Sentenza n. 341/98

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SENTENZA N. 341

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI  

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO  

- Dott. Riccardo CHIEPPA  

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE  

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA  

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 2 luglio 1997 dal Tribunale di Taranto nel procedimento civile vertente tra Porfido Vita e Moschetti Girolama ed altri, iscritta al n. 808 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1997.

  Visti l'atto di costituzione di Moschetti Girolama, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell'udienza pubblica del 30 giugno 1998 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

  uditi l'avv. Attilio Sebastio per Moschetti Girolama e l'Avvocato dello Stato Luigi Mazzella per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. -In sede di riassunzione di un giudizio civile davanti al Tribunale di Taranto, a seguito di dichiarazione, da parte della competente Corte d'appello, della nullità della sentenza di primo grado per pretermissione di litisconsorti necessari, detto Tribunale - rilevato che la causa era stata assegnata alla stessa sezione ed allo stesso estensore dell'impugnata sentenza, e che erano state rigettate sia l'istanza di ricusazione proposta dalla difesa della parte già dichiarata soccombente, sia l'istanza di astensione "per gravi ragioni di convenienza" avanzata dall'istruttore -, con ordinanza emessa il 2 luglio 1997 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., "nella parte in cui limita l'obbligo di astenersi (e quindi la proponibilità della ricusazione, ai sensi del successivo art. 52 cod. proc. civ.) al caso in cui il magistrato abbia conosciuto la causa "in altro grado del processo", con preclusione della sua efficacia nella diversa ipotesi di pregressa conoscenza da parte dello stesso giudice in "altra fase del processo"".

  Secondo il rimettente, la denunciata norma pone in essere un'irragionevole disparità di trattamento rispetto alle ipotesi di cui all'art. 383, primo comma, cod. proc. civ. (che prevede il rinvio, dopo la cassazione, ad altro giudice di pari grado) e di cui allo stesso art. 51, numero 4, cod. proc. civ. (che fa obbligo di astenersi al magistrato che abbia dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o deposto come testimone o ne abbia conosciuto come magistrato in altro grado del processo): ipotesi alle quali é sottesa l'identica esigenza di precludere al giudice, che si sia già pronunciato sul merito della controversia, di conoscere nuovamente la stessa causa, rinnovando logicamente la stessa pronuncia.

  Il rimettente osserva in proposito che, se costituisce avvertita necessità del legislatore di non coinvolgere più volte il giudice nella valutazione della medesima causa, é evidente che tale bisogno ricorre anche allorchè il giudizio o la valutazione siano stati espressi in altra fase del medesimo processo.

  Ritiene, inoltre, che l'esclusione dell'obbligo di astensione, nel caso di pregressa cognizione della causa in altra fase, determina una lesione del diritto di difesa della parte, atteso che - incidendo sulla stessa imparzialità e terzietà del giudice, in ragione della cosiddetta forza di "prevenzione" (definita dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 432 del 1995, quale "naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso od un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento") - potrebbero rivelarsi in concreto ininfluenti nuovi argomenti difensivi e nuovi mezzi di prova a fronte di un orientamento decisionale del giudice, ormai determinato.

  2. - Nel presente giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza delle sollevate questioni.

  Rileva l'Avvocatura che, dalle sentenze rese dalla Corte in tema di incompatibilità nel processo penale, sarebbero estrapolabili questi principi guida: 1) la necessità di evitare che condizionamenti o apparenze di condizionamenti derivanti da precedenti valutazioni - compiute nell'àmbito del medesimo procedimento - possano pregiudicare o far apparire pregiudicato il giudizio; 2) la peculiare rilevanza da darsi all'intervenuta valutazione degli atti ai fini della decisione, la quale: a) deve ricadere sulla medesima res judicanda; b) non deve essere formale ma di contenuto; c) dev'essere espressa in una fase diversa del processo.

  3. - Si é costituita anche la parte privata, convenuta nel giudizio a quo, concludendo in via principale per il rigetto della sollevata questione.

  Essa osserva che la denunciata norma, parlando solo di un grado di processo che sia nuovo rispetto a quello celebrato - non essendo possibile ermeneuticamente che con la locuzione "altro grado" s'intenda esclusivamente "grado di impugnazione" - già impone al giudice che abbia giudicato (e perfino al giudice che abbia solo "conosciuto" contenutisticamente della questione) di astenersi dal conoscerne ancora, indipendentemente dalla "numerazione" del grado di processo nel quale la conoscenza della questione sia intervenuta, purchè si tratti, in effetti, di un grado di processo celebrato in precedenza e conclusosi con sentenza.

  Secondo la parte, dunque, la ratio sistematica sottesa alla norma - che trova particolari applicazioni anche negli artt. 383 e 669-terdecies cod. proc. civ. - é quella di escludere che un giudice possa essere due volte giudice nella medesima causa, non assumendo importanza dirimente la successione dei gradi di impugnazione, bensì l'alterità del grado del processo che si celebra, rispetto a quelli già celebrati.

  Subordinatamente, qualora non potesse seguirsi tale interpretazione, la deducente conclude per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, la quale verrebbe in contrasto, innanzitutto, con il principio di uguaglianza, per disparità di trattamento - oltre che rispetto alle analoghe situazioni disciplinate dai richiamati artt. 383 e 669-terdecies cod. proc. civ. - nel suo stesso àmbito applicativo, poichè, mentre ai cittadini la cui causa sia stata decisa validamente in primo grado é assicurata, da quel momento, la diversità del giudice, al cittadino che vedesse la sua causa decisa invalidamente in primo grado sarebbe invece riservato il contrario, permettendosi al giudice di reiterare la sua sentenza.

  Rileva, poi, come questa Corte (di cui vengono richiamate le sentenze n. 131 del 1996 e n. 432 del 1995) abbia enucleato una serie di imprescindibili criteri, così riassumibili: a) il principio di imparzialità del giudice non é altro che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell'essenziale la funzione giurisprudenziale; b) il valore totalizzante del principio di terzietà consente di ritenere incostituzionali tutte le norme che, a fronte di tale principio, si rivelino lacunose, ancorchè dettate proprio in vista dell'attuazione del criterio di terzietà; c) il giusto processo e l'imparzialità del giudice possono essere compromessi dalla cosiddetta "forza di prevenzione", tanto più quando un giudice emani un provvedimento che importi una valutazione della questione giurisdizionale, poi ancora sottopostagli.

  In una successiva memoria la parte insiste per l'accoglimento della già rassegnata conclusione principale, sottolineando come sia giurisprudenza consolidata della Corte (da ultimo riaffermata nella sentenza n. 363 del 1997, riguardante l'ipotesi di rinvio al primo giudice effettuato dalla corte di appello nel giudizio penale) quella secondo cui, in caso di possibili diverse interpretazioni, debba essere preferita quella conforme ai princìpi costituzionali.

Considerato in diritto

  1. - Il Tribunale di Taranto - nel corso di un giudizio assegnato alla stessa sezione ed allo stesso relatore, in sede di riassunzione per intervenuta dichiarazione, da parte della Corte d'appello, della nullità della sentenza di primo grado per pretermissione di litisconsorti necessari - dubita della legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., "nella parte in cui esclude l'obbligo di astensione del giudice che abbia conosciuto della causa in altra fase dello stesso processo".

  A parere del rimettente, la norma viola: a) l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento rispetto alle ipotesi di cui allo stesso art. 51, numero 4, e di cui all'art. 383, primo comma, cod. proc. civ., nelle quali é individuabile l'identica ratio, che é quella di precludere al giudice, il quale si sia già pronunciato sul merito della controversia, di conoscere nuovamente la stessa causa; b) l'art. 24 Cost., per il vulnus arrecato alla imparzialità-terzietà del giudice, minata dalla "forza di prevenzione, cioé dalla naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso od un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento" (secondo quanto affermato nella sentenza n. 432 del 1995 di questa Corte).

  2. - La questione non é fondata.                                                                                

  2.1. - Questa Corte, dopo aver affermato in più occasioni che il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a tutti i tipi di processo, ha chiarito che, tuttavia, esso può e deve trovare attuazione in relazione specifica a ciascuno di questi (sentenza n. 326 del 1997).

  Ha inoltre rilevato che le situazioni pregiudicanti descritte dall'art. 34 cod. proc. pen. sono "tipicamente individuate dal legislatore in base alla presunzione che siano di per sè incompatibili con l'esercizio di ulteriori funzioni giurisdizionali nel medesimo procedimento, a prescindere dalle modalità con cui la funzione é stata svolta, ovvero dal concreto contenuto dell'atto preso in considerazione" (sentenza n. 351 del 1997; v. anche le sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997). Ed ha, comunque, precisato che la trasferibilità dei princìpi enunciati in tema di art. 34 cod. proc. pen. (anche dalla decisione n. 432 del 1995, richiamata dal rimettente) al processo civile non può non risentire della netta distinzione tra questo ed il processo penale, che é essenzialmente finalizzato all'obbligatorio accertamento del fatto-reato ascritto all'imputato, nel cui àmbito la presunzione di un'apprezzabile influenza sul meccanismo psicologico che presiede alla formazione del convincimento del giudice non subisce di regola la mediazione dell'impulso delle parti, operante invece nel processo civile, normalmente informato al principio dispositivo, svolgentesi attraverso il contraddittorio, su un piano di "parità delle armi" (v., oltre alla già citata sentenza n. 326 del 1997, la n. 51 del 1998).

  Esigenza imprescindibile in ogni caso, pertanto, rimane solo quella di evitare che lo stesso giudice sia costretto, nel decidere, a ripercorrere l'identico itinerario logico precedentemente seguìto; sicchè, condizione necessaria per dover ritenere un'incompatibilità endoprocessuale é la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131 del 1996).

  2.2. - Tanto premesso, va osservato che nel caso di rinvio cosiddetto restitutorio (o improprio) - com'é quello di specie, contemplato nell'art. 354 cod. proc. civ.- la rimessione della causa da parte della corte di appello consegue all'accertamento dell'inefficace esercizio del potere giurisdizionale nel precedente giudizio in ragione dell'inosservanza del principio del contraddittorio, che comporta la rimozione della pronunciata sentenza per nullità ab initio della trattazione del processo. E dunque - secondo quanto hanno affermato anche le Sezioni unite della Corte di cassazione (nella sentenza 19 dicembre 1991, n. 13714) - si determina "un reinizio dello stesso grado di giudizio nullamente svoltosi in precedenza, non di una fase configurabile come complementare a quella del processo di impugnazione".

  La restituzione della causa nella situazione in cui si trovava al momento del verificarsi dell'accertata nullità fa sì che l'evoluzione processuale sia destinata, di norma, a svilupparsi in una trattazione del tutto distinta, rispetto a quella precedentemente tenuta in violazione del diritto di partecipazione di una o più parti, il cui apporto può fare assumere al processo una diversa configurazione anche sotto il profilo oggettivo, oltre che imprimere al medesimo un diverso impulso sotto il profilo istruttorio. La stessa legittimazione dei nuovi soggetti a proporre eccezioni e domande riconvenzionali (le quali tutte concorrono con la domanda principale a formare l'oggetto del giudizio) comporta, di massima, che in sede di rinvio il processo non sia comunque da considerarsi imperniato ancora sull'originario thema decidendum.

  Mancando in linea di principio la sovrapposizione del nuovo giudizio a quello, viziato, precedentemente svolto, viene allora meno il paventato pericolo di prevenzione del giudice, insorgente proprio e solo dalla sovrapponibilità di due cognizioni della medesima ampiezza. Pertanto appare coerente, sotto il profilo della imparzialità e terzietà del giudice, la scelta legislativa di non vietare la cognizione e la decisione della causa da parte del medesimo giudice.

  Il che, beninteso, non esclude - viceversa valorizzandone la generale portata deontologica - il dovere del singolo giudice di avvalersi dello strumento previsto nel capoverso dello stesso art. 51 cod. proc. civ., allorquando ravvisi la sussistenza di gravi ragioni d'astensione (cfr. sentenza n. 326 del 1997) in quanto si sia venuta nel concreto a profilare proprio quella sovrapposizione dei due giudizi, testè esclusa in via generale.

            2.3. - Le considerazioni sopra svolte onde dissipare i dubbi di violazione dell'art. 24 Cost. e di manifesta irragionevolezza, prospettati dal rimettente, contribuiscono a rendere evidente che la denunciata norma non lede neanche il principio di eguaglianza per disparità di trattamento.

            In proposito occorre aggiungere soltanto che le norme richiamate dal giudice a quo quali tertia comparationis disciplinano fattispecie palesemente diverse. Quella di cui al primo comma dell'art. 383 cod. proc. civ., infatti, riguarda la contrapposta categoria del rinvio (cosiddetto proprio) con funzione prosecutoria del giudizio davanti ad "altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza cassata" (tanto che lo stesso articolo, nel terzo comma, dispone in piena conformità all'art. 354, per il caso di rinvio cosiddetto improprio); mentre la norma di cui all'art. 51, numero 4, si riferisce ad ipotesi eterogenee, tenute distinte dal legislatore a riprova della loro disomogeneità epperò non comparabilità reciproca.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Taranto, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1998.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Cesare RUPERTO

Depositata in cancelleria il 24 luglio 1998.