’interesse pubblico alla punizione del reo nello specifico frangente;
che risulterebbe altresì compromesso il principio di uguaglianza, sia a fronte del diverso regime riservato alla richiesta di procedimento rispetto alla generalità degli atti amministrativi, per i quali l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 prescrive la motivazione e che, attraverso la stessa, possono essere sottoposti a controllo giurisdizionale; sia in rapporto alle disparità di trattamento che, in conseguenza delle insindacabili determinazioni del comandante del corpo, sono suscettive di verificarsi tra soggetti responsabili di identici fatti (ad esempio, nel caso di ingiurie reciproche, il comandante potrebbe proporre la richiesta nei confronti di uno soltanto dei militari coinvolti, in quanto legato all’altro da vincoli di amicizia);
che la rilevanza della questione si lega, nella contingenza, alla circostanza che, in caso di suo accoglimento, l’imputato potrebbe essere prosciolto dal reato contestatogli, previa disapplicazione delle due richieste di procedimento proposte nei suoi confronti, in quanto affatto immotivate;
che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità e infondatezza della questione;
che l’Avvocatura erariale rileva segnatamente, in primo luogo, che la violazione dell’art. 3 Cost., dedotta dal rimettente, é già stata esclusa da questa Corte con sentenza n. 114 del 1982; in secondo luogo, che il precetto dell’art. 97, primo comma, Cost. attiene alla materia dell’organizzazione dei pubblici uffici, e non anche all’attività amministrativa incidente sulla sfera soggettiva dei privati; e, da ultimo, che l’obbligo di motivazione non costituisce, per gli atti amministrativi, a differenza che per quelli giurisdizionali, un principio costituzionalmente garantito.
Considerato che, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, l’istituto della richiesta di procedimento del comandante del corpo, previsto dall’art. 260 del codice penale militare di pace, trova la sua giustificazione nell’opportunità di affidare al comandante, di fronte a condotte prive di rilevante attitudine offensiva, una facoltà di scelta tra l’adozione di provvedimenti di natura esclusivamente disciplinare ed il ricorso all’ordinaria azione penale, evitando che l’esercizio incondizionato di quest’ultima determini un pregiudizio — in termini di menomazione del prestigio e della dignità delle forze armate — proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato (cfr. sentenze nn. 449 del 1991 e 42 del 1975, nonchè ordinanze nn. 396 del 1996 e 189 del 1976): e ciò anche in correlazione all’estraneità al diritto penale militare dell’istituto della querela, incompatibile con le caratteristiche dei reati militari, nei quali é sempre insita "un’offesa alla disciplina e al servizio, una lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico che non tollera subordinazione all’interesse privato caratteristico della querela" (cfr. sentenze nn. 449 del 1991 e 42 del 1975, nonchè ordinanza n. 229 del 1988);
che, tanto ribadito, la premessa interpretativa da cui muove il giudice a quo — in forza della quale la richiesta di procedimento del comandante del corpo andrebbe qualificata come atto oggettivamente amministrativo — si pone in aperto contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che cataloga per converso la richiesta (pur concretante un atto amministrativo a parte subiecti) fra i veri e propri atti processuali, stante il suo inserimento nell’iter del processo penale, necessariamente sfociante nella valutazione giurisdizionale, non solo della sussistenza e della attribuibilità del fatto oggetto della richiesta stessa, ma anche della ritualità di tutta la relativa attività procedimentale;
che il ricordato orientamento giurisprudenziale é, d’altro canto, in sintonia con le indicazioni di questa Corte, la quale — sia pure nella cornice della risoluzione di questioni di legittimità costituzionale di diverso taglio — ha costantemente riconosciuto natura processuale all’atto in parola (cfr. ordinanze nn. 467 del 1995; 238, 293 e 295 del 1992; 397 del 1987);
che l’esclusione dell’obbligo di motivazione, censurata dal giudice a quo, rappresenta proprio un corollario, di ordine interpretativo, della classificazione della richiesta come atto processuale; classificazione la quale — al lume dell’accennato indirizzo della Corte di cassazione, peraltro apprezzabile in termini di diritto vivente — vale a sottrarla all’applicazione del generale disposto dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990: e ciò in coerenza con la funzione dell’istituto, che da un lato si sovrappone, escludendola, alla querela prevista dal diritto penale comune e, dall’altro lato, rientra nella generale categoria delle richieste di procedimento di competenza dell’autorità amministrativa, cui é riferimento nell’art. 342 cod. proc. pen., caratterizzate da un’ampia e non vincolata discrezionalità;
che tale ricostruzione del quadro normativo é avvalorata — sempre alla stregua del ricordato orientamento giurisprudenziale — anche dalla concreta disciplina dell’istituto, caratterizzata dal regime di irrevocabilità della richiesta (art. 129 cod. pen.) e dalla mancanza (incompatibile con la pretesa natura di atto oggettivamente amministrativo) di qualsiasi forma di autotutela dell’amministrazione o di reclamo da parte dell’interessato; una prospettiva nella quale il sindacato del giudice penale resta quindi circoscritto alla verifica della competenza del richiedente, dei requisiti formali e della tempestività dell’atto, senza che ne sia ammessa la disapplicazione, ad esempio, per la mancata astensione in presenza di un interesse personale dell’autore della richiesta: ed é proprio per tale ragione che si é reso necessario l’intervento di questa Corte (con sentenza n. 449 del 1991) al fine di escludere (trasferendola al comandante di ente superiore) la competenza del comandante del corpo allorchè questi sia la persona offesa dal reato;
che, peraltro, anche a prescindere da tali ultimi rilievi, risulta in ogni caso evidente il vizio logico che affetta la prospettazione del giudice a quo, allorchè dalla qualificazione della richiesta come atto oggettivamente amministrativo fa discendere l’illegittimità costituzionale della norma denunciata, sotto il profilo del "trattamento privilegiato" da essa riservato all’atto in discorso — in punto di esonero dall’obbligo di motivazione — rispetto alla generalità degli altri atti amministrativi;
che, infatti, se l’accennata premessa ermeneutica fosse corretta, cadrebbe eo ipso anche il corollario cui il dubbio di costituzionalità si connette; laddove, al contrario, é dalla differente classificazione dell’atto che discendono, ad un tempo, il corollario stesso e l’esclusione della ipotizzata frizione con il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, risultando la diversità di regime conseguenziale alle peculiari connotazioni dell’atto avuto di mira;
che, quanto al resto, le censure del rimettente ripropongono — traslate dal piano della legittimità dell’istituto in sè a quello del controllo sulla motivazione — dubbi di costituzionalità già più volte esaminati e disattesi da questa Corte, senza che risultino addotti argomenti nuovi atti a giustificare un eventuale mutamento di indirizzo;
che, in particolare, la Corte ha chiarito che la possibile disparità di trattamento tra i colpevoli di reati militari, come conseguenza delle insindacabili determinazioni del comandante del corpo, non pone la norma denunciata in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la discrezionalità nell’applicazione della legge, attribuita al comandante — al quale, peraltro, é doveroso accreditare doti di imparzialità e distacco (cfr. sentenza n. 449 del 1991, nonchè ordinanze nn. 396 del 1996 e 467 del 1995) — "non può dar luogo a violazioni apprezzabili sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza" (cfr. sentenza n. 114 del 1982, nonchè ordinanze nn. 112 del 1981 e 60 del 1978);
che, del pari, si é escluso che l’istituto della richiesta di procedimento, risolvendosi nell’attribuzione al comandante del corpo di un potere svincolato da ogni controllo, leda il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, stante la non arbitrarietà della disciplina dettata dal legislatore ordinario in rapporto agli obiettivi perseguiti dalla previsione normativa (cfr. ordinanze nn. 112 del 1981 e 60 del 1978).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 260 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale militare di Torino con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in cancelleria il 31 luglio 2000.