SENTENZA N. 418
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 (Ordinamento della professione di dottore commercialista) e 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068 (Ordinamento della professione di ragioniere e perito commerciale) promosso con ordinanza emessa il 10 ottobre 1995 dal Giudice di pace di Fano nel procedimento civile vertente tra Polytech s.r.l. e Manifattura del Legno s.r.l., iscritta al n. 929 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 novembre 1996 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso del procedimento promosso dalla società "Polytech s.r.l." corrente in Pesaro, per sentire condannare la ditta "MDL - Manifattura del legno s.r.l." al pagamento della somma di o 3.570.000, oltre ad interessi, a titolo di compenso per l'attività di consulenza aziendale svolta in favore della convenuta, il Giudice di pace di Fano ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, nonche' 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 (Ordinamento della professione di dottore commercialista) e 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068 (Ordinamento della professione di ragioniere e perito commerciale), nella parte in cui riservano concretamente in via esclusiva a quei professionisti l'esercizio professionale nelle materie della "economia" e della "consulenza aziendale".
Il giudice remittente preliminarmente rileva di aver risolto positivamente la questione, posta d'ufficio, dell'ammissibilità della pretesa fatta valere in giudizio nell'impero della legge 23 novembre 1939, n. 1815, la quale all'art. 2 pone il divieto di "costituire, esercitare o dirigere .... società, istituti .... i quali abbiano lo scopo di dare ai terzi prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria".
La natura dell'attività esercitata dall'attrice di consulenza aziendale, secondo il giudice a quo, afferendo alla materia economica, esorbita dal campo di applicazione del divieto di cui all'art. 2 della legge n. 1815 del 1939.
Nella parte motiva dell'ordinanza di rimessione, lo stesso giudice sostiene che l'attività di consulenza aziendale e' riservata, per specifiche disposizioni, nei confronti delle quali solleva questione di costituzionalità, ai dottori commercialisti e ai ragionieri iscritti negli appositi albi.
Oltre al divieto all'esercizio dell'attività di consulente da parte di chi non sia iscritto negli albi delle categorie professionali indicate, sempre ad avviso del giudice remittente, l'art. 2229 cod. civ., prevedendo che la legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali e' necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi, con la conseguenza che i non iscritti non possono pretendere il compenso di tipo professionale, preclude l'esame della domanda della società ricorrente volta ad ottenere la condanna al pagamento del compenso per l'attività svolta in favore della convenuta.
Proprio sul carattere dell'attribuzione esclusiva dell'attività di consulenza aziendale si fonda la violazione del criterio direttivo della legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060 sulla revisione degli ordinamenti professionali di dottore commercialista e di ragioniere, che all'articolo unico, lettera a), dispone che "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva".
Oltretutto gli ultimi commi degli artt. 1 dei d.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, dettati in applicazione del criterio direttivo della legge delega appena richiamata sul divieto di attribuzione esclusiva delle materie indicate agli iscritti negli albi dei commercialisti, ben lungi dall'aver tale effetto, hanno di contro, concretamente impedito l'esercizio di tale attività di consulenza a chi non sia iscritto negli albi, dal momento che, secondo il suo tenore testuale, solo i professionisti iscritti in altri albi possono esercitare nelle stesse materie, purche' loro attribuite da leggi e regolamenti.
Poiche' nessuna legge prescrive alcun "albo dei consulenti aziendali", ne consegue che l'esercizio in via esclusivo dell'attività professionale in materia "economica" ai commercialisti e ai ragionieri assorbe anche quella di consulenza aziendale, determinando l'esercizio esclusivo in favore di questi ultimi.
Si dubita, altresì, della legittimità costituzionale, sotto il profilo della ragionevolezza, del diritto di eguaglianza e del diritto al lavoro oltre che a quello d'impresa, della facoltà di esercitare in materia economica, e in particolare in quella di consulenza aziendale, "ai soli professionisti singoli", non organizzati in forma societaria.
2. Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri eccependo preliminarmente l'irrilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal Giudice di pace di Fano nel giudizio a quo, tenuto conto che l'attrice e' una società di capitali e non un professionista cui si riferiscono le disposizioni impugnate.
Nel merito l'Avvocatura generale dello Stato contesta l'interpretazione sistematica della normativa di riferimento su cui si fondano le questioni di costituzionalità, soprattutto sull'attribuzione in via esclusiva ai dottori commercialisti e ai ragionieri delle "materie economiche" e "dell'economia aziendale".
L'espressa attribuzione della competenza all'esercizio professionale nelle materie appena indicate sia ai dottori commercialisti che ai ragionieri e ai periti commerciali nonche' a tutti gli altri professionisti iscritti in altri albi cui quelle stesse materie siano attribuite per leggi e regolamenti consente, infatti, di ritenere assolto in pieno il dettato imposto dal legislatore delegante.
Da ultimo l'asserito contrasto con i parametri normativi costituzionali della limitazione ai soli professionisti singoli, non organizzati in forma di società, si rileva infondato una volta individuata la ratio della limitazione che muove dall'intuitiva esigenza, corrispondente ad un rilevante interesse pubblico, che le attività in questione, che godono di un regime giuridico specifico, siano esercitate unicamente da professionisti iscritti in appositi albi.
Considerato in diritto
1. Le questioni sottoposte all'esame della Corte riguardano l'art. 1, primo e ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 e l'art. 1, primo e ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068, nelle rispettive parti in cui riservano in via esclusiva l'esercizio professionale nelle materie dell'economia e della consulenza rispettivamente ai dottori commercialisti, e ai ragionieri e periti commerciali, sotto il profilo della violazione dell'art. 76 della Costituzione per contrasto del decreto delegato con il criterio direttivo formulato alla lettera e) della legge delega "sulla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere" (legge 28 dicembre 1952, n. 3060), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva"; le stesse norme nella parte in cui riservano ai professionisti singoli, non organizzati in forma societaria, l'esercizio professionale nelle stesse materie, per violazione degli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione sotto i profili della ragionevolezza, del diritto di uguaglianza, del diritto di lavoro e del diritto di impresa.
2. L'eccezione di inammissibilità per irrilevanza della questione, sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato, non può essere accolta in quanto l'ordinanza del giudice a quo motiva, sia pure succintamente, sulla rilevanza, con una valutazione astrattamente congrua e non contraddittoria.
3. Le questioni sono prive di fondamento, in quanto le norme delegate denunciate possono essere interpretate in senso conforme ai principi e ai criteri direttivi fissati nella legge delega, anche perche' l'interprete e' tenuto a scegliere, tra le varie interpretazioni in astratto possibili, quella che non si pone in contrasto con la Costituzione (v., da ultimo, sentenze n. 296 del 1995 e n. 360 del 1995).
Infatti, di fronte alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere) che "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva", deve ritenersi che tale principio, di per se' esaustivo, poteva intendersi derogato solo per effetto di un'univoca ed espressa disposizione attributiva di funzioni e competenze esercitabili solo dalla categoria professionale presa in considerazione dalle norme delegate, che ne stabilivano l'ordinamento (con esclusione di ogni altra categoria), a parte ogni profilo sulla legittimità di una tale deroga.
Nella specie non solo nelle norme delegate non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività; e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti.
L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei d.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, per quel che qui più rileva, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi.
Inoltre, una tale interpretazione si impone alla luce dei principi affermati da questa Corte (sentenza n. 345 del 1995), in materia di ordinamenti di categorie professionali, improntati a concorrenza parziale ed interdisciplinarità e, non già a tutela corporativa di ordini e collegi professionali, "il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica".
Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari).
4. Passando all'esame della specifica attività oggetto della ordinanza di rimessione, deve essere sottolineato che la giurisprudenza prevalente, coerentemente al quadro normativo di riferimento delineato, ha maturato l'indirizzo di considerare l'attività di consulenza aziendale come non riservata agli iscritti nell'albo dei dottori commercialisti o nell'albo dei ragionieri e periti commerciali, potendo essere svolta anche da altri soggetti non iscritti in albo.
Dalle predette considerazioni non solo risulta la esclusione della violazione dell'art. 76 della Costituzione, ma anche viene in radice eliminata ogni possibilità che le norme impugnate si pongano in contrasto, secondo i profili denunciati (ragionevolezza, eguaglianza, diritto di lavoro e libertà di impresa), con gli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 (Ordinamento della professione di dottore commercialista) e 1, primo ed ultimo comma, del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068 (Ordinamento della professione di ragioniere e perito commerciale), sollevata in riferimento agli artt. 76, 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal Giudice di pace di Fano, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/12/96.
Renato GRANATA, Presidente
Riccardo CHIEPPA, Redattore
Depositata in cancelleria il 27/12/96.