Sentenza n. 49/99

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SENTENZA N.49

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI  

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 145 - e 145, comma 6 - del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), promossi con ordinanze emesse, l’una, il 28 giugno 1996 della Corte d’Appello di Roma sul reclamo proposto da Alberto Predieri contro la Banca d’Italia ed altro iscritta al n. 91 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1997, l’altra, il 4 febbraio 1997 della Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra Filippo Laudani e la Banca d’Italia iscritta al n. 643 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1997.

  Visti gli atti di costituzione di Alberto Predieri, di Filippo Laudani e della Banca d’Italia, nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 1998 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

  uditi gli avvocati Fabio Lorenzoni per Alberto Predieri, Niccolò Salanitro per Filippo Laudani, Sergio Luciani, Pier Luigi Lorenti e Vittorio Donato Gesmundo per la Banca d’Italia e l’avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.1. - Nel corso di un giudizio promosso da un componente del consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio di Firenze, che aveva proposto reclamo contro il decreto del Ministro del tesoro con il quale gli era stata inflitta una sanzione pecuniaria per inosservanza dell’obbligo di inviare alla Banca d’Italia segnalazioni richieste (art. 20 del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481, ora art. 51 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385), con ordinanza emessa il 28 giugno 1996 e pervenuta il 17 febbraio 1997 (reg. ord. n. 91 del 1997) la Corte d’appello di Roma ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), che disciplina la procedura per l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dallo stesso testo unico ed i relativi reclami.

  La Corte d’appello, accogliendo l’eccezione proposta dal ricorrente, ritiene che la disposizione denunciata innovi la disciplina delle sanzioni per illeciti di amministratori delle banche, eccedendo dalla delega concessa al Governo. In particolare sarebbero stati inclusi tra gli illeciti comportamenti in precedenza non compresi tra quelli sanzionati (art. 144, commi 3 e 4, dello stesso decreto legislativo n. 385 del 1993); sarebbe stato innalzato l’importo delle sanzioni; sarebbe stato ampliato l’ambito dei soggetti destinatari delle sanzioni, seguendo un criterio di imputazione della responsabilità basato sulla funzione svolta e non sulla qualifica ricoperta; sarebbe stato eliminato, nella fase amministrativa della procedura sanzionatoria, l’intervento del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR). Ciò mentre la delega conferita al Governo con la legge comunitaria per il 1991 (legge 19 febbraio 1992, n. 142), destinata ad attuare la direttiva del Consiglio 89/646/CEE, non farebbe alcun riferimento, neanche indiretto, alla materia delle sanzioni, che sarebbe stata, dunque, disciplinata al di fuori della delega stessa.

La soluzione del dubbio di legittimità costituzionale é considerata rilevante nel giudizio principale, perchè se le norme denunciate fossero illegittime non potrebbe essere applicata alcuna sanzione, essendo stata espressamente abrogata la precedente disciplina di analogo contenuto (art. 161 del decreto legislativo n. 385 del 1993).

  1.2. - Il ricorrente nel giudizio principale si é costituito per sostenere l’illegittimità costituzionale delle norme denunciate.

  A suo avviso, il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, emanato con il decreto legislativo n. 385 del 1993, eccederebbe, in materia di sanzioni, i limiti della delega concessa al Governo.

Difatti l’art. 25 della legge n. 142 del 1992 conteneva due distinte deleghe: la prima, destinata a recepire la direttiva 89/646/CEE, é stata attuata con il decreto legislativo n. 481 del 1992; la seconda, che prevedeva l’emanazione di un testo unico delle disposizioni adottate con la prima delega da coordinare con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia, é stata attuata con il decreto legislativo n. 385 del 1993. Questa seconda delega consentirebbe la modifica, a fini di coordinamento, delle sole norme contrastanti con la direttiva comunitaria recepita con la prima delega. Il Governo avrebbe, invece, emanato una nuova disciplina che ha complessivamente riordinato l’intero settore, modificando anche il decreto legislativo n. 481 del 1992, di attuazione della direttiva comunitaria 89/646/CEE, che invece doveva costituire la base del nuovo ordinamento; decreto legislativo che, a sua volta, in materia di sanzioni non aveva rispettato i principi della delega. La materia delle sanzioni, difatti, non rientrerebbe tra quelle previste dall’art. 25, comma 1, della legge n. 142 del 1992, ma anzi sarebbe stata espressamente esclusa dalla delega, giacchè la stessa disposizione stabilisce, alla lettera d), che restano ferme le disposizioni tributarie vigenti per l’accertamento delle imposte dovute dai residenti ed ogni altra disposizione sanzionatoria e penale concernente l’attività creditizia e finanziaria.

  La parte privata ritiene che il legislatore abbia inteso in tal modo escludere del tutto dalla delega legislativa la materia sanzionatoria e penale, anche se l’art. 17 della direttiva 89/646/CEE, attuata con i decreti legislativi già richiamati, prevede che le autorità competenti possono irrogare sanzioni nei confronti degli enti creditizi, o dei dirigenti responsabili, che si sono resi colpevoli di infrazioni alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative in materia di controllo o di esercizio dell’attività creditizia.

  Inoltre la disciplina introdotta con la disposizione denunciata sarebbe in contrasto con il principio di responsabilità personale, che richiede l’elemento soggettivo del dolo o della colpa anche per l’applicazione di sanzioni amministrative, oltre che per quelle penali, così come stabilisce in via generale l’art. 3 della legge 24 novembre del 1981, n. 689, che, nel disciplinare l’elemento soggettivo nelle violazioni amministrative, riproduce il contenuto dell’art. 42 del codice penale. Il principio di responsabilità personale era rispettato dalla precedente legge bancaria, che attribuiva la responsabilità degli illeciti ai soggetti alla cui azione od omissione dovessero imputarsi le infrazioni (art. 87 del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375). La nuova disciplina avrebbe, invece, introdotto una responsabilità oggettiva, connessa alla funzione svolta e senza che debbano essere accertate la responsabilità personale e la colpa, secondo quanto prevede un principio fondamentale dell’ordinamento (art. 27 Cost.).

  1.3. ¾ Si é costituita la Banca d’Italia, parte del giudizio principale, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

  L’inammissibilità deriverebbe sia dalla erronea indicazione della disposizione che ha attribuito al Governo la delega ad emanare il testo unico, sia dalla genericità della questione, che é stata prospettata richiamando una pluralità di norme tra di loro non omogenee, alcune delle quali addirittura estranee al giudizio che avrebbe dovuto emettere il giudice che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Questa sarebbe, comunque, manifestamente infondata, perchè l’intervento del legislatore delegato nella disciplina delle sanzioni amministrative per gli amministratori di banche italiane troverebbe la sua base tanto nella seconda direttiva comunitaria di coordinamento in materia bancaria (89/646/CEE) quanto nella legge di delega (n. 142 del 1992).

  1.4. ¾ E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

  L’inammissibilità deriverebbe dalla carenza di motivazione dell’ordinanza di remissione, che denuncia l’art. 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993, comprendente una pluralità eterogenea di disposizioni che disciplinano l’intera procedura sanzionatoria, mentre la stessa ordinanza richiama quasi esclusivamente la disciplina dettata dall’art. 144, che ha contenuti del tutto diversi.

Nel merito non sussisterebbe il vizio di eccesso di delega, giacchè la materia delle sanzioni sarebbe indicata sia dall’art. 17 della direttiva comunitaria da attuare (89/646/CEE) sia dalla legge di delega (n. 142 del 1992), che ha compreso tra i criteri e principi direttivi generali della delega stessa anche la previsione di sanzioni penali e amministrative, se necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie, ed ha consentito modifiche ed integrazioni alla disciplina vigente, al fine di evitare disarmonie nei settori interessati dalla normativa da attuare (art. 2, comma 1, rispettivamente lettere c e d).

Il decreto legislativo n. 481 del 1992 si sarebbe attenuto ai principi e criteri della delega, riproducendo le previsioni della legge bancaria in materia di illeciti amministrativi (artt. 87 e ss. del regio decreto-legge n. 375 del 1936), con talune integrazioni o modifiche rese necessarie dal recepimento di disposizioni della direttiva comunitaria o determinate dall’esigenza di evitare disarmonie nella materia. Difatti sarebbe rimasto sostanzialmente inalterato l’impianto del procedimento per l’applicazione delle sanzioni previsto dalla precedente legge bancaria (art. 90 del regio decreto-legge n. 375 del 1936), come pure sarebbero state evitate disarmonie con la disciplina delle sanzioni introdotte da recenti leggi in materia di intermediazione mobiliare (legge 2 gennaio 1991, n. 1) e di credito al consumo (art. 23 della legge n. 142 del 1992). E’ stato anche soppresso l’intervento, nel procedimento di applicazione delle sanzioni, del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, giacchè a questo organismo é stata attribuita una funzione di alta vigilanza (art. 2 del decreto legislativo n. 385 del 1993), che comporta l’emanazione di disposizioni di carattere generale e non l’adozione di specifici provvedimenti particolari.

In generale il potere di coordinamento attribuito con delega legislativa implicherebbe, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 16 del 1957, n. 28 del 1961 e n. 135 del 1967), la possibilità di colmare lacune e disarmonie esistenti nel settore cui la delega stessa si riferisce. Nel caso in esame il coordinamento avrebbe dovuto avere come riferimento il decreto legislativo di recepimento della seconda direttiva comunitaria in materia bancaria (n. 481 del 1992); ma l’esigenza di coordinamento avrebbe consentito di modificare anche le norme di quest’ultimo decreto legislativo. Il testo unico così emanato (decreto legislativo n. 385 del 1993) avrebbe seguito questa impostazione, coordinando le disposizioni vigenti nella materia, comprese quelle del decreto legislativo n. 481 del 1992, e conservandone l’impianto sanzionatorio, che nelle linee essenziali rispecchia la legge bancaria del 1936-38.

  Le norme del testo unico in materia bancaria e creditizia, che non erano già contenute nel decreto legislativo n. 481 del 1992, richiamerebbero disposizioni della disciplina sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e del credito al consumo. Per quanto specificamente riguarda l’art. 145 del testo unico, sarebbe improprio parlare di innovazioni rispetto alla disciplina anteriore: i commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7 riproducono pressochè testualmente i commi da 1 a 6 dell’art. 34 del decreto legislativo n. 481 del 1992; i commi 5 e 6 riproducono le previsioni dell’art. 90, quarto, quinto e sesto comma, della legge bancaria del 1936-38; il comma 3 disciplina una materia del tutto estranea all’oggetto del giudizio principale.

  1.5. ¾ Il ricorrente nel giudizio principale ha depositato, in prossimità dell’udienza, una memoria per contestare le eccezioni di inammissibilità e per ribadire gli argomenti a sostegno della fondatezza della questione.

  L’ordinanza di rimessione sarebbe adeguatamente motivata e dovrebbe essere letta in conformità all’eccezione di legittimità costituzionale proposta dalla parte, che l’ordinanza stessa ha accolto. Si dovrebbe, quindi, ritenere che il controllo di legittimità costituzionale comprenda, oltre che l’art. 145, menzionato nel dispositivo dell’ordinanza, anche gli artt. 51 e 144 del decreto legislativo n. 385 del 1993. Nè potrebbe essere sostenuta la inammissibilità della questione per eterogeneità delle norme denunciate, giacchè la questione investirebbe l’intero assetto della procedura di irrogazione delle sanzioni, essendo stata dedotta l’assoluta mancanza della delega legislativa.

  Nel merito la parte privata ritiene che l’eccesso di delega non sia escluso considerando che i criteri e principi direttivi generali consentono al legislatore delegato di stabilire le sanzioni penali e amministrative necessarie per assicurare l’osservanza della disciplina da adottare (art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 142 del 1992). Difatti la stessa disposizione fa salvi i criteri e principi direttivi dettati negli articoli seguenti in materia bancaria e creditizia, i quali escluderebbero proprio le sanzioni (art. 25 della legge n. 142 del 1992). In ogni caso le modifiche apportate dal legislatore delegato non risponderebbero all’esigenza di coordinamento, posta a base della delega, che doveva riguardare l’armonizzazione del decreto legislativo n. 481 del 1992 (di recepimento della direttiva comunitaria 89/646/CEE), a sua volta viziato nella parte relativa alle sanzioni che la delega non prevedeva, con le altre disposizioni vigenti.

La parte privata ribadisce che le nuove norme introdurrebbero un’ipotesi di responsabilità oggettiva, connessa esclusivamente alla titolarità di determinate funzioni, senza che sia attribuito rilievo all’elemento soggettivo, del dolo o della colpa. In tal modo sarebbe violato il principio di responsabilità personale per gli atti illeciti.

  1.6. ¾ Anche la Banca d’Italia ha depositato, in prossimità dell’udienza, una memoria per illustrare le ragioni a sostegno dell’inammissibilità o dell’infondatezza della questione.

  La direttiva comunitaria 89/646/CEE, inserita nel processo di armonizzazione delle norme dei paesi comunitari, imporrebbe alle legislazioni nazionali, come ogni altra direttiva di coordinamento, di uniformarsi a principi comuni, perchè le banche di ciascun paese dell’Unione europea possano svolgere la propria attività negli altri paesi in base all’autorizzazione rilasciata in quello di origine e sotto la vigilanza delle autorità del medesimo.

La legge n. 142 del 1992 avrebbe attribuito al Governo la delega ad emanare le norme occorrenti per dare attuazione a tale direttiva, indicando sia criteri e principi generali comuni per l’attuazione di tutte le direttive comprese nella legge comunitaria per il 1991 (art. 2), sia criteri e principi specifici per l’attuazione della direttiva 89/646/CEE (art. 25, comma 1). Tra i primi l’introduzione di modificazioni ed integrazioni occorrenti per evitare disarmonie nei singoli settori interessati dalla direttiva da attuare; la previsione di sanzioni penali o amministrative per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi; la piena conformità della disciplina delegata alla direttiva, tenendo conto delle modificazioni nel frattempo intervenute (art. 2, lettere c, d ed f). L’art. 25 della legge n. 142 del 1992 ha inoltre attribuito al Governo la delega ad emanare un testo unico delle disposizioni adottate per recepire la direttiva comunitaria, "coordinato con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia apportandovi le modificazioni necessarie a tal fine". Il testo unico avrebbe dovuto ricondurre ad unità sistematica la disciplina di settore, con l’obiettivo, connaturale al coordinamento, di razionalizzare la disciplina, assumendo i criteri di recepimento della direttiva comunitaria a canoni fondamentali della successiva opera di coordinamento normativo.

  Il testo unico, emanato con il decreto legislativo n. 385 del 1993, assoggetterebbe al medesimo regime sanzionatorio (art. 144), in caso di violazione delle norme sulla vigilanza, le banche e gli intermediari finanziari, coordinando le disposizioni del decreto legislativo n. 481 del 1992 con quelle della legge 21 febbraio 1991, n. 52 e della legge 5 luglio 1991, n. 197 (di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143) e rispondendo all’esigenza di tutelare in modo analogo l’esercizio delle funzioni di vigilanza sui gruppi creditizi (art. 25 e ss. del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356). L’art. 145 del testo unico, che disciplina il procedimento per l’applicazione delle sanzioni pecuniarie per le violazioni previste dall’art. 144, prevede la possibilità di proporre reclamo alla Corte d’appello di Roma contro il decreto del Ministro del tesoro che applica le sanzioni, riproducendo sostanzialmente la disciplina dell’art. 34 del decreto legislativo n. 481 del 1992.

  La Banca d’Italia ritiene che la materia delle sanzioni non sia estranea alla delega legislativa. La direttiva comunitaria da recepire, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi ed il suo esercizio (89/646/CEE), avrebbe imposto agli Stati membri di prevedere, per le banche autorizzate, sanzioni adeguate in caso di infrazioni alle disposizioni in materia di controllo e di esercizio della loro attività (art. 17). La delega legislativa specifica per la materia creditizia (art. 25, lettera c, della legge n. 142 del 1992) imponeva l’adeguamento della disciplina vigente per le banche italiane alla direttiva comunitaria anche per i profili sanzionatori, previsti del resto dai criteri e principi direttivi generali della delega (art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 142).

  L’art. 25, comma 1, lettera d), della legge n. 142 del 1992, che mantiene ferme le disposizioni sanzionatorie e penali concernenti l’attività creditizia, non renderebbe intangibile la disciplina sanzionatoria amministrativa prevista dalla legge bancaria del 1936-38, ma si riferirebbe all’attività svolta dalle banche di altri paesi della Comunità, stabilendo che anche ad esse si applicano le norme sanzionatorie poste a presidio di interessi generali, alle quali sono assoggettate, per le stesse attività, le banche italiane.

  La disciplina dettata dal decreto legislativo n. 481 del 1992, di attuazione della direttiva 89/646/CEE, si sarebbe conformata alla legge di delega anche nella disciplina degli illeciti amministrativi, riproducendo le corrispondenti previsioni della legge bancaria (art. 87 e ss. del regio decreto-legge n. 375 del 1936). L’adozione del criterio funzionale per l’individuazione dei responsabili degli illeciti non introdurrebbe un criterio oggettivo di imputazione, stabilendo che possono essere considerati responsabili dell’illecito coloro che, per poteri e posizione di fatto ricoperta, sono effettivamente in condizione di determinare la conduzione aziendale. Su un piano diverso si porrebbe la prova in concreto della colpevolezza, per la quale varrebbe la regola, prevista in via generale (artt. 3 e 12 della legge n. 689 del 1981), dell’elemento soggettivo nelle violazioni per le quali sia da applicare una sanzione amministrativa. Nel caso che ha dato luogo alla questione di legittimità costituzionale (partite incagliate non segnalate all’organo di vigilanza per oltre mille miliardi) sarebbe evidente la culpa in vigilando a carico degli amministratori.

  Quanto al procedimento di applicazione delle sanzioni, esso avrebbe mantenuto sostanzialmente inalterato l’impianto della precedente legge bancaria (art. 90 del regio decreto-legge n. 375 del 1936), intervenendo solo per evitare disarmonie rispetto alla disciplina delle sanzioni introdotta in materia creditizia e finanziaria da leggi più recenti. La sola innovazione di rilievo consisterebbe nell’eliminazione dell’intervento del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, il cui ruolo é stato ridisegnato dallo stesso decreto legislativo, che ha attribuito ad esso la competenza ad adottare disposizioni di carattere generale, escludendo interventi particolari, non adeguati alla composizione dell’organo ed alle sue funzioni di alta vigilanza e che potevano essere contestati per incompatibilità con i principi comunitari.

2.1. ¾ Nel corso di un giudizio promosso da un componente del consiglio di amministrazione della Banca popolare di Belpasso, che aveva proposto reclamo contro il decreto del Ministro del tesoro che gli aveva applicato una sanzione amministrativa pecuniaria per la violazione degli artt. 31 e 32, lettere f) ed h), della legge bancaria (regio decreto-legge n. 375 del 1936), con ordinanza emessa il 4 febbraio 1997 e pervenuta il 2 settembre 1997 (reg. ord. n. 643 del 1997), la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 145, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, là dove dispone che la Corte d’appello di Roma, competente a decidere sui reclami avverso l’applicazione delle sanzioni disposte dal Ministro del tesoro, si pronuncia con decreto motivato.

La Corte di cassazione non pone in discussione la deroga alla disciplina ordinaria della competenza ed il rito camerale, che rispondono ad una scelta discrezionale del legislatore, giustificata sia dalla specialità e complessità tecnica della materia sia dall’essere accentrati il controllo e l’accertamento delle infrazioni. Ritiene, invece, non giustificata l’esclusione dell’ordinario ricorso per cassazione, previsto dalla disciplina comune nel giudizio di opposizione dinanzi al pretore contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento per le sanzioni amministrative (art. 23 della legge n. 689 del 1981). Contro la sentenza del pretore può essere proposto ricorso per cassazione per tutti i motivi previsti dal codice di procedura civile, in particolare per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360, numero 5, cod. proc. civ.), mentre il decreto della corte d’appello che decide il reclamo contro la sanzione amministrativa applicata dal Ministero del tesoro (art. 145, coma 6, del decreto legislativo n. 385 del 1993) sarebbe sottratto al controllo di adeguatezza della motivazione, essendo ammesso il ricorso in cassazione solo per violazione di legge, direttamente previsto dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione.

Questa differente disciplina non sarebbe giustificata e determinerebbe, nei confronti della decisione della corte d’appello, una tutela giurisdizionale meno intensa rispetto a quella prevista nei confronti delle sentenze del pretore nel giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione che applica sanzioni amministrative nella materia valutaria, considerata affine a quella bancaria.

  La Corte di cassazione motiva sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, affermando che, solo se accolta, potrebbe essere esaminato il motivo del ricorso proposto dalla parte che denuncia il decreto della Corte d’appello di Roma per vizi nella motivazione.

  2.2. - Si é costituito il ricorrente nel giudizio principale per chiedere, pregiudizialmente, che venga sollevata una questione di legittimità costituzionale già eccepita nel corso del giudizio principale e dichiarata manifestamente infondata dalla Corte di cassazione: l’art. 145, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 385 del 1993, prevedendo la competenza della Corte d’appello di Roma per i reclami contro i provvedimenti che applicano sanzioni amministrative in materia bancaria, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, 102 e 113 della Costituzione.

  Nel merito la parte privata sostiene la fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione. La norma denunciata violerebbe la garanzia del diritto di difesa ed il principio di eguaglianza, giacchè, ammettendo il ricorso in cassazione esclusivamente negli stretti limiti della carenza assoluta di motivazione, priverebbe i titolari di funzioni bancarie dell’impugnazione diretta al controllo della motivazione nei termini più ampi previsti per le sentenze (art. 360, numero 5, cod. proc. civ.).

2.3. - Anche in questo secondo giudizio si é costituita la Banca d’Italia, chiedendone la riunione con l’altro promosso dalla Corte d’appello di Roma (reg. ord. n. 91 del 1997) e sostenendo che la questione debba essere dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

2.4. - In prossimità dell’udienza la difesa della parte privata ha depositato una memoria per ribadire le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione.

2.5. - Anche la Banca d’Italia ha depositato una memoria per illustrare gli argomenti a sostegno delle proprie conclusioni, ricordando in particolare che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha a lungo ritenuto che l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e la loro ricorribilità in cassazione per violazione di legge (art. 111 Cost.) consentissero di sindacare l’adeguatezza della motivazione del provvedimento impugnato con la stessa ampiezza prevista dall’art. 360, numero 5, cod. proc. civ. Soltanto di recente si sarebbe affermato un indirizzo interpretativo restrittivo, avendo la Corte di cassazione a sezioni unite (16 maggio 1992, n. 5888) ritenuto che la violazione di legge quale motivo di ricorso per cassazione, direttamente in base all’art. 111 della Costituzione, comprende il vizio di motivazione soltanto per l’inesistenza, la contraddittorietà o la mera apparenza della motivazione, quale risulta dal testo del provvedimento impugnato, dal quale si deve poter dedurre il processo logico-razionale attraverso il quale il giudice si é formato il proprio convincimento.

Ad avviso della Banca d’Italia, per i procedimenti speciali sarebbe ammissibile una disciplina che non comprende il ricorso per cassazione nella estensione prevista dall’art. 360, numero 5, cod. proc. civ., senza che ne risulti leso il diritto di difendersi in giudizio (art. 24 Cost.), che può essere disciplinato in modo diverso in relazione alle speciali caratteristiche dei singoli procedimenti.

La procedura contenziosa giurisdizionale in materia bancaria presenterebbe, sin dalla precedente legge bancaria (regio decreto-legge n. 375 del 1936), spiccati caratteri di specialità, mantenuti anche dopo le modifiche al sistema penale, che hanno delineato una disciplina comune per le sanzioni amministrative e valutarie; questi caratteri la differenzierebbero anche dalla materia valutaria e monetaria, la quale ha ad oggetto non l’esercizio del credito ma uno strumento di pagamento e di intermediazione nella circolazione di beni e servizi. Difatti in quest’ultimo caso le sanzioni non atterrebbero, come invece in materia creditizia, alle funzioni di vigilanza sull’esercizio di imprese, attribuite ad autorità amministrative indipendenti, quale é la Banca d’Italia. Sarebbe, inoltre, contraddittorio ammettere la specialità del procedimento e del provvedimento, rimesso alla competenza della sola Corte d’appello di Roma, ed escludere poi la possibilità di una disciplina speciale quanto alla ricorribilità in cassazione.

La Banca d’Italia rileva, infine, che l’ulteriore eccezione di illegittimità costituzionale, nuovamente proposta dalla parte privata, sarebbe inammissibile, in quanto diretta ad ampliare le questioni da decidere già fissate con l’ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

1. - Le questioni di legittimità costituzionale investono il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, emanato con il decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.

  1.1. - La Corte d’appello di Roma (reg. ord. n. 91 del 1997) ne denuncia l’art. 145, che disciplina la procedura per l’applicazione delle sanzioni amministrative per violazioni previste dallo stesso testo unico, perchè sarebbe stata innovata la precedente normativa in materia di sanzioni amministrative per gli illeciti di amministratori delle banche italiane al di fuori delle previsioni della legge di delega (art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142), in contrasto, quindi, con l’art. 76 della Costituzione. Difatti le sanzioni per gli amministratori di banche sarebbero state estese a comportamenti in precedenza non previsti (art. 144, commi 3 e 4); sarebbe stato innalzato l’importo delle sanzioni pecuniarie ed esteso l’ambito dei soggetti sanzionabili che, individuati non più per le funzioni in concreto svolte ma per l’ufficio ricoperto, risponderebbero in base ad un criterio di responsabilità oggettiva; sarebbe stato eliminato l’intervento, nella fase amministrativa della procedura per l’irrogazione delle sanzioni, del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio.

  1.2. - La Corte di cassazione (reg. ord. n. 643 del 1997) denuncia l’art. 145, comma 6, dello stesso decreto legislativo n. 385 del 1993, perchè, prevedendo che il reclamo contro il decreto del Ministro del tesoro che applica le sanzioni amministrative é deciso dalla Corte d’appello di Roma in camera di consiglio con decreto motivato, permetterebbe l’impugnazione della decisione con ricorso per cassazione esclusivamente per violazione di legge, in diretta applicazione dell’art. 111 della Costituzione e non, invece, con l’ampiezza prevista per l’impugnazione delle sentenze dall’art. 360, numero 5, cod. proc. civ., che consente di dedurre quale motivo di gravame anche la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio. Ciò determinerebbe la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, giacchè sarebbero ridotte le garanzie di difesa e si determinerebbe una disparità di trattamento rispetto al giudizio di opposizione contro le ordinanze-ingiunzione che applicano sanzioni amministrative pecuniarie in materia valutaria, considerata affine a quella creditizia, alle quali si applica la disciplina comune in materia di sanzioni amministrative (art. 23 del d.P.R. 31 marzo 1988, n. 148, che rinvia alla legge 24 novembre 1981, n. 689), sicchè la sentenza del pretore che decide sulla opposizione avverso le ingiunzioni del Ministro del tesoro é inappellabile ma é ricorribile per cassazione per tutti i motivi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ.

  2. - Le due questioni di legittimità costituzionale hanno ad oggetto, almeno in parte, la stessa disposizione e, sia pure per aspetti e profili diversi, investono entrambe la disciplina delle sanzioni amministrative in materia bancaria e creditizia. I relativi giudizi, essendo connessi, possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

  3. - Si deve anzitutto precisare che la Corte d’appello di Roma, denunciando il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia perchè emanato dal Governo eccedendo, per quanto attiene alla materia delle sanzioni amministrative, dai limiti della delega legislativa (art. 25 della legge n. 142 del 1992), investe, per questo profilo di carattere generale, non solo l’art. 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993, che disciplina la procedura sanzionatoria ed é espressamente indicato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ma anche l’art. 144, richiamato nella motivazione dell’ordinanza stessa, che determina le sanzioni amministrative pecuniarie per infrazioni alle disposizioni dello stesso testo unico.

  Il giudizio di legittimità costituzionale resta tuttavia circoscritto nell’ambito della denunciata carenza assoluta di delega legislativa ad intervenire sulla preesistente disciplina delle sanzioni amministrative, vizio che investirebbe la nuova disciplina nel suo complesso. Il giudizio non si estende, quindi, sino a comprendere la puntuale valutazione della rispondenza di singole innovazioni introdotte dal legislatore delegato a specifici principi o criteri direttivi della delega, dei quali si assume, anzi, l’assoluta carenza. Difatti la menzione di elementi innovativi nell’ordinanza di rimessione é diretta a sottolineare in modo esemplificativo modifiche apportate alla disciplina precedente, senza che sia richiesta la singola valutazione di ciascuna di esse, per ognuna delle quali, del resto, mancherebbe una specifica motivazione sulla rilevanza.

Il giudizio di legittimità costituzionale non può neppure estendersi oltre i limiti fissati dall’ordinanza di rimessione, per comprendere altre norme o diversi profili indicati dalle parti ma che rimangono fuori dalla questione, sia che essi abbiano formato oggetto dell’eccezione proposta dalle parti stesse nel giudizio principale, senza essere stati poi fatti propri dal giudice nell’ordinanza di rimessione, sia che essi siano diretti ad estendere o modificare successivamente il contenuto o i profili determinati dall’ordinanza stessa (cfr., da ultimo, sentenza n. 63 del 1998).

3.1. - Così precisata e circoscritta la questione di legittimità costituzionale, non hanno fondamento le eccezioni di inammissibilità che sono state prospettate dalle parti nelle loro difese.

L’ordinanza di rimessione, denunciando l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo senza che vi fosse una delega in materia di sanzioni, motiva in ordine al vizio che inficerebbe in radice il complesso di norme al quale la Corte d’appello dovrebbe far ricorso per giudicare del reclamo contro il decreto amministrativo che ha applicato la sanzione pecuniaria.

Nè si può ritenere che sia erronea la denuncia delle disposizioni che riguardano le sanzioni amministrative contenute nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (artt. 144 e 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993), sostenendo che la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere proposta per le corrispondenti disposizioni (artt. 33 e 34) del decreto legislativo n. 481 del 1992, di attuazione della direttiva comunitaria 89/646/CEE, alle quali risalirebbe il denunciato vizio di eccesso di delega e che sono alla base del successivo testo unico di coordinamento con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia. Difatti le norme denunciate vivono nell’ordinamento nel contenuto prescrittivo espresso dagli artt. 144 e 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993. Inoltre il nuovo testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia costituisce la conclusione del procedimento di adeguamento dell’ordinamento nazionale alla seconda direttiva comunitaria nel settore degli enti creditizi, volta ad armonizzare le disposizioni degli Stati membri per pervenire al reciproco riconoscimento delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza, così consentendo agli enti autorizzati nello Stato di origine di esercitare la loro attività in tutta la Comunità europea. Per perseguire l’obiettivo indicato dalla direttiva comunitaria attuando le prescrizioni della stessa, la legge n. 142 del 1992 ha contestualmente conferito al Governo due deleghe complementari da eseguire in successione: la prima (art. 25, comma 1) destinata ad attuare la direttiva del Consiglio che riguarda l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio (89/646/CEE); la seconda, in rispondenza anch’essa alla medesima disciplina comunitaria, volta a coordinare in un testo unico le nuove disposizioni e le altre in materia bancaria (art. 25, comma 2). Questa preordinata successione di atti fa sì che il testo unico, approvato con il decreto legislativo n. 385 del 1993, si caratterizzi, secondo quanto questa Corte ha già avuto occasione di rilevare (sentenza n. 224 del 1994), anch’esso come direttamente attuativo di una direttiva comunitaria, per lo stretto collegamento che lega il testo unico ed il decreto legislativo n. 481 del 1992, che ha attuato la direttiva stessa.

3. 2. - Nel merito la questione non é fondata.

La legge n. 142 del 1992 ha dettato disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1991) seguendo lo schema di analoghe leggi precedenti: ha delegato il Governo ad emanare decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione a numerose direttive delle Comunità, stabilendo sia i criteri e principi direttivi generali della delega legislativa, destinati a valere per tutte le direttive comunitarie da attuare, il contenuto delle quali costituisce anch’esso principio e criterio della delega legislativa, sia ulteriori criteri speciali per le diverse materie cui si riferiscono le singole direttive comunitarie.

I distinti criteri, generali e speciali, unitamente al contenuto delle direttive da attuare, sono tutti egualmente posti a base della delega legislativa, salvo che quelli specifici nelle singole materie non costituiscano deroga ai criteri generali; tutti i criteri, dovendosi integrare reciprocamente, vanno coordinati per essere interpretati unitariamente.

In materia di sanzioni i criteri generali della delega legislativa stabiliscono che, se necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei singoli decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie, saranno previste norme contenenti sanzioni penali e amministrative, nel limite qualitativo e quantitativo previsto dalla delega, per infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi (art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 142 del 1992).

Questo criterio generale non é derogato da quelli speciali dettati, in materia di enti creditizi, per l’attuazione della direttiva comunitaria 89/646/CEE. Difatti l’art. 25, primo comma, lettera d), della legge n. 142 del 1992, stabilendo che restano ferme le disposizioni tributarie vigenti per l’accertamento delle imposte dovute dai residenti ed ogni altra disposizione sanzionatoria e penale concernente l’attività creditizia e finanziaria, non esclude la disciplina delle sanzioni dall’ambito della potestà normativa conferita al Governo in base ai criteri generali della delega, ma ne limita l’ampiezza. Il richiamo alle disposizioni tributarie e sanzionatorie vigenti é inserito in un contesto che riguarda l’esercizio dell’attività creditizia di enti non nazionali, i quali, proprio in base alla direttiva comunitaria, possono svolgere la loro attività in Italia, rimanendo tuttavia soggetti, per tale attività, alla disciplina tributaria ed alle sanzioni previste dal diritto nazionale. Non si può, dunque, desumere da tale disposizione, superando il suo tenore letterale ed in deroga ai principi e criteri generali della delega, il divieto di emanare norme che, modificando la disciplina preesistente, contengano sanzioni amministrative per infrazioni alle disposizioni adottate in attuazione della delega stessa.

I criteri e principi direttivi generali della delega relativi alle sanzioni (art. 2, comma 1, lettera d, della legge n. 142 del 1992) rimangono dunque operanti. Essi attribuiscono al Governo una delega assai ampia, enunciata con la medesima formulazione ripetutamente adottata nelle leggi comunitarie annualmente emanate ed in relazione alle quali si é già altra volta espresso l’auspicio, riferito alle sanzioni penali che esigono il massimo di chiarezza e certezza, che la delega sia enunciata con una più precisa indicazione di criteri (sentenza n. 53 del 1997). Anche per le sanzioni amministrative, che, pur essendo afflittive in minor grado, rispondono anch’esse al principio di legalità, i criteri della delega devono essere precisi e vanno rigorosamente interpretati.

La delega legislativa, prevedendo il ricorso alla sanzione secondo un criterio di necessarietà, non prefigura una scelta rimessa all’arbitrio del legislatore delegato o dipendente da una valutazione di mera opportunità; essa esige un ragionevole nesso tra il dovere di tenere il comportamento normativamente richiesto e l’esigenza di sanzionarne con una pena appropriata l’inosservanza, quando siano carenti altri strumenti idonei ad assicurare efficacemente il rispetto della norma.

La valutazione di necessarietà della sanzione amministrativa per la tutela degli interessi sostanziali, cui le norme assistite da tale sanzione si riferiscono, può anche essere ricondotta ad un apprezzamento in precedenza espresso dallo stesso legislatore e si verifica in quei settori dell’ordinamento già caratterizzati dalla presenza di norme sanzionatorie. La valutazione di necessarietà della sanzione può essere desunta anche da altri elementi della delega legislativa, che possono risultare dalle stesse direttive comunitarie da attuare.

Per le sanzioni in materia di attività creditizia operano entrambi i criteri. La valutazione della natura degli interessi coinvolti e della necessità di proteggerli mediante sanzioni amministrative risulta già dalla precedente disciplina di settore, nel cui ambito le modifiche e gli aggiornamenti apportati rispondono alle esigenze di coordinamento e ad un apprezzamento, in questo ambito, di opportunità. Inoltre la direttiva comunitaria da attuare (89/646/CEE), che costituisce anch’essa criterio direttivo della delega legislativa, valuta come suscettibili di sanzione gli enti creditizi ed i dirigenti responsabili che si sono resi colpevoli di infrazioni di disposizioni in materia di controllo dell’esercizio dell’attività creditizia (art. 17), così delimitando l’ambito delle violazioni, la sfera dei soggetti, il criterio di responsabilità, per i quali si può fare ricorso a sanzioni.

3.3. - Non mancano, dunque, per le sanzioni amministrative in materia di attività creditizia, principi che, oltre a porre il fondamento delle norme delegate e fissarne i limiti, costituiscono un criterio interpretativo delle stesse, le quali vanno lette, fin tanto che ciò sia possibile, nella portata e con il significato compatibile con i principi della delega (da ultimo, sentenze n. 15 del 1999 e n. 418 del 1996). Questo criterio interpretativo vale per le singole disposizioni menzionate nell’ordinanza di rimessione quale esempio di innovazione, mentre si assume che la legge di delega non avrebbe consentito di toccare in alcun modo la disciplina delle sanzioni quale risultava dalle norme preesistenti.

Pur senza procedere ad uno specifico esame di tali disposizioni, che, come si é già precisato, andrebbe oltre l’oggetto del presente giudizio, é da sottolineare che la portata normativa delle disposizioni stesse, lette in coerenza con i principi della delega, non consente di affermare che i dirigenti responsabili, da individuare proprio in ragione dell’esercizio dei poteri inerenti alle loro funzioni, possano subire sanzioni indipendentemente da ogni elemento di colpa, richiesto dalla regola generale, comune in materia di sanzioni amministrative, da applicare in ogni ipotesi in cui si configuri tale tipo di sanzioni (artt. 3 e 12 della legge n. 689 del 1981) ed evidentemente presupposta dall’art. 144 del decreto legislativo n. 385 del 1993. Del resto questa interpretazione risponde anche alla direttiva comunitaria da attuare con la delega, che individua come suscettibili di sanzioni i dirigenti "responsabili" che si siano resi "colpevoli" delle infrazioni (art. 17 della direttiva 89/646/CEE).

Per quanto riguarda, poi, la procedura per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la delega consentiva, proprio nell’ambito del coordinamento delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria, di modificare la determinazione degli organi competenti a provvedere, tenendo conto di modifiche apportate alla articolazione delle loro competenze. In questa prospettiva, poteva essere riservata al Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio l’alta vigilanza in questa materia, che viene esercitata avvalendosi della Banca d’Italia, contro i cui provvedimenti esso decide in sede di reclamo (artt. 2 e 9 del decreto legislativo n. 385 del 1993), senza prevedere che lo stesso Comitato continui ad esprimere il parere sull’adozione di singoli provvedimenti sanzionatori.

4. - L’altra questione di legittimità costituzionale investe esclusivamente l’art. 145, comma 6, del decreto legislativo n. 385 del 1993, che non consentirebbe di impugnare con ricorso per cassazione, con la stessa ampiezza prevista per la insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza (art. 360, numero 5, cod. proc. civ.), il decreto della Corte d’appello di Roma che decide il reclamo contro il provvedimento con il quale il Ministro del tesoro ha applicato la sanzione amministrativa.

4.1. - Deve essere anzitutto disattesa la richiesta, preliminarmente avanzata dalla parte privata, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 145, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 385 del 1993, che attribuisce esclusivamente alla Corte d’appello di Roma la competenza a decidere sui reclami contro il provvedimento del Ministro del tesoro che applica le sanzioni amministrative previste dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia.

Si tratta di una eccezione già proposta dal ricorrente nel corso del giudizio principale e dichiarata manifestamente infondata dalla Corte di cassazione, che la parte non può riproporre in questa sede per ampliare, rispetto ai limiti fissati dall’ordinanza di rimessione, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. Nè la Corte costituzionale può sollevare incidentalmente davanti a sè tale questione, che non ha carattere di pregiudizialità rispetto alla decisione nel giudizio di legittimità costituzionale del quale é stata investita (cfr. sentenza n. 442 del 1993; ordinanza n. 492 del 1993).

4.2 - La questione di legittimità costituzionale é stata proposta dalla Corte di cassazione sulla base del suo più recente orientamento interpretativo, che esclude l’equiparazione assoluta tra il ricorso per cassazione disciplinato dalle regole del processo civile, e il ricorso che, in diretta applicazione dell’art. 111 della Costituzione, deve essere sempre ammesso, in caso di violazione di legge, contro ogni provvedimento giurisdizionale che, indipendentemente dalla sua forma, abbia un contenuto decisorio assimilabile alla sentenza.

Nel primo caso il ricorso per cassazione che denuncia il vizio logico della sentenza impugnata offrirebbe alle parti uno strumento di tutela che va oltre la garanzia minima assicurata dalla Costituzione, consentendo il confronto del contenuto della motivazione con le risultanze del processo.

Nel caso, invece, del ricorso per cassazione direttamente collegato all’art. 111 della Costituzione, che non recepisce nè costituzionalizza la disciplina del ricorso per cassazione dettata per il processo civile, potrebbe essere denunciato il vizio della motivazione nei limiti in cui questa é dovuta per ogni provvedimento giurisdizionale. In ogni caso la motivazione non deve essere solo apparente ed il supporto argomentativo che con essa si esprime va valutato in base al testo del provvedimento impugnato, senza che il controllo comprenda il sindacato sul valore e sulla ponderazione, operata dal giudice di merito, degli elementi di fatto prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio.

4.3 - I dubbi di legittimità costituzionale, prospettati in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, per la tutela giurisdizionale meno intensa accordata dalla disposizione denunciata rispetto a quella prevista per la sentenza che conclude il giudizio di opposizione alle comuni ordinanze-ingiunzione che applicano sanzioni pecuniarie amministrative anche in materia valutaria, non sono fondati.

Rientra nella discrezionalità del legislatore, da esercitare nei limiti della ragionevolezza, modellare i procedimenti per l’applicazione delle sanzioni amministrative e disciplinare l’esercizio della tutela giurisdizionale (cfr. sentenze n. 94 del 1996 e n. 471 del 1992; ordinanze nn. 448 e 305 del 1998), che é necessario prevedere, nei confronti di tali provvedimenti.

La procedura sanzionatoria in materia bancaria e creditizia, delineata dall’art. 145 del decreto legislativo n. 385 del 1993, ha carattere di specialità rispetto a quella che riguarda le altre violazioni punite con una sanzione amministrativa pecuniaria, espressamente prevista come disciplina comune ma derogabile (art. 12 della stessa legge n. 689 del 1981).

La particolarità della materia, direttamente inerente alla vigilanza sul corretto esercizio dell’attività da parte degli enti autorizzati allo svolgimento dell’attività bancaria, e la specialità dei controlli e delle procedure previsti in tale settore, giustificano, in continuità con la precedente disciplina (art. 90 del regio decreto-legge n. 375 del 1936), la scelta del legislatore di mantenere con carattere di specialità anche la procedura sanzionatoria amministrativa, in caso di infrazioni, e di assicurare la tutela giurisdizionale secondo il rito camerale, con i conseguenti limiti quanto alla impugnabilità della decisione assunta con decreto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 144 e 145 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 145, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 1999.

Presidente Renato GRANATA

Redattore Cesare MIRABELLI

Depositata in cancelleria il 4 marzo 1999.